Sentenza N. 181 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
31/05/1996
Data deposito/pubblicazione
31/05/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
27/05/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano
VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE;
commi 1 e 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà), promosso con ordinanza emessa
il 19 luglio 1995 dal magistrato di sorveglianza di Alessandria
nell’istanza proposta da Roviera Marino, iscritta al n. 538 del
registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 1995;
Udito nella camera di consiglio del 17 aprile 1996 il Giudice
relatore Giuliano Vassalli.
pronunciarsi sulla istanza diretta ad ottenere un permesso premio,
presentata da detenuto condannato per uno dei reati previsti
dall’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354
(precisamente, per il reato di rapina aggravata), a cui era stata
revocata la misura alternativa alla detenzione della semilibertà con
provvedimento del 25 ottobre 1994 del tribunale di sorveglianza di
Torino perché sussistevano a suo carico gravi indizi di colpevolezza
in ordine alla commissione di altre rapine, rilevava che l’istanza
avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile; infatti, a norma
dell’art. 58-quater, comma 3, l’interessato avrebbe potuto di nuovo
aver accesso al beneficio del permesso premio soltanto il 25 ottobre
1997 (tre anni dalla data del provvedimento di revoca della misura
alternativa), nonostante fosse stato assolto in ordine ai fatti per i
quali la revoca era stata disposta. E ciò perché l’interpretazione
giurisprudenziale è nel senso che se non sia stata proposta
impugnazione avverso il provvedimento di revoca della misura
alternativa gli effetti di essa permangono qualunque sia la sorte
dell’eventuale procedimento penale che ha provocato la revoca.
Tanto premesso, ha, con ordinanza del 19 luglio 1995, sollevato, in
riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione,
questione di legittimità dell’art. 58-quater, commi 1 e 2, della
legge 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dall’art. 1 del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12
luglio 1991, n. 203, nella parte in cui non prevede “che l’effetto
preclusivo indicato nelle suddette norme non opera nei casi in cui,
dispostasi la revoca di una misura alternativa per sussistenza di
indizi di colpevolezza a carico del condannato, in relazione al
procedimento penale pendente, intervenga sentenza di assoluzione
perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto”.
L’art. 27, terzo comma, della Costituzione sarebbe violato
profilandosi un irragionevole ostacolo al perseguimento della
finalità rieducativa della pena.
Risulterebbe vulnerato anche il principio di eguaglianza per
l’irrazionale equiparazione della disciplina della revoca di misure
alternative per soggetti poi assolti che non abbiano impugnato il
provvedimento di revoca alla disciplina della revoca stessa nei
confronti di soggetti condannati con sentenza definitiva per
comportamenti illeciti tenuti nel corso di esecuzione della misura.
2. – Nel giudizio davanti alla Corte non si è costituita la parte
privata né ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei
Ministri.
riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, della
legittimità dell’art. 58-quater, commi 1 e 2, della legge 26 luglio
1975, n. 354, introdotto dall’art. 1 del decreto-legge 13 maggio
1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, nella
parte in cui “non prevedono che l’effetto preclusivo indicato nelle
suddette norme non opera nei casi in cui, dispostasi la revoca di una
misura alternativa per sussistenza di indizi di colpevolezza a carico
del condannato, in relazione a procedimento penale pendente,
intervenga sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o
per non aver commesso il fatto”.
Più in particolare, richiesto della concessione di un permesso
premio da parte di persona condannata per uno dei delitti di cui
all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (precisamente il delitto
di rapina aggravata), persona alla quale era stata revocata dal
tribunale di sorveglianza la misura alternativa alla detenzione della
semilibertà per la sussistenza a suo carico di gravi indizi di
colpevolezza relativamente alla commissione di altre rapine, dalle
quali era stato successivamente assolto con sentenza del tribunale di
Milano in data 16 maggio 1995, il giudice a quo, premesso che la
richiesta sarebbe da ritenere ugualmente inammissibile operando la
rigorosa preclusione derivante dalle norme denunciate, ravvisa
nell’assetto normativo così censurato violazione, oltre che del
principio della funzione rieducativa della pena, anche dell’art. 3
della Costituzione, per l’irragionevole equiparazione dell’identico
regime preclusivo discendente dalla revoca di misure alternative alla
detenzione nei confronti di soggetti poi assolti relativamente ai
reati che avevano provocato la cessazione della misura, a quello
operante nei riguardi di chi, invece, in ordine a tali reati abbia
riportato condanna. L’impossibilità di conseguire il beneficio
troverebbe, peraltro, un’univoca conferma interpretativa nella
giurisprudenza della Corte di cassazione, ricordata dal rimettente,
attenta a precisare come la decisione assolutoria non rimuove gli
effetti dell’ordinanza di revoca della semilibertà, divenuta
esecutiva per non essere stata impugnata. Cosicché, solo nel caso in
cui il condannato abbia proposto ricorso per cassazione avverso
l’ordinanza di revoca della misura sarebbe divenuto possibile
accedere al richiesto beneficio.
2. – La questione non è fondata per essere erroneo proprio il
presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo. Donde la
necessità di individuare gli esatti passaggi ermeneutici che il
rimettente avrebbe dovuto percorrere.
3. – Come è noto, l’art. 58-quater, comma 1, della legge n. 354
del 1975 preclude l’ammissione al lavoro esterno, ai permessi premio,
all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione
domiciliare ai condannati per uno dei delitti previsti dall’art.
4-bis, comma 1, della stessa legge, che abbiano posto in essere una
condotta punibile ex art. 385 del codice penale. Un divieto che opera
per il periodo di tre anni da quando è stata posta in essere la
condotta di evasione (art. 58-quater, comma 3). L’art. 58-quater,
comma 2, stabilisce, a sua volta, lo stesso divieto nei confronti dei
condannati a cui sia stata revocata una misura alternativa ai sensi
degli artt. 47, undicesimo comma (affidamento in prova al servizio
sociale: nel caso in cui il comportamento del soggetto, contrario
alle leggi o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la
prosecuzione della prova), 47-ter, comma 6 (detenzione domiciliare:
se il comportamento del soggetto, contrario alle leggi o alle
prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione delle
misure), 51, primo comma (semilibertà: il provvedimento può essere
in ogni tempo revocato quando il soggetto non si appalesi idoneo al
trattamento). In tali casi il divieto dei benefici opera sempre per
un periodo di tre anni decorrenti, però, da quando è stato emesso
il provvedimento di revoca (art. 58-quater, comma 3). Ciò per
sottolineare, anzitutto, come i provvedimenti di revoca di cui
all’art. 58-quater, comma 1, sono (o possono essere) pronunciati –
salvo che per chi abbia posto in essere una condotta punibile a norma
dell’art. 385 del codice penale – non in conseguenza di contegni
oggetto di una specifica descrizione normativa, ma per comportamenti
genericamente incompatibili (o inidonei) con la prosecuzione delle
misure. E fra tali comportamenti è sicuramente da annoverare la
addebitata commissione di un fatto reato, tanto più quando, come nel
caso all’esame del giudice a quo, la fattispecie criminosa contestata
rientri nelle previsioni del comma 1 dell’art. 4-bis della legge n.
354 del 1975. Ne deriva che quando il comportamento esaurisca la sua
significazione debordante dalle esigenze del trattamento nella
commissione di un fatto reato, l’accertamento della sussistenza delle
condizioni che integrano la revoca non può essere attribuita alla
cognizione del magistrato di sorveglianza al quale, però, è da
ritenere, spetta la verifica – in relazione alla tipologia di reato
addebitato e alle circostanze del fatto – in ordine alla sussistenza
delle condizioni previste dagli artt. 47, undicesimo comma, 47-ter,
comma 6, e 51, primo comma, della legge n. 354 del 1975, prima di
adottare il provvedimento di sospensione cautelativa (art. 51-ter)
che deve, a sua volta, essere “ratificato” dal tribunale di
sorveglianza competente per la revoca della misura (art. 70, primo
comma). Il tutto alla stregua della linea interpretativa pressoché
costante in giurisprudenza, nel senso che possono essere valutati
fatti storici costituenti ipotesi di reato riferibili al condannato,
senza necessità di attendere la definizione del relativo
procedimento, indipendentemente dalla circostanza che dal
comportamento contestato possa derivare o no una condanna penale;
perché ciò che conta è la valutazione della condotta del
condannato al fine di stabilire se lo stesso – prescindendo
dall’accertamento giudiziale della sua responsabilità – sia
meritevole dei benefici penitenziari alternativi alla detenzione.
Una linea che parrebbe escludere soluzioni alternative, sia perché
il decreto del magistrato di sorveglianza è destinato ad essere
caducato ove il provvedimento di revoca del tribunale non intervenga
entro trenta giorni dalla sospensione della misura sia perché la
legge non pare autorizzare il tribunale di sorveglianza a sospendere
la decisione. Vero è che avverso il provvedimento di revoca è
consentito il ricorso per cassazione; ma in tale sede le censure che
alla Corte di cassazione sarà consentito prendere in esame non
potranno che investire l’assenza dei presupposti per la revoca (nei
termini peraltro genericamente indicati dagli artt. 47, primo comma,
47-ter, comma 6, 51, primo comma, della legge n. 354 del 1975). Fa
da sola eccezione al detto regime, sempre nell’ipotesi in cui il
presupposto da cui è scaturita la revoca della misura si esaurisca
nell’addebito di un fatto costituente reato, la disciplina dettata
relativamente al delitto di evasione. L’art. 51, quarto comma, ha,
infatti, previsto, in via preliminare, come effetto della denuncia
per il reato di cui all’art. 385 del codice penale esclusivamente la
sospensione della semilibertà e, solo in conseguenza della condanna,
la revoca della misura.
4. – L’effetto ineludibilmente preclusivo additato dal giudice a
quo deriva da una non corretta individuazione del regime normativo ed
in particolare dei rapporti tra revoca della misura e successiva
possibilità di accesso ai benefici di cui all’art. 58-quater, comma
1. Per restare alla misura della semilibertà, è chiaro che
l’inidoneità al trattamento determinata da addebiti non costituenti
reato assume i medesimi connotati finalistici rispetto
all’inidoneità determinata dall’elevazione di un’imputazione per un
fatto costituente reato. Quelli che divergono sono, però, almeno in
taluni casi, i poteri cognitori spettanti al tribunale di
sorveglianza. Nel primo caso, infatti, ci si troverà in presenza di
una cognitio plena, destinata a coinvolgere il fatto addebitato in
tutta la sua rilevanza funzionale; nel secondo caso, invece, non
potrà scaturire che un giudizio meramente incidentale sull’effettiva
consistenza del fatto contestato; ma in entrambi i casi in relazione
ad esigenze che appartengono esclusivamente alle finalità del
trattamento. Ne consegue che quando la revoca è determinata da una
causa “generica”, la questione, assumendo per il tribunale di
sorveglianza carattere principale, comporta, almeno di norma, il
passaggio in giudicato della relativa statuizione ove avverso di essa
non venga proposto ricorso per cassazione. Quando, invece, la revoca
derivi da un comportamento costituente reato e il tribunale la
disponga solo per la gravità e le caratteristiche di esso in
relazione alle esigenze del trattamento, la statuizione, considerata
la sua natura incidentale, viene resa soltanto rebus sic stantibus,
donde la successiva incidenza della decisione sul fatto-reato ove
questa si sostanzi in una pronuncia proscioglitiva e sempre ferma
restando per il tribunale di sorveglianza la possibilità di
ponderare il fatto in tutte quelle connotazioni che possano incidere
sul trattamento.
5. – Dalle considerazioni che precedono può quindi ricavarsi una
prima essenziale conclusione. Che, cioè, la disposizione del comma 2
dell’art. 58-quater (così come quella del comma 1 dello stesso
articolo) sia stata non del tutto correttamente chiamata in causa,
proprio perché l’impossibilità di usufruire dei “benefici”
rappresenta esclusivamente la conseguenza della revoca delle misure
alternative. Dunque, poiché gli effetti derivanti dall’art.
58-quater, commi 1 e 2, scaturiscono soltanto dalla revoca di tali
misure, è al terzo comma dello stesso articolo che sarà necessario
soprattutto aver riguardo oltre che al regime della revoca delle
misure alternative quale delineato dai più volte ricordati artt. 47,
undicesimo comma, 47-ter, comma 6, e 51, primo comma, della legge n.
354 del 1975. Vero è che il giudice a quo ha fondato il giudizio di
inammissibilità della richiesta su quella interpretazione della
Cassazione la quale ha affermato che, essendo ormai la revoca
divenuta definitiva, per la forza di giudicato della statuizione del
tribunale di sorveglianza, non sarebbe consentito l’accesso ai
benefici se non decorsi i termini indicati nel comma 3 dello stesso
art. 58-quater (Sez. I, 9 marzo 1994, Curti). Ma occorre sottolineare
come in quella occasione oggetto del gravame era – piuttosto che gli
effetti conseguenti alla revoca della misura – la revoca della misura
stessa. Una linea, tuttavia, quella ora segnalata, da ritenere
tutt’altro che costante nella giurisprudenza della Corte di
cassazione che, in una diversa occasione, chiamata a decidere su un
ricorso con il quale il condannato aveva censurato il provvedimento
del tribunale di sorveglianza che aveva disatteso la richiesta di
ripristino della semilibertà, revocata per un fatto reato in ordine
al quale era intervenuta sentenza di assoluzione, anziché
richiamarsi alla definitività del provvedimento, ha annullato la
relativa ordinanza perché l’indagine che va condotta per stabilire
se il detenuto sia meritevole della misura “verte sui risultati del
trattamento individualizzato e sull’esistenza delle condizioni che
possano garantirne un graduale reinserimento nella società”. E,
proprio dando rilievo alla sentenza di assoluzione per il reato che
aveva provocato la revoca della misura, la Cassazione ha ritenuto
“non corretta e non coerente la motivazione posta a fondamento del
provvedimento di rigetto” (Sez. I, 27 aprile 1993, Pastafiglia).
Così da ribadire come, attesa la natura incidentale della revoca
della misura quando venga disposta per l’accusa di un reato,
allorché intervenga pronuncia di assoluzione il tribunale è tenuto
a verificare se una simile decisione debba o no incidere sulla revoca
della misura, consentendo in tal modo il ripristino della misura
stessa.
Solo per tale via sarà poi possibile conseguire, anche prima del
termine indicato dall’art. 58-quater, comma 3, della legge n. 354 del
1975, l’accesso ai benefici di cui al comma 1 dello stesso articolo.
6. – Possono, pertanto, cogliersi agevolmente gli errori
interpretativi in cui è caduto il giudice a quo.
Il primo di essi va individuato nell’avere sollevato la questione
di legittimità costituzionale della norma che non consente l’accesso
ai benefici di cui all’art. 58-quater, comma 1, della legge n. 354
del 1975 in caso di revoca della misura alternativa alla detenzione
senza previamente verificare – e sulla base del complessivo assetto
interpretativo in materia derivante soprattutto dall’esame della
giurisprudenza, ma attestandosi ad una isolata pronuncia della Corte
di cassazione – se un’ipotetica riammissione ai detti benefici non
richieda la rimozione di quel presupposto ostativo che è costituito
dalla revoca della misura. Così da incorrere in un’ulteriore
deviazione ermeneutica, per essersi arrogato poteri che, comunque,
richiedendo una valutazione dei presupposti ostativi, non possono che
competere al tribunale di sorveglianza. Da ciò è derivato un
ulteriore vizio interpretativo indotto dalla giurisprudenza indicata
dal giudice a quo. Quello, cioè, di ravvisare nelle pronunce del
tribunale di sorveglianza in tema di revoca delle misure alternative
la produzione degli effetti propri del giudicato. Senza in alcun
modo considerare che mentre tale effetto è, di norma, conseguenziale
all’accertamento della impossibilità di proseguire nel trattamento
derivante da fatti in ordine ai quali il tribunale di sorveglianza
dispone di una cognitio plena, diversa è la situazione che si
realizza quando l’interruzione del trattamento derivi da un fatto
costituente reato che esaurisca l’intera valenza della interruzione
del trattamento penitenziario. In tal caso, proprio perché la
cognizione del tribunale di sorveglianza non può che ridursi ad un
giudizio incidentale limitato alle esigenze teleologiche del
trattamento (significativo è, sul punto, il richiamato regime
adottato in ordine alla misura della semilibertà in caso di reato di
evasione alla stregua dell’art. 51, quarto comma, della legge n. 354
del 1975), essendo riservata alla cognizione del giudice penale la
verifica della sussistenza del reato, appare evidente che la revoca
della misura, da cui dipende l’impossibilità di accesso ai benefici
di cui all’art. 58-quater, comma 1, della legge n. 354 del 1975, non
potrà che commisurare la sua efficacia preclusiva all’esito del
giudizio sul fatto reato; sempre ferma restando, ovviamente, la
cognizione specifica del tribunale di sorveglianza in ordine ai
profili che, nonostante l’assoluzione dell’imputato, possono
acquisire una valenza ai fini della riammissione al beneficio. Il
tutto senza che possa assumere rilievo di sorta la circostanza che il
condannato abbia provveduto a proporre ricorso per cassazione avverso
il provvedimento di revoca, considerati sia i tempi per
l’accertamento del reato sia la quasi paradigmatica legittimità,
allo stato, di un provvedimento di revoca: donde il rigetto del
ricorso quando questo sia stato disposto per fatti di rilevanza
penale direttamente incidenti sulla prosecuzione del trattamento.
Che tutto ciò, del resto, risulti conforme al sistema della
efficacia delle pronunce di revoca deriva chiaramente dal fatto che
la privazione del trattamento non può conseguire se non ad un
comportamento addebitabile al condannato e che comunque l’effetto di
essa deve essere proporzionato (oltre che al quantum di afflittività
che da essa è derivato) alla gravità oggettiva e soggettiva del
comportamento che ha determinato la revoca (v. sentenza n. 306 del
1993).
7. – Sancita così l’impossibilità di conseguire direttamente dal
magistrato di sorveglianza la riammissione di benefici, l’unica via
percorribile al fine di proteggere adeguatamente le finalità di
risocializzazione che sono alla base delle misure previste dall’art.
58-quater, comma 1, della legge n. 354 del 1975 è quella di chiedere
al tribunale di sorveglianza, sulla base dell’avvenuto
proscioglimento, l’eliminazione del provvedimento di revoca a suo
tempo disposto.
La norma denunciata si sottrae pertanto alla censura di
legittimità, con riferimento sia all’art. 3 che all’art. 27, terzo
comma, della Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 58-quater, commi 1 e 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento
agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal magistrato di
sorveglianza di Alessandria con ordinanza del 19 luglio 1995.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 maggio 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Vassalli
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 31 maggio 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola