Sentenza N. 184 del 1973
Corte Costituzionale
Data generale
27/12/1973
Data deposito/pubblicazione
27/12/1973
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/12/1973
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Dott.
LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof.
ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO
CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI – Avv. LEONETTO
AMADEI – Prof. GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO
ASTUTI, Giudici,
comma, della legge 26 luglio 1965, n. 965 (Miglioramenti ai trattamenti
di quiescenza delle Casse per le pensioni ai dipendenti degli enti
locali e agli insegnanti, modifiche agli ordinamenti delle Casse
pensioni facenti parte degli Istituti di previdenza presso il Ministero
del tesoro), e dell’art. 1 della legge 8 giugno 1966, n. 424
(Abrogazione di norme che prevedono la perdita, la riduzione o la
sospensione delle pensioni a carico dello Stato o di altro ente
pubblico), promosso con ordinanza emessa il 6 novembre 1971 dalla Corte
dei conti – sezione III pensioni civili – sul ricorso di Giustozzi
Franco contro la Direzione generale degli Istituti di previdenza presso
il Ministero del tesoro, iscritta al n. 219 del registro ordinanze 1972
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 180 del 12
luglio 1972.
Visti gli atti di Costituzione di Giustozzi Franco e della
Direzione generale degli Istituti di previdenza;
udito nell’udienza pubblica del 17 ottobre 1973 il Giudice relatore
Giuseppe Verzì;
uditi l’avv. Aurelio Schwarzenberg, per il Giustozzi, e il
sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Zagari, per la
Direzione generale degli Istituti di previdenza.
Giustozzi Franco, impiegato di segreteria dell’Azienda elettrica
municipalizzata di Macerata, dal 1 gennaio 1969 cessava dal servizio
per dimissioni volontarie e il direttore generale degli Istituti di
previdenza, quale amministratore della Cassa per le pensioni ai
dipendenti degli Enti locali, con decreto 28 novembre 1969, n. 23947,
liquidava a titolo di indennità la somma di lire 2.040.850 sulla base
di anni 13, mesi 6 e giorni 29 di servizio utile, disponendo la
devoluzione di essa all’Istituto nazionale della previdenza sociale per
la costituzione della posizione assicurativa, ai sensi della legge 2
aprile 1958, n. 322. La misura integrale della indennità in base al
servizio prestato sarebbe stata in effetti di lire 4.081.700, ma,
tenuto conto che la cessazione dal servizio si era verificata per
dimissioni volontarie, era stata ridotta alla metà, ai sensi dell’art.
5, ultimo comma, della legge 26 luglio 1965, n. 965.
Avverso il suddetto decreto il Giustozzi proponeva ricorso alla
Corte dei conti denunziando, tra l’altro, la illegittimità
costituzionale del menzionato art. 5 della legge n. 965 in riferimento
all’art. 36 della Costituzione.
La Corte dei conti – terza sezione giurisdizionale – su conforme
parere del pubblico ministero, con ordinanza 6 novembre 1971 ha accolto
l’eccezione del Giustozzi e, sospeso il giudizio, ha rimesso gli atti a
questa Corte per la relativa decisione. Con la stessa ordinanza,
altresì, la Corte dei conti ha sollevato d’ufficio anche la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 8 giugno 1966,
n. 424, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.
Nel presente giudizio si è costituito il Giustozzi e la Direzione
generale degli Istituti di previdenza (C.P.D.E.L.) rappresentata e
difesa dall’Avvocatura dello Stato. Quest’ultima ha concluso chiedendo
che la questione sia dichiarata non fondata.
L’ordinanza della Corte dei conti solleva la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5, ultimo comma, della legge 26
luglio 1965, n. 965, il quale, per i dipendenti degli enti locali
iscritti alla relativa Cassa pensioni, riduce a metà – quando cessano
dal servizio per dimissioni volontarie – l’importo della indennità
“una volta tanto”, che viene invece corrisposta per intero quando la
cessazione del rapporto di lavoro avvenga per altro titolo
(raggiungimento dei limiti di età, inabilità fisica, e perfino
provvedimenti disciplinari o condanne penali).
Sarebbero fondati i dubbi di legittimità di questa norma in
riferimento all’art. 36 della Costituzione dopo che la Corte
costituzionale ha affermato che la pensione riveste carattere di
retribuzione differita, dal momento che il diritto del lavoratore ad
una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro
prestato deve intendersi rivolto non soltanto alla retribuzione
corrisposta durante il servizio, ma anche a quella differita. La quale,
nel vigente sistema previdenziale, può essere di due tipi: pensione o
indennità “una volta tanto”. Inoltre, a proposito della indennità di
anzianità spettante ai lavoratori ex art. 2120 del codice civile, la
Corte ha escluso che i motivi della risoluzione del rapporto (colpa del
lavoratore o dimissioni volontarie) possano influire sull’obbligo della
corresponsione di detta indennità. La norma impugnata appare, poi, in
contrasto con l’art. 3 Cost. giacché può risultare lesivo del
principio di uguaglianza che venga attribuita in misura intera
l’indennità in esame a coloro che cessino dal servizio perfino per
provvedimento disciplinare o condanna penale, e venga invece
corrisposta in misura ridotta a chi cessi per volontarie dimissioni.
In contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost. sarebbe ancora l’art. 1
della legge 8 giugno 1966, n. 424, che abroga le disposizioni che
prevedono, a seguito di condanna penale o di provvedimento
disciplinare, la perdita, riduzione o sospensione del diritto del
dipendente dello Stato o di altro ente pubblico al conseguimento della
pensione, o di ogni altro assegno od indennità da liquidarsi in
conseguenza della cessazione del rapporto di dipendenza. e l’art. 2 ha
ripristinato nei confronti dei medesimi la pensione o le indennità
perdute, ridotte o sospese. Detti articoli non comprendono, accanto ai
dipendenti colpiti da provvedimenti disciplinari o penali, coloro che
sono cessati dal servizio per dimissioni, meritevoli tuttavia anch’essi
di un trattamento quanto meno di uguale favore.
La questione, che va decisa in base ai principi enunciati dalla
suindicata giurisprudenza della Corte, è fondata.
L’indennità una tantum liquidata in occasione della cessazione
del rapporto di lavoro dipendente, costituisce anch’essa – come la
pensione – parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui
corresponsione viene differita allo scopo di agevolare il superamento
delle difficoltà economiche, possibili ad insorgere nel momento in cui
viene meno la retribuzione. Per assolvere a tale finalità, che sta a
base del differimento del pagamento, la misura dell’indennità viene
determinata in proporzione alla durata del lavoro prestato ed alla
complessiva retribuzione di carattere continuativo, senza che il motivo
che dà luogo alla risoluzione del rapporto (colpa del lavoratore o
dimissioni volontarie) possa avere alcuna incidenza.
L’Avvocatura dello Stato sostiene che la corresponsione della
indennità in misura ridotta non si risolve affatto nella perdita del
diritto e che, comunque, ai fini della iscrizione della posizione
previdenziale all’INPS per la liquidazione della pensione, l’importo
viene calcolato sull’intera retribuzione percepita dal lavoratore per
tutto il periodo del servizio prestato. Questi argomenti però non
valgono a rendere legittima la riduzione della indennità. Ed invero,
da un canto, questa ha una sua particolare autonomia, sotto il riflesso
economico e sociale, rispetto alla pensione, e, dall’altro, la norma
impone una decurtazione, che – come esattamente osserva l’ordinanza –
è di rilevante misura, tale da tradursi, sostanzialmente, in una
perdita parziale del diritto.
La proposta questione appare fondata anche in riferimento all’art.
3 della Costituzione. Infatti, dopo le sentenze di questa Corte
riguardanti le pensioni e le indennità spettanti per la cessazione del
rapporto di lavoro, e dopo le disposizioni della legge 8 giugno 1966,
n. 424, la sopravvivenza della norma impugnata determinerebbe una
ingiustificata ineguaglianza di trattamento tra i dipendenti di enti
locali che lasciano il servizio per dimissioni volontarie e gli
appartenenti ad altre categorie di lavoratori.
Va dichiarata pertanto la illegittimità costituzionale dell’art.
5, ultimo comma, della legge n. 965 del 1965, nei limiti proposti
dall’ordinanza di rimessione.
Rimane assorbito l’esame della questione sollevata per la legge n.
424 del 1966, in quanto la eventuale pronuncia della illegittimità
costituzionale di questa legge svolgerebbe soltanto una funzione
concorrente.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, ultimo comma,
della legge 26 luglio 1965, n. 965 (Miglioramenti ai trattamenti di
quiescenza delle Casse per le pensioni ai dipendenti degli enti locali
e agli insegnanti, modifiche agli ordinanti delle Casse pensioni
facenti parte degli Istituti di previdenza presso il Ministero del
tesoro), nella parte in cui riduce alla metà la misura delle
indennità per il personale cessato dal servizio per dimissioni
volontarie.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 dicembre 1973.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– LUIGI OGGIONI – ANGELO DE MARCO –
ERCOLE ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA –
VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – VEZIO
CRISAFULLI – NICOLA REALE – PAOLO
ROSSI – LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA – GUIDO
ASTUTI.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere