Sentenza N. 189 del 1976
Corte Costituzionale
Data generale
14/07/1976
Data deposito/pubblicazione
14/07/1976
Data dell'udienza in cui è stato assunto
14/07/1976
OGGIONI – Avv. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI
– Dott. NICOLA REALE – Avv. LEONETTO AMADEI – Dott. GIULIO GIONFRIDA
Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO –
Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA, Giudici,
comma, del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza
emessa il 18 febbraio 1975 dal giudice istruttore del tribunale
militare territoriale di Padova nel procedimento penale a carico di
Curcio Rocco ed altro, iscritta al n. 177 del registro ordinanze 1975 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 166 del 25
giugno 1975.
Udito nella camera di consiglio del 15 giugno 1976 il Giudice
relatore Angelo De Marco.
Con ordinanza in data 18 febbraio 1975, emessa nel procedimento
penale a carico del maresciallo maggiore Renzo Tonizzo, imputato del
reato di cui all’art. 196, comma primo, del codice penale militare di
pace (minaccia ed offesa dell’onore di militare di grado inferiore),
reato punibile con la reclusione militare non superiore nel massimo a
sei mesi e, quindi, perseguibile, ai sensi dell’articolo 260. cpv.,
c.p.m.p. a richiesta del comandante del corpo o di altro ente
superiore da cui dipende il militare imputato, richiesta che nella
specie mancava, il giudice istruttore del tribunale militare
territoriale di Padova, su conforme richiesta del P.M. ha sollevato
questione di legittimità costituzionale del citato art. 260, in
riferimento agli artt. 2, 3, 28 e 52, comma terzo, della Costituzione.
Secondo tale ordinanza: a) vi sarebbe violazione dell’art. 2 della
Costituzione, in quanto “quello all’onore” rientrerebbe tra i “diritti
inviolabili dell’uomo”, la protezione del quale non può esere
subordinata – per i militari – alla richiesta del comandante di corpo o
di altro ente superiore; b) vi sarebbe violazione dell’art. 28 della
Costituzione, in quanto la richiesta di procedimento rappresenterebbe
un’illegittima limitazione al principio della diretta responsabilità,
anche penale, sancito da tale norma per ogni funzionario o dipendente
pubblico, non esclusi gli appartenenti alle forze armate; c) vi sarebbe
una violazione dell’art. 3 della Costituzione, in quanto implicherebbe
carenza di tutela penale per il soggetto passivo od ingiustificata
impunità per il soggetto attivo del reato; d) vi sarebbe, infine,
violazione del principio di tutela della dignità del militare, sancito
dal comma terzo dell’art. 52 della Costituzione.
Dopo gli adempimenti di legge, non essendovi stata costituzione di
parti, il giudizio, come sopra promosso, viene alla cognizione della
Corte riunita in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 26, comma
secondo, della legge 11 marzo 1953, n. 87.
1. – Viene denunziato a questa Corte, in riferimento agli artt. 2,
3, 28 e 52 della Costituzione, l’art. 260, comma secondo, del codice
penale militare di pace, che subordina ad autorizzazione la
procedibilità dei reati per i quali sia comminata la pena della
reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi.
2. – Sotto il profilo della violazione degli articoli 3 e 24 della
Costituzione, la legittimità di detta norma è già stata contestata
davanti a questa Corte che, con la sentenza n. 42 del 1975 ha
dichiarato non fondata la relativa questione.
Al riguardo la Corte ha considerato: che il diritto penale militare
non prevede la querela, in quanto nei reati militari è sempre insita
una offesa alla disciplina ed al servizio e, quindi, di un interesse
eminentemente pubblico che non tollera subordinazione nell’interesse
meramente privato, caratteristico della querela; che, su questo
presupposto, si è preferito attribuire al comandante del corpo, con
l’istituto della richiesta preveduta dalla norma impugnata, una
facoltà di scelta tra l’adozione di provvedimenti di carattere
disciplinare ed il ricorso all’ordinaria azione penale, per la
considerazione che vi sono dei casi in cui, per la scarsa gravità del
reato, l’esercizio incondizionato dell’azione penale può causare un
pregiudizio proporzionalmente maggiore di quello prodotto dal reato
stesso, mentre appaiono più efficienti e meglio rispondenti mezzi
repressivi meramente disciplinari; che, infine, la norma impugnata non
crea affatto un privilegio a favore dei militari, né, d’altro lato, ne
comprime i diritti, perché la privazione del diritto di querela non
dipende dalla circostanza che il processo è subordinato alla
richiesta, ma dal fatto che i reati in questione sono perseguibili di
ufficio e non vi è dubbio che rientri nella discrezionalità del
legislatore stabilire per quali reati si debba procedere d’ufficio,
discrezionalità nella specie non eccedente i limiti della
razionalità, data la natura del bene leso dai reati militari.
Poiché nulla è stato esposto che possa indurre a diverso avviso,
sotto il profilo della violazione dell’art. 3 della Costituzione, la
questione, come sopra riproposta, deve essere dichiarata manifestamente
infondata.
3. – Occorre, pertanto, accertare se la questione possa ritenersi
fondata sotto i nuovi profili prospettati in questa sede.
A tal fine sembra opportuno precisare che l’interesse pubblico,
come è stato posto in evidenza con le Considerazioni della sentenza n.
42 del 1975 sopra riportate, non si esaurisce nella punizione delle
offese al servizio ed alla disciplina, ma attraverso di essa, tende
oltre che ad assicurare la migliore efficienza delle forze armate,
anche a tutelare il loro prestigio e la loro dignità, evitando, sempre
che sia possibile, una qualsiasi loro menomazione.
Non vi è dubbio che un siffatto effetto possa derivare anche dalla
pubblicità conseguente alla celebrazione di processi aventi ad oggetto
episodi di lieve rilevanza, quali quelli che possono formare oggetto
dei reati cui si riferisce la norma impugnata.
Da questa considerazione deve trarsi la conseguenza che la
denunziata violazione degli artt. 2 e 52 della Costituzione non ha
giuridico fondamento, in quanto è di tutta evidenza che nella tutela
del prestigio e della dignità delle forze armate in genere è insita
quella dei singoli componenti di esse.
Un discorso a parte occorre per la dedotta violazione dell’art. 28
della Costituzione.
Per quel che concerne la responsabilità penale – che è poi quella
che nella specie interessa – è ovvio che, per quanto riguarda reati di
lieve entità, rientra nella discrezionalità del legislatore, ove
concorrano ragioni di interesse pubblico, come quelle sopra illustrate,
sostituire alle sanzioni penali quelle disciplinari.
Anche se il codice penale militare non contempla reati
contravvenzionali, non può trascurarsi, come indice di tendenza del
legislatore, la sempre maggiore estensione della cosiddetta
depenalizzazione, in forza della quale alla pena dell’ammenda si
sostituisce una semplice sanzione amministrativa: l’analogia con la
sostituzione della sanzione penale con quella disciplinare è di tutta
evidenza.
Per quel che concerne la responsabilità civile, come si è già
rilevato con la più volte citata sentenza n. 42 del 1975 di questa
Corte, nulla vieta che ove manchi la richiesta di punizione penale da
parte del comandante del corpo dal quale dipende il militare
imputabile, nei di lui confronti il danneggiato possa esperire, in
altra sede, l’azione diretta a far valere i propri diritti.
Ne consegue che anche sotto il profilo della violazione dell’art.
28 della Costituzione la proposta questione risulta infondata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 260, comma secondo, del codice penale militare
di pace, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, sollevata con
l’ordinanza di cui in epigrafe;
dichiara non fondata la questione dello stesso articolo 260, comma
secondo, del codice penale militare di pace, in riferimento agli
articoli 2, 28 e 52 della Costituzione, sollevata con la medesima
ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1976.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
ANGELO DE MARCO – ERCOLE ROCCHETTI –
ENZO CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE – LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA – GUIDO
ASTUTI – MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere