Sentenza N. 19 del 1978
Corte Costituzionale
Data generale
07/03/1978
Data deposito/pubblicazione
07/03/1978
Data dell'udienza in cui è stato assunto
02/03/1978
OGGIONI – Avv. LEONETTO AMADEI – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO
ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof.
LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott.
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO
PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE, Giudici,
terzo, 3, comma primo, 7, primo, penultimo ed ultimo comma, 65 e 72
t.u. delle leggi sulla Corte dei conti approvato con r.d. 12 luglio
1934, n. 1214; degli artt. 10, comma secondo, 11, ultimo comma e 13,
primo e secondo comma, della legge 20 dicembre 1961, n. 1345; degli
artt. 2, 8, 9 della legge 21 marzo 1953, n. 161; dell’art. 16 del
Regolamento dei servizi della Corte dei conti approvato con
deliberazione delle S.U. della Corte stessa del 25 giugno 1915;
dell’art. 38 del Regolamento approvato dalle S.U. il 2 luglio 1913;
dell’art. 3 della legge 13 ottobre 1969, n. 691; dell’art. 60,
penultimo ed ultimo comma, del r.d. 13 agosto 1933, n. 1038; dell’art.
4, comma secondo, del d.1. 5 maggio 1948, n. 589 (t.u. delle leggi
sull’ordinamento della Corte dei conti e leggi successive), promosso
con ordinanza 6 maggio 1977 del Magistrato relatore della seconda
sezione giurisdizionale della Corte dei conti, nel giudizio reso dal
Tesoriere del Comune di Aieta, iscritta al n. 292 del registro
ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 190 del 13 luglio 1977.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 30 novembre 1977 il Giudice
relatore Luigi Oggioni;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Renato Carafa, per
il Presidente del Consiglio dei ministri.
Con ordinanza 26 aprile 1977 il Presidente della seconda sezione
giurisdizionale della Corte dei conti designava il referendario dott.
Sciarretta quale relatore sui conti degli Enti locali della Calabria.
Questi, con ordinanza emessa il 6 maggio 1977, nell’esercizio delle
dette funzioni nel giudizio sul conto reso dal Tesoriere del Comune di
Aieta, ai sensi dell’art. 29 r.d. 13 agosto 1933 n. 1038, premesso che
doveva pregiudizialmente essere accertata la legittimità della propria
costituzione quale “giudice relatore” ai sensi dell’art. 158 cod.
proc. civ. sia sotto il profilo della validita della investitura, sia
sotto il profilo delle necessarie garanzie di indipendenza
nell’esercizio di funzioni giurisdizionali, si considerava legittimato
a sollevare in quella sede questioni di costituzionalità ai fini
dell’accertamento suddetto, dovendosi, a suo avviso, ravvisare un
parallelismo tra le funzioni assegnate al referendario relatore nel
processo contabile e quelle del giudice istruttore nel processo civile.
E ciò in quanto l’attività del relatore consisterebbe essenzialmente
nella formulazione di “proposte” dalle quali dipenderebbe l’ulteriore
svolgimento del processo, e che, “pur non avendo tali proposte
carattere decisorio”, giustificherebbero il riconoscimento di detta
legittimazione in analogia a quanto stabilito dalla giurisprudenza di
questa Corte, che avrebbe ritenuto ammissibile la questione sollevata
dal giudice penale di sorveglianza quando è chiamato a rendere il
parere di cui all’art. 144 cod. pen. sulla ammissione del condannato
alla libertà condizionale.
Quanto alla rilevanza delle questioni attinenti alla investitura
del relatore ed alle garanzie di indipendenza, il detto referendario
relatore osservava che, concernendo le dette questioni, la norma che
consente la nomina del Presidente della Corte da parte del Governo
(art. 7 t.u. 12 luglio 1934 n. 1214), l’eventuale caducazione della
stessa norma avrebbe l’effetto di escludere la legittimità della
nomina e, conseguenzialmente, la legittimità sia della assegnazione
del presidente della seconda sezione giurisdizionale, effettuata
appunto dal Presidente della Corte, sia della designazione del
relatore, effettuata dal presidente di sezione. Il relatore, quindi, in
caso di accoglimento delle censure e di conseguente annullamento della
norma, risulterebbe carente di legittimazione alle funzioni
assegnategli, dal che ovviamente deriverebbe la pregiudizialità della
questione.
Ciò premesso, il giudice a quo passava ad illustrare le censure
contro il menzionato art. 7 del t.u. n. 1214 del 1934, osservando in
sostanza che, in base a tale norma, la scelta del Presidente della
Corte sarebbe affidata all’arbitrio del Governo che adotterebbe al
riguardo criteri di natura politica ed inciderebbe comunque
sull’indipendenza dell’Istituto, sotto molteplici aspetti che
andrebbero identificati nella possibilità di influire sul vertice
dell’Istituto mediante la scelta dal momento della nomina (che porrebbe
il presidente reggente nel periodo intermedio, a volte di diversi mesi,
in posizione di subordinazione nei confronti del Governo ai fini di una
eventuale nomina definitiva); sia nel potere esclusivo del Governo di
provocare il parere sulla inamovibilità del presidente da parte della
Commissione parlamentare prevista dall’art. 8 t.u. n. 1214 del 1934;
sia nella corresponsione al Presidente della Corte di un compenso per
lavoro straordinario, che sarebbe rimesso alla discrezionalità del
Presidente del Consiglio; sia nel sistema di conferimento di incarichi
esterni presso pubbliche amministrazioni ex artt. 7, ultimi due commi,
del t.u. suddetto e 8 e 9 legge 21 marzo 1953, n. 161, che sarebbe tale
da creare un intreccio di interessi fra il Presidente della Corte e i
capi delle amministrazioni stesse.
Questa possibilità di influenza causerebbe gravi disfunzioni in
seno alla Corte data l’ampiezza dei poteri del Presidente che avrebbe
la facoltà di trasferire i magistrati da un ufficio all’altro ex art.
16 del Regolamento approvato dalle sezioni unite il 25 giugno 1915, e
potrebbe a sua volta influire sulle promozioni a scelta previste dagli
artt. 10 e 13 legge 20 dicembre 1961, n. 1345, essendo presidente del
Consiglio di presidenza di cui è richiesto il parere, e sarebbe
titolare, col Governo, dell’iniziativa del procedimento disciplinare ai
sensi dell’art. 8 t.u. 12 luglio 1934, n. 1214.
Tutto quanto premesso si rifletterebbe anche sulla indipendenza del
“gruppo di vertice della Corte (presidenti di sezione e Procuratore
generale) come componenti del Consiglio di presidenza e, comunque, come
componenti del gruppo nell’ambito del quale normalmente si esercita la
scelta del Presidente da parte del Governo e che quindi, pur essendo
magistrati, si troverebbero nella prospettiva di accedere a funzioni
più elevate per effetto di decisioni discrezionali di un organo della
pubblica amministrazione.
In base a tutto ciò, il giudice a quo ha quindi ritenuto di
sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, primo
comma, t.u. 12 luglio 1934, n. 1214, per la violazione degli artt. 100,
ultimo comma, 101, secondo comma, e 108, secondo comma, Cost.
concretantesi appunto nella lamentata ingerenza governativa nei
confronti del Presidente e dei magistrati più elevati della Corte.
Il giudice a quo denunzia poi ulteriori vizi di legittimità,
questa volta attinenti alla pretesa lesione della propria indipendenza
in quanto gli verrebbe tolta la dovuta serenità ed autonomia di
giudizio per effetto della possibile privazione delle funzioni delle
quali è investito, mediante l’assegnazione alle funzioni requirenti
per disposizione del Presidente della Corte, in virtù dell’art. 11,
ultimo comma, legge 20 dicembre 1961, n. 1345, come pure del possibile
trasferimento da parte del Presidente ad altra sezione giurisdizionale
(ex art. 2, secondo comma, legge 21 marzo 1953, n. 161), o ad altro
ufficio della Corte (ex art. 16 del Regolamento 25 giugno 1915). E ciò
anche senza il suo consenso e senza la possibilità di un effettivo
controllo della sussistenza di ragioni valide alla base dei
trasferimenti, e comunque in assenza di criteri obbiettivi
predeterminati al riguardo, a differenza di quanto accadrebbe non solo
per i magistrati ordinari e dei tribunali amministrativi, che possono
ricorrere ad organi elettivi appositamente previsti, ma perfino per
quanto riguarda gli impiegati civili dello Stato, i quali pure
godrebbero di garanzie superiori, potendo ricorrere al Consiglio di
amministrazione competente.
Pertanto, secondo il giudice a quo, le citate norme (art. 11,
ultimo comma, legge 20 dicembre 1961, n. 1345; art. 2, secondo comma,
legge 21 marzo 1953, n. 161, art. 16 Regolamento 25 giugno 1915)
contrasterebbero con i principi garantiti dagli artt. 100, 101 e 108
Cost., nonché col principio di eguaglianza garantito dall’art. 3 della
Costituzione.
Inoltre, con gli stessi articoli confliggerebbe l’art. 38 del
Regolamento approvato dalle sezioni riunite della Corte il 2 luglio
1913, in quanto prevede che del Consiglio di presidenza, dotato di ampi
poteri sullo status dei magistrati, facciano parte i soli presidenti di
sezione.
Secondo il giudice a quo, inoltre, pure illegittimi per contrasto
con i ripetuti precetti costituzionali sarebbero gli articoli 10
secondo comma, e 13, primo comma, della legge 20 dicembre 1961, n.
1345, nonché l’art. 3 della legge 13 ottobre 1969, n. 691, poiché
prevederebbero le promozioni da referendario a primo referendario,
attribuendo poteri discrezionali al Presidente ed al Consiglio di
presidenza. Un ulteriore profilo di illegittimità delle norme suddette
dovrebbe poi ravvisarsi nella presunta violazione dell’art. 24 Cost.
giacché gli ampi poteri conferiti al Consiglio di presidenza
finirebbero col conculcare l’effettiva possibilità di tutela degli
interessati.
Il giudice a quo, proseguendo l’esame nell’ambito della normativa
regolante i vari aspetti della vita dell’Istituto, in relazione agli
invocati precetti costituzionali, riteneva di valutare la legittimità
o meno della così detta “giurisdizione domestica” della Corte dei
conti. Le sezioni riunite, cioè il collegio cui appunto in virtù di
tale speciale giurisdizione è attribuita la cognizione dei
provvedimenti che incidono sullo status dei magistrati e del personale
della Corte, sarebbero infatti ben lungi dal garantire l’indipendenza
esterna ed interna dei magistrati, a causa della commistione di
funzioni che tale giudizio comporterebbe, concorrendo a formare le
sezioni stesse magistrati in cui coinciderebbero funzioni correlate
all’amministrazione del personale e funzioni giudicanti aventi ad
oggetto proprio la verifica della legittimità dell’esercizio delle
prime. Per quanto riguarda le forme in cui si attua tale giurisdizione,
poi, secondo il giudice a quo, si dovrebbero rilevare precisi vizi di
illegittimità degli artt. 1, terzo comma, 3, primo comma, e 65 del
t.u. 12 luglio 1934, n. 1214, che prevedono la giurisdizione domestica,
affidano la presidenza delle sezioni riunite al Presidente e
stabiliscono l’unicità del grado di giudizio in materia; nonché
illegittimità dell’art. 2 legge 21 marzo 1953, n. 161, che nel
disporre le modalità di formazione delle sezioni riunite non
stabilisce alcun criterio per la scelta dei magistrati chiamati
annualmente a farne parte; degli artt. 72 del citato r.d. n. 1214 del
1934 e 60 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038, che imporrebbero la
partecipazione del Procuratore generale al giudizio in veste di
pubblico ministero, in palese difformità da quanto generalmente
previsto negli altri sistemi di giustizia predisposti a tutela dei
dipendenti pubblici e privati.
Con ciò sarebbero violati i già menzionati precetti di cui agli
artt. 100, 101 e 108 della Costituzione e, in più, anche il principio
di eguaglianza e il diritto di difesa rispettivamente garantiti dagli
artt. 3 e 24 della Costituzione.
Infine, il giudice a quo prospetta in argomento, e sempre in
relazione ai detti precetti costituzionali, profili di illegittimità
del citato art. 16 del Regolamento 25 giugno 1915, in quanto
consentirebbe che i componenti del collegio giudicante possano essere
rimossi dall’ufficio giurisdizionale o di controllo del quale sono
titolari, per atto discrezionale del Presidente; dell’art. 4, secondo
comma, del d.l. 5 maggio 1948, n. 589, che consentirebbe il
trasferimento dei componenti del collegio dalle funzioni giudicanti
alle requirenti senza prefissare i criteri e requisiti oggettivi e
soggettivi al riguardo; degli artt. 7, penultimo e ultimo comma t.u. n.
1214 del 1934 e 13 legge 20 dicembre 1961, che prevedono la promozione
“a scelta” dei consiglieri a presidenti di sezione, su proposta del
Presidente del Consiglio e previo parere del Consiglio di presidenza,
esponendo i componenti delle sezioni riunite ad una evidente soggezione
verso i vertici dell’istituto; degli artt. 8 e 9 della legge 21 marzo
1953, n. 161, che regolano la materia degli incarichi speciali ai
magistrati della Corte dei conti affidandone la proposta al Presidente
del Consiglio, previo parere del Consiglio di presidenza, quando si
tratti di mansioni che implichino il collocamento fuori ruolo, e
rimettono negli altri casi alla determinazione del Presidente la
partecipazione dei magistrati ai lavori della Corte dei conti, e in tal
modo egualmente incidendo sull’indipendenza dei componenti le sezioni
unite.
In questa sede si è costituito il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso come per legge dall’Avvocatura
generale dello Stato, che ha depositato ritualmente le proprie difese.
L’Avvocatura eccepisce anzitutto l’inammissibilità delle questioni
sollevate per difetto di legittimazione del giudice a quo. Invero, pur
prescindendo dalla configurabilità in astratto di un “giudizio” nel
procedimento di controllo sui conti degli agenti contabili, il
magistrato relatore, nel sistema predisposto dalla legge (artt. 27
segg. t.u. 13 agosto 1933, n. 1038), sarebbe chiamato ad esplicare
attività prive di natura decisoria, che si concludono in semplici
proposte in ordine al conto esaminato, mentre, per costante
giurisprudenza, la legittimazione a promuovere una questione
incidentale di legittimità costituzionale spetterebbe soltanto ad una
autorità giurisdizionale che abbia competenza ad emettere
provvedimenti decisori.
Inoltre, inammissibili per altro verso sarebbero le questioni
sollevate in relazione a norme regolamentari, come tali non soggette al
sindacato di legittimità costituzionale.
Nel merito, le questioni sarebbero infondate perché i principi
costituzionali concernenti la indipendenza dei magistrati invocati
nell’ordinanza di rinvio non sarebbero lesi dalle norme impugnate in
quanto il potere governativo di nomina dei consiglieri della Corte dei
conti, come già riconosciuto dalla sentenza n. 1 del 1967 della Corte
costituzionale, non inciderebbe sulla loro indipendenza né su quella
dell’Istituto, che andrebbe ricercata non nei modi con cui si provvede
a regolare la nomina dei suoi membri, ma in quelli che attengono allo
svolgimento delle funzioni.
Sarebbe pertanto da escludere la violazione sia dell’articolo 100,
terzo comma, Cost. perché la scelta di un magistrato per le funzioni
di presidente rappresenterebbe la garanzia migliore di indipendenza
dell’Istituto e dei suoi componenti, sia dell’art. 101, secondo comma,
in quanto, anche durante la vacanza della carica ed in attesa della
relativa nomina, tutti i magistrati restano vincolati sempre e soltanto
al rispetto della legge; sia dell’art. 108, secondo comma, in quanto
l’indipendenza caratterizzerebbe in ogni momento l’opera dei giudici
della Corte dei conti.
Sarebbe poi da escludere la stessa ipotizzabilità delle lamentate
violazioni del diritto di difesa e del principio di eguaglianza.
L’Avvocatura generale dello Stato ha depositato nei termini una
memoria illustrativa con cui svolge ampiamente le tesi già
prospettate, insistendo anzitutto nel riaffermare il difetto di
legittimazione del giudice a quo a sollevare questione di legittimità.
In particolare l’Avvocatura pone in evidenza, attraverso l’esame
del procedimento del giudizio di conto, la natura peculiare della fase
affidata al magistrato relatore, che si esaurirebbe nella acquisizione
degli elementi su cui si svolgerà il giudizio e in una semplice
proposta che precede la fase giurisdizionale vera e propria, senza che
possa quindi fondatamente istituirsi un parallelo fra la figura del
relatore, sprovvisto di poteri che rivestano una autonoma
configurazione rispetto al collegio giudicante, e quelle del giudice
istruttore penale e del giudice di sorveglianza, che di tali poteri
sono invece ampiamente provvisti.
Né il richiamo alla giurisprudenza della Corte concernente
l’ammissibilità di una questione sollevata dal giudice di sorveglianza
in sede di emissione del parere sulla liberazione condizionale sarebbe
pertinente, poiché detta ipotesi riguarderebbe un’attività dotata di
autonomia e rilevanza esterna rispetto ad altri organi che intervengono
in quel procedimento, autonomia e rilevanza che, invece, non sarebbero
riscontrabili nei compiti demandati al relatore nel giudizio di conto.
D’altra parte, prosegue l’Avvocatura, secondo la giurisprudenza
della Corte costituzionale, ai fini dell’accertamento della regolarità
della costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 cod. proc. civ.,
legittimato a sollevare questioni in questa sede sarebbe soltanto il
giudice chiamato a decidere nel merito la controversia, in quanto egli
solo sarebbe in grado di valutare se la soluzione della questione
stessa costituisca presupposto necessario della propria decisione. E
pertanto, anche sotto questo profilo, dovrebbe escludersi
l’ammissibilità della questione sollevata dal relatore nel giudizio di
conto, che non ha ovviamente poteri di tale natura. L’Avvocatura
eccepisce, inoltre, l’irrilevanza delle questioni sollevate sotto il
profilo della invalidità dell’investitura del relatore, affermando che
l’eventuale declaratoria di illegittimità dell’art. 7 t.u. n. 1214 del
1934, resterebbe senza effetto sulla nomina già avvenuta, che
permarrebbe sempre valida perché l’efficacia della norma dichiarata
illegittima cessa a far tempo dal giorno successivo alla dichiarazione
di illegittimità costituzionale.
Anche per quanto riguarda il merito, l’Avvocatura ribadisce le tesi
già svolte, facendo richiamo alla giurisprudenza della Corte
costituzionale ed osservando, in particolare, che i poteri gerarchici e
funzionali di cui è investito il Presidente della Corte dei conti non
inciderebbero sulla indipendenza degli altri magistrati della Corte
stessa, trattandosi di poteri miranti, sostanzialmente, proprio alla
salvaguardia della indipendenza dell’Istituto, e tali da garantire
l’esclusione di ingerenze estranee anche attraverso l’intervento di un
organo collegiale (Consiglio di presidenza), che limiterebbe la
discrezionalità dei poteri stessi.
Da ultimo l’Avvocatura afferma che le questioni sollevate sarebbero
comunque irrilevanti ai fini del giudizio assegnato al relatore, ed
insiste quindi perché la Corte voglia pronunziarne l’inammissibilità
o l’irrilevanza o, comunque, l’infondatezza. Con ulteriore atto di
deduzione, l’Avvocatura ha sviluppato e ribadito il suo assunto e le
sue eccezioni.
1. – La questione in esame è sollevata con ordinanza emessa dal
magistrato referendario, componente la II Sezione giurisdizionale della
Corte dei Conti, designato quale relatore nei giudizi sui conti resi o
da rendersi da parte degli agenti contabili degli enti locali compresi
nell’ambito della Regione Calabria e, nel caso, sul conto reso dal
tesoriere del Comune di Aieta (artt. 26, 27, 28 e 29 r.d. n. 1038 del
1933). Si assume che, dovendo esso referendario accertare anzitutto la
“legittimità della propria costituzione” sotto il duplice profilo
della validita della investitura nelle funzioni di relatore,
proveniente da parte del Presidente della sezione e, a sua volta, da
parte del Presidente della Corte, nonché dovendo accertare la
sussistenza delle necessarie garanzie di indipendenza dei membri della
Corte, l’accertamento condurrebbe a ritenere non manifestamente
infondata la questione di legittimità della normativa concernente
l’ordinamento della Corte stessa.
In particolare, detta normativa apparirebbe viziata nei seguenti
punti: a) ingerenza del Governo nella nomina del Presidente della Corte
e mancata indipendenza dei magistrati della Corte di qualifica più
elevata, nei confronti del Governo; b) mancanza di garanzie per i
magistrati in ordine al mutamento di funzioni ed ai trasferimenti
dall’uno all’altro degli uffici giudiziari; c) assenza di criteri
predeterminati per le promozioni a scelta; d) difetto di garanzie in
sede di giurisdizione cosiddetta domestica, sia per i componenti del
collegio giudicante, sia per i magistrati da essi giudicati. Il tutto
in relazione agli artt. 3, 24, 100, ultimo comma, 101, secondo comma, e
108, secondo comma, Cost.
2. – L’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della
questione per carenza nel magistrato relatore di legittimazione a
sollevarla, in quanto privo di competenza e poteri decisori in ordine
al conto da esaminare, essendogli attribuito nella fase preliminare
soltanto il potere di formulare “proposte”.
L’Avvocatura richiama in argomento la giurisprudenza di questa
Corte, che avrebbe costantemente riconosciuto l’attività decisionale
come elemento condizionante la legittimità di iniziativa in proposito.
Questa eccezione non è fondata.
Va rilevato che il “giudizio sui conti”, come tale e con tale
denominazione regolato dagli artt. 27 e seguenti r.d. 3 agosto 1933, n.
1038, inizia con il deposito del conto nella Segreteria della
competente Sezione giurisdizionale, e, per effetto di tale deposito,
l’agente dell’Amministrazione va considerato “costituito in giudizio”
(art. 45, primo comma, r.d. 12 luglio 1934, n. 1214).
I compiti funzionali attribuiti al magistrato relatore consistono
nel “procurare, se del caso, la parificazione del conto, nell’esaminare
il conto sulla base dei documenti allegati e degli altri che il
relatore possa avere comunque acquisiti e nel correggere eventuali
errori materiali” (art. 28 citato r.d. del 1933)”. Segue la
comunicazione di una sua relazione al Presidente della Sezione con le
conclusioni che possono essere o pel discarico del contabile o per la
sua condanna o per la rettifica dei resti ovvero per provvedimenti
interlocutori. A parte l’ipotesi in cui il relatore proponga il
discarico del contabile, e con tale proposta concordi il visto del
Procuratore Generale e l’avviso del Presidente della Sezione, nel qual
caso è quest’ultimo che provvede con decreto, è sufficiente che il
relatore proponga la condanna o un provvedimento interlocutorio,
perché si dia necessariamente luogo alla iscrizione del conto nel
ruolo di udienza (artt. 30, 31, 32 e 33 citato r.d. del 1933).
Quanto ora descritto consente anzitutto di riconoscere che, anche
nel caso in esame, si verifica la condizione prescritta dagli artt. 1
legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, nel
senso che questioni di legittimità costituzionale vanno sollevate “nel
corso di un giudizio”.
La tipicità dell’iter attraverso le fasi del giudizio sui conti
non impedisce che sia qui da ritenere verificata l’ipotesi di “giudizio
in corso”.
3. – L’eccezione di inammissibilità, proposta dall’Avvocatura ha,
tuttavia, il suo cardine nell’asserita carenza nel giudice a quo di
poteri propriamente di natura decisoria, spettandogli soltanto poteri
di natura ordinatoria e strumentale.
La Corte osserva anzitutto che, nel peculiare sistema in esame,
quale sopra richiamato, la sfera di poteri assegnati al giudice
relatore si presenta di notevole ampiezza di contenuto, comprendendo
sia poteri di accertamento di conformità degli atti alle norme
vigenti, sia poteri istruttori, sia di impulso processuale, tutti
concorrenti e necessari per la definizione del giudizio.
Le conclusioni del relatore conseguono ad un accertamento sulla
regolarità o meno delle poste contabili ed implicano un giudizio,
tanto più determinante, nel caso che le conclusioni siano per la
condanna del contabile, nel qual caso, come si è detto, il Presidente
della Sezione è tenuto a fissare l’udienza per la discussione del
giudizio.
A queste considerazioni si aggiunge l’altra che ha riguardo alla
natura della questione quale risulta sollevata, secondo una
prospettazione che s’incentra nel dubbio del giudice sulla legittimità
della propria costituzione, ai sensi dell’art. 158 c.p.c. norma di
rito richiamata dall’art. 26 citato r.d. n. 1038 del 1933: legittimità
di costituzione che si risolve, come generalmente ritenuto, in difetto
di giurisdizione. La sentenza di questa Corte n. 71 del 1975 ha appunto
riconosciuto anche al giudice singolo “il potere-dovere di verificare
d’ufficio la regolarità della sua costituzione in giudizio, in
rapporto alla legittimità costituzionale delle norme che la
disciplinano ed in rapporto alla sussistenza di vizi concernenti la sua
nomina”. La questione in esame postula l’applicazione dello stesso
principio, con il conseguente riconoscimento della appartenenza al
giudice relatore della titolarità a sollevarla.
4. – La questione è, peraltro, inammissibile sotto diversi profili
di intrinseca irrilevanza.
La questione riguarda, anzitutto, l’art. 7 del t.u. 12 luglio 1934,
n. 1214, nella parte in cui attribuisce al Presidente del Consiglio dei
ministri la competenza a proporre la nomina del Presidente della Corte
dei conti. Il potere così riconosciuto avrebbe un contenuto così
latamente discrezionale da sconfinare nell’arbitrio, incidendo sulla
indipendenza dell’Istituto, la quale sarebbe condizionata per effetto
del censurato potere, sia in funzione della scelta del momento
opportuno della nomina del Presidente, sia in connessione con
l’iniziativa governativa in materia disciplinare nei confronti del
Presidente, sia per effetto della corresponsione discrezionale da parte
del Governo di compensi speciali per lavoro straordinario, sia in
conseguenza delle relazioni che si porrebbero fra lo stesso Presidente
ed i capi delle pubbliche amministrazioni in occasione del conferimento
di incarichi retribuiti ai componenti della Corte presso le
amministrazioni stesse. E, sempre secondo l’ordinanza, il potere di
nomina del Presidente da parte del Governo si rifletterebbe
negativamente anche su altri aspetti del funzionamento della Corte,
collegati all’esercizio di poteri diretti del Presidente stesso,
indicati nella facoltà di trasferimento dei magistrati da un ufficio
all’altro ex art. 16 del regolamento approvato dalle Sezioni Riunite
della Corte dei conti il 25 giugno 1915; nell’influenza sulle
determinazioni del Consiglio di presidenza da lui presieduto e chiamato
a dare pareri ai fini delle promozioni a scelta dei magistrati; nella
titolarità della iniziativa in materia disciplinare a norma dell’art.
8 citato t.u. del 1934.
Secondo il giudice a quo, dalla eventuale dichiarazione di
illegittimità della norma impugnata deriverebbero la illegittimità
della nomina del Presidente, l’illegittimità dell’atto con cui questi
ha designato il Presidente della sezione giurisdizionale di cui fa
parte il giudice a quo e, conseguentemente, l’illegittimità della
nomina del relatore, effettuata appunto dal presidente di sezione
nell’esercizio dei suoi compiti istituzionali ai sensi dell’art. 27 del
Regolamento n. 1038 del 1933.
La motivazione del giudizio di rilevanza, secondo la consolidata
giurisprudenza della Corte, è suscettibile di sindacato, qualora
risulti chiaramente viziata nell’impostazione e nel procedimento e ne
derivi, pertanto, l’evidente esclusione del carattere di necessaria
pregiudizialità della soluzione della questione di legittimità
rispetto alla decisione del merito.
Ciò posto, va ricordato che questa Corte, con la sent. n. 180 del
1971, in un caso per molti aspetti analogo a quello in esame, ha
controllato la rispondenza della motivazione del giudizio di rilevanza
ai criteri sopra accennati, e, escludendola, ha dichiarato la
inammissibilità della questione per irrilevanza.
Si trattava, allora, di una questione sollevata dalla III sezione
penale del tribunale di Milano che aveva ravvisato un possibile difetto
di costituzione del giudice per il fatto che il collegio era stato
formato con l’applicazione di un magistrato di altra sezione, disposta
dal presidente del tribunale, la nomina del quale, peraltro, avrebbe
dovuto riconoscersi viziata perché effettuata su deliberazione del
Consiglio superiore della magistratura assunta in base ad una norma
della legge 24 marzo 1958, n. 195, ritenuta dal giudice a quo in
contrasto con alcuni principi costituzionali. In detto caso la Corte ha
dichiarato il giudizio di rilevanza prima facie errato, osservando
essere ovvio che, siccome il provvedimento di applicazione del
magistrato era stato effettivamente adottato dal presidente, cioè
dall’organo competente, in conformità delle norme che regolano
l’istituto, nessun’altra indagine il tribunale doveva compiere,
risultando così già certa la regolarità della sua composizione. In
particolare, l’indagine sulla regolarità del procedimento di nomina
dell’organo che aveva emanato il provvedimento, secondo quanto
espressamente affermato dalla Corte nella pronunzia in esame, risultava
“ultronea” perché essendo stata la nomina relativa “formalmente
assunta” “gli atti compiuti e i provvedimenti emanati dall’organo
resterebbero efficaci anche nel caso che essa venisse in prosieguo,
nelle forme stabilite ed in sede competente, ritenuta invalida ed
annullata”.
Detti principi appaiono applicabili alla fattispecie in esame, che
come si è detto, sostanzialmente coincide con quella testé descritta,
ed anzi presenta una maggiore assoggettabilità al riferito criterio di
giudizio perché il provvedimento di designazione del referendario
relatore, che dovrebbe ritenersi invalido per i descritti vizi, non
risulta adottato dal presidente della Corte, la cui nomina sarebbe
viziata, ma dal presidente di sezione da lui designato, con una
dilatazione dei pretesi effetti della assunta causa invalidatrice dei
provvedimenti che rende ancora più evidente l’ininfluenza della
eventuale caducazione della norma impugnata sul provvedimento de quo.
Il quale, essendo stato adottato nella vigenza di norme che lo
legittimavano, ed attenendo indubbiamente all’aspetto organizzativo
degli uffici, sopravviverebbe anche alla loro caducazione.
Altresì irrilevanti, sotto un diverso profilo, appaiono le altre
questioni di legittimità sollevate nell’ordinanza, le quali riguardano
l’assunta lesione della indipendenza del giudice a quo che deriverebbe
da una serie di norme regolanti l’organizzazione degli uffici, e lo
status dei magistrati della Corte dei conti.
In particolare, il giudice a quo obietta che “la sua serenità ed
autonomia di giudizio” sarebbero turbate dal potere troppo latamente
discrezionale attribuito al presidente della Corte dei conti di
disporre il suo eventuale passaggio alle funzioni requirenti, secondo
l’art. 11, ultimo comma, della legge 20 dicembre 1961, n. 1345, o il
suo trasferimento ad altra sezione giurisdizionale in base all’art. 2,
secondo comma, della legge 21 marzo 1953, n. 161, o la sua destinazione
ad altro ufficio della Corte, secondo l’art. 16 del regolamento
approvato dalle sezioni riunite della Corte il 25 giugno 1915. Eguali
effetti dovrebbero imputarsi agli artt. 10, secondo comma, e 13, primo
comma, della citata legge 20 dicembre 1961, n. 1345, nonché all’art. 3
legge 13 ottobre 1969, n. 691, per la discrezionalità dei poteri ivi
attribuiti al presidente della Corte ed al Consiglio di presidenza, da
lui presieduto, in materia di promozioni da referendario a primo
referendario, che avverrebbero su proposta del presidente, previo
parere del Consiglio, in larga parte a scelta, senza la
predeterminazione di criteri oggettivi al riguardo. Dette norme si
porrebbero in contrasto, oltre che con gli artt. 100, 101, 108 della
Costituzione, anche con la garanzia di difesa apprestata dall’art. 24
Cost. sempre in vista dell’eccessiva discrezionalità come sopra
attribuita, che conculcherebbe la effettiva possibilità di tutela
degli interessi nelle sedi appropriate. Tutela che, per altro verso,
sarebbe anche carente in conseguenza della giurisdizione in materia di
status dei magistrati della Corte affidata alle sezioni riunite della
stessa, con conseguente illegittimità, per contrasto sia con gli artt.
100, 101 e 108 Cost. sotto il profilo della lesione dell’indipendenza
dei magistrati della Corte, sia con gli artt. 3 e 24 Cost. per la
discriminazione che produrrebbe a danno dei magistrati stessi di fronte
alle altre categorie di pubblici dipendenti. Si richiamano per
censurarli: gli artt. 1, terzo comma, 3, primo comma, 65 t.u. 12 luglio
1934, n. 1214, in quanto prevedono tale forma anomala di giurisdizione,
affidano la presidenza delle sezioni riunite, organo giudicante in
materia, al presidente della Corte, e stabiliscono che il giudizio
stesso avvenga in unico grado; l’art. 2 legge 21 marzo 1953, n. 161, in
quanto non predispone criteri regolanti la scelta dei magistrati
chiamati a far parte delle dette sezioni riunite; gli artt 72 r d n.
1214 del 1934 e 60 r.d. n. 1038 del 1933, in quanto prevedono la
partecipazione al giudizio del Procuratore generale; l’art. 16 del
regolamento del 1915 sopra citato, per la facoltà discrezionale di
trasferimento ivi attribuita al presidente, che inciderebbe
sull’indipendenza dei componenti delle sezioni riunite; l’art. 4 d.l. 5
maggio 1948, n. 589, per l’analoga facoltà discrezionale ivi
attribuita al presidente di trasferire i componenti del detto collegio
giudicante alle funzioni requirenti; gli artt. 7, penultimo e ultimo
comma, t.u. n. 1214 del 1934, 13 legge 20 dicembre 1961, n. 1345, che
prevedono la promozione a scelta dei consiglieri a presidenti di
sezione, esponendo i componenti delle sezioni riunite a soggezione
verso i vertici dell’Istituto; gli artt. 8 e 9 della legge 21 marzo
1953, n. 161, che egualmente inciderebbero sull’indipendenza dei
componenti delle sezioni riunite attraverso le facoltà discrezionali
attribuite al presidente in materia di incarichi speciali ai magistrati
della Corte.
Come risulta evidente dalla esposizione delle questioni testé
enunciate, il giudice a quo ha elencato come contrastanti con gli
invocati precetti costituzionali una serie di norme che inciderebbero
sulla sua serenità ed obiettività di giudizio e quindi sulla sua
indipendenza, nonché sulla effettività del suo diritto di difesa e
sull’osservanza nei suoi confronti della garanzia di eguaglianza. Tutto
ciò, come è chiaramente affermato nell’introduzione dell’ordinanza,
al fine di accertare pregiudizialmente ai sensi dell’art. 158 c.p.c.
“la legittimità della costituzione del giudice designato quale
relatore” nel giudizio principale, sia sotto il profilo della validità
della investitura sia sotto il profilo della sussistenza della
necessaria garanzia di indipendenza dell’esercizio delle funzioni
giurisdizionali.
A questo proposito deve ricordarsi la giurisprudenza della Corte
che, in un caso analogo a quello in esame, ha chiaramente affermato che
“le guarentigie che costituzionalmente tutelano la funzione giudiziaria
attengono allo stato giuridico del giudice come persona investita di
tale funzione e, se violate, trovano i rimedi giurisdizionali che la
legge ha all’uopo predisposti” (sentenza n. 194 del 1970). Tali
guarentigie, secondo la detta giurisprudenza “non interferiscono in
alcun modo nella regolare costituzione dell’organo preposto alla
funzione in un determinato processo, le cui norme regolatrici attengono
invece alla capacità di essere giudice in quel processo e si
riferiscono alla sua nomina, alla regolare assunzione dell’ufficio,
all’assenza di incompatibilità etc.. Solo alla violazione di tali
norme gli artt. 158 c.p.c. e 185, n. 1 c.p.p. devesi intendere
riconnettano la sanzione della nullità dei provvedimenti del giudice e
non a quelle che attengono al suo stato giuridico, intorno alle quali
non si può controvertere finché non si assuma l’esistenza di una
violazione e non si investa del caso l’organo competente a giudicare
della legittimità del provvedimento amministrativo col quale la
violazione stessa sarebbe stata consumata”. Tali concetti sono stati
sostanzialmente confermati dalla sent. n. 71 del 1975. Perciò, siccome
le doglianze mosse dal giudice a quo attengono ovviamente al suo stato
giuridico, e riflettono violazioni solo potenziali ma non attuali delle
garanzie costituzionali ai fini dell’esercizio delle sue funzioni, è
chiaro che si tratta di censure che non interferiscono nella regolare
costituzione del giudice stesso. Anche nella specie devesi quindi
giungere ad escludere prima facie la rilevanza delle questioni suddette
ed a dichiararne in conseguenza l’inammissibilità.
5. – D’altra parte, come risulta evidente dalla esposizione delle
questioni in esame, trattasi di censure collegate tutte ad “ipotetiche”
interferenze sulla indipendenza di giudizio del giudice a quo che
potrebbero anche, per la loro ipoteticità, essere considerate
irrilevanti in conformità della costante giurisprudenza della Corte
costituzionale che, nell’esaminare la sussistenza del rapporto di
strumentalità necessaria fra la soluzione della questione di
legittimità costituzionale e la decisione del giudizio a quo, l’ha
esclusa tutte le volte che, come nel caso in esame, la norma impugnata
non debba essere applicata in concreto ai fini della pronuncia che il
giudice deve emettere, ma abbia veste teorica e si fondi su ipotesi o
congetture, quali appunto sembra debbano configurarsi le eventualità
lesive della indipendenza del magistrato rappresentate dal giudice a
quo.
E infine da rilevare, sempre con riguardo al necessario controllo
della ammissibilità delle questioni, che gli artt. 16 del Regolamento
approvato dalle sezioni riunite della Corte dei conti il 25 giugno 1915
e 38 dell’analogo regolamento approvato il 2 luglio 1913 sono contenuti
in provvedimenti normativi che riguardano il momento organizzativo
degli uffici, con riflessi di ordine prevalentemente interno. Trattasi
di provvedimenti tipicamente regolamentari e, come tali, sottratti al
sindacato di legittimità costituzionale di questa Corte.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
sollevate dal magistrato addetto alla II sezione giurisdizionale della
Corte dei conti, relatore nel giudizio sul conto reso dal Tesoriere del
Comune di Aieta in relazione agli artt. 3, 24, 100, ultimo comma, 101,
secondo comma, 108, secondo comma, Cost. e riguardanti:
a) gli artt. 1, terzo comma, 3, primo comma, 7, primo ed ultimo
comma, 65 e 72 del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti approvato con
r.d. 12 luglio 1934, n. 1214;
b) l’art. 2, secondo comma, e gli artt. 8 e 9 legge 21 marzo 1953,
n. 161, sull’ordinamento dei magistrati della Corte dei conti;
c) gli artt. 10, secondo comma, 11, ultimo comma, e 13, primo e
secondo comma, della legge 20 dicembre 1961, n. 1345, sullo stesso
ordinamento;
d) l’art. 3 della legge 13 ottobre 1969, n. 691 (promozione da
referendari a primi referendari);
e) l’art. 16 del Regolamento dei servizi della Corte dei conti e
per l’esercizio delle sue attribuzioni non contenziose, nel testo
approvato dalle sezioni riunite della Corte con delibera 25 giugno
1915;
f) l’art. 38 del predetto regolamento nel testo approvato dalle
sezioni riunite con delibera 2 luglio 1913;
g) l’art. 4, secondo comma, del decreto legislativo 5 maggio 1948,
n. 589;
h) l’art. 60, penultimo ed ultimo comma, del r.d. 13 agosto 1933,
n. 1038.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 marzo 1978.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
LEONETTO AMADEI – EDOARDO VOLTERRA –
GUIDO ASTUTI – MICHELE ROSSANO –
ANTONINO DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere