Sentenza N. 193 del 1981
Corte Costituzionale
Data generale
17/12/1981
Data deposito/pubblicazione
17/12/1981
Data dell'udienza in cui è stato assunto
26/11/1981
EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO –
Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN –
Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof. VIRGILIO
ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
commi primo e secondo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei
lavoratori) promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 28 gennaio 1976 dal pretore di Firenze nel
procedimento civile vertente tra Garzella Giulio e la S.A.S. Malesci,
iscritta al n. 233 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 125 del 1976;
2) ordinanza emessa il 2 luglio 1976 dal tribunale di Lucca nel
procedimento civile vertente tra la S.p.A. Nuova Salpit e Arpesella
Aldo, iscritta al n. 614 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 300 del 1976;
3) ordinanza emessa il 22 marzo 1977 dal pretore di Bari nel
procedimento civile vertente tra Cianciotta Roberto e la Banca
Commerciale Italiana, iscritta al n. 390 del registro ordinanze 1977 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 286 del 1977;
4) ordinanza emessa il 23 dicembre 1977 dal pretore di Lucca nel
procedimento civile vertente tra Cardinotti Augusto e la Cassa di
Risparmio di Lucca, iscritta al n. 379 del registro ordinanze 1978 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 300 del 1978.
Visti gli atti di costituzione della Soc. Malesci, della Soc.
Nuova Salpit, della Banca Commerciale Italiana e della Cassa di
Risparmio di Lucca e gli atti di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 ottobre 1981 il Giudice relatore
Oronzo Reale;
uditi gli avvocati Nicola Pinto, per la Soc. Malesci, Luigi
Calabrese, per la Soc. Nuova Salpit e per la Cassa di Risparmio di
Lucca, Enrico Ciccotti, per la Banca Commerciale Italiana e l’Avvocato
dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
1. – Con ordinanza in data 28 gennaio 1976 (R.O. n. 233 del 1976),
il pretore di Firenze, giudice del lavoro, ha sollevato questione
incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 32, secondo
comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), per
preteso contrasto con gli artt. 51, primo e terzo comma, 3, primo e
secondo comma, e 36, primo comma, della Costituzione.
Il giudice a quo era stato investito del caso di Giulio Garzella,
dipendente della S.A.S. Malesci, eletto consigliere comunale a Pisa e
nominato poi assessore. Questi lamentava che la Società non aveva
provveduto a retribuire le assenze che egli era costretto a compiere
onde assolvere il suo mandato di assessore comunale; a suo avviso, una
retta interpretazione dell’art. 32 della legge n. 300 del 1970, visto
alla luce dei principi di cui all’art. 51 della Costituzione,
comporterebbe l’esattezza della tesi secondo cui se ai consiglieri
comunali è dovuta la retribuzione anche per il periodo di tempo
necessario per espletare il loro mandato, a maggior ragione il medesimo
trattamento dovrebbe essere riconosciuto ai sindaci ed agli assessori.
Tale tesi interpretativa, contrastata dalla resistente società
Malesci, veniva ritenuta infondata dal pretore di Firenze, il quale,
sulla base della lettera della legge, argomentava nel senso che proprio
il secondo comma dell’art. 32 citato escludeva che il trattamento dei
consiglieri comunali (o provinciali) potesse essere lo stesso di quello
ivi autonomamente previsto per i sindaci e gli assessori. Fermo dunque
che la legge prevede che i consiglieri comunali hanno diritto a
permessi retribuiti per il “tempo strettamente necessario
all’espletamento del mandato” (primo comma dell’art. 32) e i sindaci e
gli assessori comunali “hanno diritto anche a permessi non retribuiti
per un minimo di trenta ore mensili” (secondo comma dello stesso
articolo), il giudice a quo dubitava della conformità a Costituzione
di tale disciplina sotto i seguenti profili:
a) disparità di trattamento (ingiustificata) tra i cittadini
lavoratori subordinati e non; mentre infatti i primi sarebbero comunque
soggetti ad una perdita economica conseguente all’accettazione, da
parte loro, delle suddette cariche, i secondi, mediante l’esercizio
dell’attività professionale (o simili) in altre ore, o con diversi
criteri organizzativi, potrebbero evitare qualunque pregiudizio
economico. A ciò deve aggiungersi che il lavoratore subordinato
privato, in conseguenza dello svolgimento dei compiti di sindaco od
assessore, vedrebbe leso un bene, la retribuzione, costituzionalmente
protetto dall’art. 36 Cost.; e che ove questi, per non perdere parte
della retribuzione, rinunciasse alle cariche suddette, si realizzerebbe
una limitazione di fatto del principio di eguaglianza e, ancora, “un
impedimento di ordine economico alla partecipazione dei lavoratori
all’organizzazione politica del Paese”, in contrasto con l’art. 3,
cpv., della Costituzione;
b) disparità di trattamento tra dipendenti privati abbienti e non
abbienti: “i primi possono assumere la carica di sindaco o di assessore
perché sono in grado di rinunciare senza danno per sé e per la
famiglia a una parte della retribuzione; i secondi no”; c)
discriminazione tra lavoratori dipendenti privati e pubblici; per
questi ultimi, la legge 12 dicembre 1966, n. 1078, prevede infatti una
“precisa perequazione” in forza della quale, con variazioni determinate
in ragione delle diverse situazioni di fatto, conservano “l’intero
trattamento economico ordinario corrente pel rapporto di impiego
pubblico…”.
Secondo il giudice a quo l’art. 51, primo e terzo comma, della
Costituzione, andrebbe inteso nel senso che le condizioni di
eguaglianza di cui al primo comma debbano essere assicurate anche dalla
inesistenza di norme che ostacolino l’accesso alle cariche elettive ai
non abbienti o ai lavoratori subordinati; mentre la disposizione di cui
al terzo comma andrebbe rettamente intesa nel senso che “il diritto di
disporre del tempo necessario…” comporterebbe il “non sacrificio” di
altri diritti costituzionalmente protetti, quale quello alla
retribuzione.
Peraltro il pretore di Firenze, richiamando l’art. 7 del T.U. 5
aprile 1951, n. 203 e non, invece, la sopravvenuta e già vigente legge
26 aprile 1974, n. 169, affermava che se il detto art. 7 “stabilisse
l’obbligo della perequazione mediante adeguata indennità di carica,
l’art. 32, secondo comma, dello Statuto (dei lavoratori) non sarebbe
viziato di illegittimità”, così come se la legge n. 1078/1966 non
disponesse la perequazione a favore dei dipendenti pubblici, sarebbe
eliminata la incostituzionale diseguaglianza tra dipendenti pubblici e
privati. “Questa situazione complessiva – soggiungeva il pretore sarà
– affrontata dalla Corte costituzionale con gli strumenti tecnici e le
valutazioni ritenuti più opportuni, comprese eventuali indicazioni al
legislatore”; mentre il giudice della causa si limita a denunciare per
sospetta incostituzionalità “l’art. 32, secondo comma, dello Statuto
dei lavoratori che egli sarebbe chiamato ad applicare, nel contesto di
altre norme pure viziate nel combinato disposto che definisce la
fattispecie legale”. E pertanto nel dispositivo dell’ordinanza il
pretore chiede alla Corte la “decisione delle questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 32, secondo comma, della legge n. 300/1970
(Statuto dei lavoratori) e norme connesse, nei sensi di cui in
motivazione, in relazione agli artt. 51, primo e terzo comma, 3, primo
e secondo comma, e 36, primo comma, della Costituzione”.
2. – L’ordinanza veniva ritualmente notificata e comunicata;
spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri per il
tramite dell’Avvocatura generale dello Stato e si costituiva la Malesci
S.A.S. Quest’ultima, nel rilevare che la questione era stata sollevata
d’ufficio dal giudice a quo, si esimeva dall’entrare nel merito della
questione, limitandosi a sottolineare per un verso la diversa
disciplina introdotta dalla legge n. 169 del 1974, e, per contro, a
manifestare perplessità circa l’invito, rivolto dal giudice a quo alla
Corte, di dare eventuali indicazioni al legislatore. La stessa Malesci
con successiva memoria confuta le motivazioni del pretore, con ampio
riferimento alla dottrina, alla giurisprudenza e ai lavori preparatori
della legge n. 300/1970 e chiede che la questione sia dichiarata
infondata.
L’Avvocatura dello Stato chiedeva una declaratoria di infondatezza
della questione sottoposta al giudizio della Corte; si sottolineava
infatti che la più volte ricordata legge n. 169 del 1974 ha reso
obbligatoria la corresponsione di una indennità di carica ai sindaci
ed agli assessori comunali, quanto meno in un caso come quello
sottoposto al giudizio del pretore di Firenze. Anche se può in
concreto verificarsi il caso che l’indennità di carica non sia
sufficiente a coprire totalmente la eventuale decurtazione della
retribuzione che consegue alla fruizione di permessi non retribuiti
onde ottemperare agli obblighi conseguenti alla carica, tale situazione
deve essere vista nell’ottica del legislatore che si è ispirato ad un
criterio equitativo” tale da evitare “alle aziende intollerabili
aggravi”, che avrebbero potuto incidere negativamente sui livelli
occupazionali.
A ciò si aggiunga per un verso che le cariche elettive di che
trattasi rivestono precipuo carattere pubblico e sono espletate
nell’interesse della collettività, sicché esulano dal rapporto
contrattuale tra cittadino ed aziende; e che, con riferimento alla
denunciata sperequazione tra dipendenti pubblici e privati, il
sacrificio connesso alla residuale disparità di trattamento si
giustifica razionalmente in base al fatto che l’aggravio dei costi in
un caso grava sul privato datore di lavoro e nell’altro su enti
esponenti di quei medesimi interessi collettivi che le cariche
pubbliche elettive di che trattasi devono garantire.
3. – Con ordinanza in data 22 marzo 1977 (R.O. n. 390 del 1977), il
pretore di Bari, giudice del lavoro nella causa promossa da Roberto
Cianciotta contro la Banca Commerciale Italiana per ottenere che gli
fosse corrisposta la retribuzione anche relativamente alle assenze
attinenti all’espletamento della carica di sindaco del comune di
Bitetto, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art.
32, secondo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, in riferimento
agli artt. 51, primo e terzo comma, 3, primo e secondo comma, e 36,
primo comma, della Costituzione, in termini sostanzialmente coincidenti
con quelli di cui all’ordinanza del pretore di Firenze.
Con specifico riguardo alla normativa di cui alla legge n. 169 del
1974, il giudice a quo ritiene che la stessa non valga a sanare la
sperequazione di trattamento, in quanto l’indennità di carica è
rimessa “alla deliberazione dell’organo elettivo” e indeterminata nel
quantum. Lamenta anzi che la mancata previsione, nella stessa legge, di
un meccanismo di perequazione retributiva analogo a quello previsto
dalla legge n. 1078 del 1966 per i dipendenti pubblici contribuisca a
creare la denunciata illegittimità costituzionale dell’art. 32 della
legge n. 300 del 1970.
4. – L’ordinanza veniva ritualmente notificata e comunicata;
spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri per il
tramite dell’Avvocatura dello Stato e si costituiva la Banca
Commerciale Italiana. Quest’ultima osservava che:
a) il sistema previsto dagli artt. 31 e 32 della legge n. 300 del
1970 risponde a criteri di logica e di equità; i consiglieri comunali
devono infatti partecipare unicamente alle sedute consiliari (che, tra
l’altro, spesso si svolgono in orari non coincidenti con quelli di
ufficio o di fabbrica), mentre le cariche di sindaco o di assessore
assorbono assai di più. Se è concepibile, in ragione della funzione
pubblica cui sono preordinate, che le limitate assenze dei consiglieri
possano gravare sul datore di lavoro, ove anche le ben più consistenti
assenze derivanti dall’espletamento dei compiti di sindaco o di
assessore fossero a carico del datore di lavoro, la normativa sarebbe
incostituzionale perché stabilirebbe un gravame ad esclusivo carico
dei datori di lavoro, in antitesi con l’art. 53 Cost. Né può essere
considerato irrilevante che ove la legge consentisse la piena
retribuzione dei dipendenti privati, questi godrebbero di un
trattamento ingiustificatamente di favore rispetto ai lavoratori non
subordinati, i quali, secondo le stesse argomentazioni del giudice a
quo, solo mediante il prolungamento del loro orario di lavoro oltre il
normale, potrebbero mantenere inalterato il loro guadagno.
Ma è tutto il sistema contenuto nella legge n. 300 del 1970 che
dimostra chiaramente che l’onere della retribuzione viene accollato al
datore di lavoro solo relativamente ad assenze di lieve entità quali
assemblee, permessi sindacali, permessi di due ore giornaliere per
allattamento; non nei casi di aspettativa per motivi sindacali,
sospensione obbligatoria o facoltativa per maternità o puerperio e
simili. Tendenzialmente, è rilevabile l’orientamento del legislatore a
diminuire progressivamente il peso economico, per il datore di lavoro,
dell’assenza giustificata del lavoratore, in proporzione alla durata
dell’assenza stessa;
b) nell’ipotesi in cui la situazione normativa vigente non fosse
ritenuta conforme a Costituzione, il vizio di illegittimità
costituzionale dovrà riguardare pertanto non l’art. 32 della legge n.
300 del 1970, ma la normativa che non prevede che l’indennità da
corrispondersi ai sindaci ed agli assessori a carico dell’ente
amministrato debba essere pari all’ammontare della retribuzione cui gli
stessi dovrebbero rinunciare.
Con successiva memoria la Banca Commerciale Italiana ha ribadito e
sviluppato le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione,
osservando che se anche ad assessori e sindaci dipendenti da privati si
garantisse l’intera retribuzione, si incorrerebbe nella
incostituzionalità di porre a carico dei datori di lavoro un gravame
derivante dall’adempimento di compiti di interesse pubblico.
L’Avvocatura dello Stato chiedeva che la proposta questione fosse
dichiarata infondata, svolgendo considerazioni analoghe a quelle
riassunte a proposito dell’ordinanza del pretore di Firenze.
5. – Con ordinanza in data 23 dicembre 1977 (R.O. n. 379 del
1978), il pretore di Lucca, giudice del lavoro nella causa promossa da
Augusto Cardinotti contro la Cassa di Risparmio di Lucca onde ottenere
la intera retribuzione anche relativamente alle assenze derivanti
dall’adempimento dei compiti scaturenti dall’espletamento della carica
di vicesindaco-assessore anziano del comune di Villa Basilica,
sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 32,
secondo comma, della legge n. 300 del 1970 in relazione all’art. 3
della Costituzione, in quanto la detta norma violerebbe il principio di
eguaglianza, discriminando tra lavoratori eletti alla carica di
consiglieri comunali e “lavoratori eletti alla (ulteriore) carica di
sindaco o di assessore in ordine al regime dei permessi, trattandosi di
situazioni sostanzialmente identiche”.
6. – L’ordinanza veniva ritualmente notificata e comunicata;
spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri per il
tramite dell’Avvocatura generale dello Stato e si costituiva la Cassa
di Risparmio di Lucca. Quest’ultima chiedeva una declaratoria di
infondatezza della proposta questione, assumendo che è
costituzionalmente legittimo che il legislatore disciplini in modo
differenziato situazioni apparentemente simili, ove sia razionalmente
giustificato il differente trattamento normativo. Con successiva
memoria la Cassa di Risparmio di Lucca ribadisce le ragioni che
porterebbero alla infondatezza della questione e difende la logica del
sistema degli artt. 31 e 32 dello Statuto dei lavoratori.
L’Avvocatura dello Stato sostiene che le situazioni, diversamente
regolate dal primo e secondo comma dell’art. 32 della legge n. 300 del
1970, sono oggettivamente diverse, sia per la qualità delle funzioni
che per la entità delle prestazioni che il loro assolvimento può
comportare, anche in ordine alle conseguenze che ne possono derivare
quanto al rapporto di lavoro.
Il sistema delineato dagli artt. 31 e 32 dello Statuto dei
lavoratori ha dato attuazione corretta del dettato dell’art. 51 della
Costituzione, ampliando anzi le garanzie costituzionalmente previste.
Se infatti il lavoratore, ex art. 51 della Costituzione, ha diritto ad
essere esentato dalla prestazione lavorativa nei limiti del tempo
necessario all’adempimento dei suoi compiti pubblici, conservando il
posto di lavoro, l’ambito operativo del dettato costituzionale non si
estenderebbe fino a garantire anche la intera retribuzione, in ragione
della sinallagmaticità delle prestazioni, caratteristica del rapporto
di lavoro.
Lo Statuto dei lavoratori, nell’attuare normativamente il dettato
costituzionale, ne ha ampliato i contenuti delineando un sistema
complesso, che, onde favorire un più ampio esercizio della funzione,
prevede per un verso la possibilità, a discrezione del lavoratore
eletto a cariche pubbliche, di ottenere l’aspettativa non retribuita
per tutta la durata del mandato, ovvero di godere delle facoltà
previste nell’art. 32. Ed è in questa ottica del tutto ragionevole
che, soprattutto per i lavoratori chiamati ad espletare i compiti di
sindaco o di assessore, la cui tutela sotto il profilo retributivo deve
essere considerata anche in relazione al diritto, sancito dalla legge
n. 169 del 1974, alla indennità di carica, va valutata la legittimità
costituzionale della normativa impugnata, la quale, in attuazione di
criteri logici ed equitativi, ha diversamente, ma razionalmente,
regolamentato le diverse possibili situazioni.
7. – Con ordinanza in data 2 luglio 1976, il tribunale di Lucca
sollevava questione incidentale di legittimità costituzionale del
primo comma dell’art. 32 della legge n. 300 del 1970, in relazione
agli artt. 3, primo comma, 51, terzo comma, e 53, primo comma, della
Costituzione.
Nell’ordinanza di rimessione (R.O. n. 614 del 1976) si dava atto
che con sentenza del 10-13 febbraio 1976, il pretore di Pistoia aveva
accolto il ricorso di Aldo Arpesella, consigliere del comune di
Capannori, il quale chiedeva che la Società Nuova Salpit gli
corrispondesse la retribuzione per tutto il tempo in cui egli era
rimasto assente dal lavoro per partecipare alle riunioni consiliari.
Avverso tale sentenza, la resistente Società aveva proposto appello,
prospettando pregiudizialmente la possibile illegittimità
costituzionale dell’art. 32, primo comma, dello Statuto dei
lavoratori, per contrasto con l’art. 51, comma terzo, della
Costituzione, nella parte in cui tale norma prevede che vengano
accordati permessi retribuiti ai lavoratori eletti consiglieri
comunali.
Il Tribunale, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la
questione, ne investiva la Corte, sulla base delle seguenti
argomentazioni:
a) premesso che il rapporto sinallagmatico è pur sempre alla base
della relazione tra datore di lavoro e lavoratore, l’art. 51 della
Costituzione garantisce al lavoratore subordinato il solo diritto a
disporre del tempo necessario ed a conservare il posto di lavoro; non
è perciò prevista alcuna garanzia relativa alla retribuzione, cosa
del resto logica, atteso che non può aversi la prestazione lavorativa.
Sarebbe perciò violato l’art. 51, comma terzo, della Costituzione;
b) sarebbe anche violato il combinato disposto degli artt. 3 e 53
della Costituzione; infatti e il principio di eguaglianza e quello
secondo cui tutti i cittadini devono concorrere alle pubbliche spese in
ragione della loro capacità contributiva verrebbero ad essere lesi del
fatto che sarebbe imposto “un carico particolare ad una sola categoria
di cittadini” (i datori di lavoro) in conseguenza dello svolgimento di
una pubblica funzione, peraltro già incidente sulla collettività in
forza delle disposizioni degge 14 agosto 1971, n. 1301 e d.P.R. 11
gennaio 1956, n. 5) che assegnano ai consiglieri comunali l’indennità
di presenza ed il rimborso delle spese di viaggio;
c) il tribunale ritiene altresì che possa prospettarsi l’eventuale
violazione dell’art. 3 della Costituzione in relazione alla situazione
normativa che discende dal raffronto tra l’art. 31 e l’art. 32 della
legge n. 300 del 1970; infatti, in forza dell’art. 31, i lavoratori che
optano per l’aspettativa non retribuita altro non avrebbero che la
conservazione del posto, mentre, in forza dell’art. 32, coloro i quali
non ritengano di avvalersi di tale facoltà conserverebbero l’intera
retribuzione, oltre alle altre indennità previste dalla legge.
8. – L’ordinanza veniva ritualmente notificata e comunicata; si
costituiva la Nuova Salpit S.p.A. e spiegava intervento il Presidente
del Consiglio dei ministri per il tramite dell’Avvocatura generale
dello Stato.
La difesa della Società aderiva alle argomentazioni svolte
nell’ordinanza, insistendo in particolare sulla violazione degli artt.
3 e 51 della Costituzione. Con successiva memoria la Salpit insiste nel
chiedere la fondatezza della questione argomentando dall’art. 51 che
garantirebbe solo la conservazione del posto.
L’Avvocatura dello Stato, invece, chiedeva che la proposta
questione fosse dichiarata infondata; all’uopo osservava che l’art. 3
della Costituzione non può venire invocato perché la comparazione
deve avvenire tra chi liberamente sceglie l’aspettativa e chi invece
altrettanto liberamente sceglie di continuare a lavorare, situazioni
queste obiettivamente diverse. E sottolineava che l’art. 51 della
Costituzione non sembra soffrire violazione alcuna dalla ulteriore
previsione normativa di conservazione oltre che del posto di lavoro,
del relativo trattamento economico, mentre l’art. 53 della Costituzione
non entra neanche in discussione, riguardando tale precetto
costituzionale… i criteri di proporzionalità che devono presiedere
alle prestazioni fiscali, imposte ai soggetti passivi, mentre la norma
impugnata attiene con la forza dell’evidenza ad una fase diversa da
quella relativa alla provvista dei fondi necessari”.
1. – Le tre ordinanze dei pretori di Firenze, di Bari di Lucca e
quella del tribunale di Lucca indicate in epigrafe e riassunte in
narrativa sollevano questioni di legittimità costituzionale relative
alla medesima norma di legge: i giudizi possono quindi essere riuniti e
decisi con unica sentenza.
2. – Le questioni proposte possono essere così enucleate e
raggruppate.
A) L’art. 32, comma secondo, della legge n. 300 del 1970 (Statuto
dei lavoratori), che accorda ai lavoratori (dipendenti privati) eletti
alla carica di sindaco o di assessore comunale, ovvero di presidente di
giunta provinciale o di assessore provinciale, permessi non retribuiti
per un minimo di trenta ore mensili, sarebbe in contrasto con l’art. 3
della Costituzione, discriminando irragionevolmente fra lavoratori
subordinati e lavoratori autonomi, i quali secondi, a differenza dei
primi, possono recuperare il lavoro produttivo sacrificato per
esercitare la carica pubblica (Ord. n. 233 del 1976 e n. 390 del 1977
rispettivamente del pretore di Firenze e del pretore di Bari).
B) La stessa norma contrasterebbe con gli artt. 3 e 51, primo
comma, della Costituzione, perché le condizioni di eguaglianza per
l’accesso alle cariche elettive sarebbero violate dall’ostacolo, che
per tale accesso deriverebbe, ai non abbienti, e non agli abbienti,
dalla mancata retribuzione del tempo dedicato alla funzione pubblica
(ordinanze del pretore di Firenze e del pretore di Bari).
C) La stessa norma violerebbe nuovamente l’art. 3 della
Costituzione perché discriminerebbe irragionevolmente i lavoratori
dipendenti privati da quelli dipendenti pubblici i quali, quando siano
eletti sindaci o assessori dei comuni con popolazione superiore a
100.000 abitanti (a 50.000 abitanti se trattasi di capoluoghi di
provincia), possono farsi collocare in aspettativa, e in ogni caso sono
autorizzati ad assentarsi dal servizio per il tempo necessario
all’espletamento del mandato, senza perdere la retribuzione, e ciò in
virtù degli artt. 1 e 2 della legge n. 1078 del 1966 (ordinanze del
pretore di Firenze e del pretore di Bari).
D) La stessa norma violerebbe anche l’art. 3, secondo comma, della
Costituzione, perché, ove il lavoratore fosse costretto dalla mancanza
di retribuzione del tempo dedicato alla carica a rinunciare ad essa, si
verificherebbe un impedimento economico alla partecipazione del
lavoratore alla organizzazione politica del Paese (ordinanze del
pretore di Firenze e del pretore di Bari).
E) La stessa norma violerebbe anche l’art. 51, terzo comma, della
Costituzione, poiché nel diritto, da esso sancito, di disporre del
tempo necessario all’esercizio della funzione pubblica elettiva
dovrebbe intendersi incluso quello di mantenere la retribuzione,
garantita al lavoratore dall’art. 36 della Costituzione (ordinanze del
pretore di Firenze e del pretore di Bari).
F) La stessa norma violerebbe sotto altro profilo l’art. 3 della
Costituzione negando nel secondo comma ai lavoratori eletti alle
cariche di sindaco o assessore comunale (o di presidente di giunta
provinciale o assessore provinciale) quella retribuzione dei permessi
che il primo comma salva, invece, per i lavoratori eletti alla carica
di consigliere comunale o provinciale; e ciò con ingiustificata
discriminazione di situazioni sostanzialmente identiche (ordinanza del
pretore di Lucca).
G) L’art. 32, primo comma, dello Statuto dei lavoratori, stabilendo
che le assenze dal servizio per il tempo strettamente necessario
all’espletamento del mandato di consigliere comunale o provinciale
avvengano “senza alcuna decurtazione della retribuzione”, sarebbe in
contrasto con l’art. 51 della Costituzione il quale accorda al chiamato
a funzione pubblica elettiva solo il diritto di disporre del tempo
necessario e di conservare il posto di lavoro (ordinanza del tribunale
di Lucca).
H) La stessa norma, ponendo a carico della categoria dei datori di
lavoro privati il costo dell’espletamento (da parte dei dipendenti) di
una funzione pubblica, sarebbe in contrasto con l’art. 53 della
Costituzione che pone le spese pubbliche a carico di tutti i cittadini
in ragione della loro capacità contributiva (ordinanza del tribunale
di Lucca).
I) Infine, la stessa norma si porrebbe nuovamente in contrasto con
l’art. 3 della Costituzione discriminando ingiustificatamente tra i
lavoratori chiamati a cariche pubbliche elettive che scelgono di essere
collocati in aspettativa non retribuita, come dispone l’art. 31 dello
Statuto dei lavoratori, e quelli che si avvalgono invece del diritto di
assentarsi dal servizio senza decurtazione della retribuzione per il
tempo necessario all’espletamento del mandato (ordinanza del tribunale
di Lucca).
3. – Nessuna delle questioni è fondata.
Non lo è quella riassunta sotto la lettera A (discriminazione
irragionevole tra lavoratori dipendenti e autonomi). Il fatto che i
secondi, a differenza dei primi, non avendo vincoli di orario propri
del lavoro dipendente, possono recuperare la loro attività produttiva
in ore diverse da quelle dedicate alla funzione pubblica, non integra
affatto una ingiusta diversità di trattamento di situazioni eguali,
perché il sacrificio di tempo per adempiere le funzioni pubbliche,
altrimenti utilizzabili in attività economicamente produttive, è
richiesto sia ai lavoratori dipendenti che a quelli autonomi. Né
rileva che questi ultimi possano, con ulteriore impegno di tempo e di
attività, produrre quello che non hanno potuto produrre nelle ore
assorbite dalla carica pubblica: basti considerare che da questa
ulteriore attività essi avrebbero ricavato un beneficio aggiuntivo, e
non sostitutivo, se avessero potuto disporre anche del tempo dedicato
alla carica.
4. – Del pari non è fondata la questione riassunta sotto la
lettera B (violazione dell’uguglianza nel concorrere alla funzione
pubblica, derivante dalla diversa capacità economica). Che la
maggiore agiatezza o ricchezza costituisca un vantaggio, consenta più
agevolmente di dedicare tempo all’attività pubblica (come ad ogni
altra attività), sottraendolo a quella produttiva, è certamente un
fatto non positivo, che le moderne legislazioni vanno progressivamente
affrontando, con l’eliminare o attenuare la gratuità delle funzioni
pubbliche elettive, proprio al fine di conseguire una sempre più ampia
possibilità di accesso ad esse.
L’attribuzione di indennità agli eletti a funzioni pubbliche, che
è una conquista piuttosto recente delle democrazie, si è andata
estendendo dal parlamento alle regioni e anche alle province ed ai
comuni.
Proprio per quanto riguarda i sindaci ed assessori (e anche i
consiglieri) comunali, dei quali si occupavano i pretori di Firenze e
di Bari che hanno sollevato la questione in esame, la legge n. 169 del
1974 stabilisce l’attribuzione di indennità. E il pretore di Firenze,
essendosi richiamato erroneamente alla legge n. 203 del 1951 e non alla
sopravvenuta e già vigente legge n. 169 del 1974, ha dichiarato, come
si è ricordato in narrativa, che se l’art. 7 della legge n. 203 ”
stabilisse l’obbligo della perequazione mediante adeguata indennità di
carica, l’art. 32, secondo comma, dello Statuto (dei lavoratori) non
sarebbe viziato di illegittimità”. Una questione di legittimità
relativa alla adeguatezza della indennità, e in generale al sistema
dei compensi previsto nella legge n. 169 del 1974 avrebbe dovuto essere
(e non è stata) sollevata in ipotesi contro le disposizioni di questa
legge, non dell’art. 32 dello Statuto dei lavoratori.
5. – Meno evidente. ma pur sempre sicura è la infondatezza della
questione riassunta sotto la lettera C (diverso trattamento dei
dipendenti privati da quelli pubblici). È vero che – come si è già
ricordato – la legge n. 1078 del 1966 consente ai dipendenti dello
Stato e degli Enti pubblici, eletti a cariche presso Enti autonomi
territoriali di una certa importanza quanto a popolazione, di ottenere
l’aspettativa (art. 1), e in ogni altro caso di assentarsi dal servizio
per il tempo necessario all’espletamento del mandato (art. 2), senza
perdere la retribuzione.
Ma da questo diverso trattamento dei dipendenti pubblici non deriva
una violazione del principio di eguaglianza, che presuppone la
identità o la omogeneità delle situazioni poste a confronto. La Corte
ha avuto più volte occasione di escludere tale omogeneità fra le
categorie dei dipendenti pubblici e privati. Così a proposito del
diverso regime della pignorabilità degli stipendi (sentenze n. 209
del 1975 e n. 49 del 1976), osservando ciò nonostante il processo di
osmosi che si è venuto verificando tra impiego pubblico e privato,
sussistono fra i due rapporti differenze riconducibili fra l’altro a
particolari e apprezzabili interessi ed esigenze della pubblica
amministrazione e legittimanti diversità di disciplina dei rapporti
medesimi. Così a proposito dei benefici combattentistici concessi ai
dipendenti pubblici e non a quelli privati (sentenza n. 194 del 1976),
rilevando la “peculiare natura del rapporto di pubblico impiego… in
vista degli scopi propri” della pubblica amministrazione.
E trattandosi nella questione in esame della diversità dell’onere
che, per agevolare la partecipazione alle pubbliche funzioni elettive,
viene posto a carico del datore di lavoro pubblico e di quello privato,
non può prescindersi neppure dalla rilevanza che ha la diversa entità
delle risorse rispettive.
6. – La questione riassunta sotto la lettera D (violazione
dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione, nell’ipotesi che la
mancata retribuzione del tempo dedicato all’espletamento della carica
di sindaco o assessore non consenta al lavoratore la sua accettazione)
è nata dall’errato presupposto che la legge vigente non attribuisca
indennità ai sindaci ed agli assessori. Caduto il presupposto, come
si è visto esaminando la questione riassunta sotto la lettera B, cade
la questione.
7. – Egualmente non fondata è la questione riassunta sotto la
lettera E (violazione dell’art. 51, terzo comma, della Costituzione, il
quale garantirebbe ai chiamati alle cariche elettive la disponibilità
del tempo necessario senza sacrificio della retribuzione).
La questione è stata recentemente (sentenza n. 35 del 1981)
affrontata e decisa dalla Corte nel senso della non fondatezza nella
analoga materia del compenso di tre giorni di ferie retribuite ai
lavoratori dipendenti chiamati ad assolvere funzioni elettorali in
occasione di elezioni amministrative. “Il terzo comma dell’art. 51
della Costituzione – ha ritenuto la Corte – si limita a stabilire il
principio della conservazione del posto di lavoro, quanto al lavoratore
chiamato a funzioni elettive; ma non richiede affatto, pur non
escludendolo a priori, che il periodo di assenza dal lavoro nel corso
del quale la prestazione del lavoratore sia resa impossibile od
inesigibile dall’esercizio delle funzioni predette, venga retribuito
né in tutto né in parte”. Ciò significa che l’art. 51 della
Costituzione salva la discrezionalità del legislatore ordinario nel
disporre che il tempo impiegato nella funzione pubblica elettiva dal
lavoratore sia o no retribuito, e in quale misura, dal datore di lavoro
o dalla collettività. A impedire questa conclusione non soccorre il
richiamo, fatto di passaggio dal pretore di Firenze, all’art. 36 della
Costituzione, il quale garantisce al lavoratore la proporzione fra
retribuzione e quantità e qualità del lavoro, e quindi non è
certamente invocabile nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore
per sostenere che debba essere compensato, e totalmente, il lavoro non
svolto a causa dell’impegno nella pubblica funzione.
8. – La Corte ritiene parimenti non fondata la questione sollevata
dal pretore di Lucca con riferimento all’art. 32, secondo comma, dello
Statuto dei lavoratori (ingiustificata discriminazione, in ordine al
regime dei permessi, fra lavoratori eletti alla carica di consigliere
comunale e lavoratori eletti alla ulteriore carica di sindaco o di
assessore). Nell’affermare che si tratta di situazioni identiche, il
pretore non ha considerato che la diversità e incontrollabilità del
tempo richiesto per la funzione di sindaco o di assessore, rispetto a
quello richiesto per la funzione di consigliere comunale, non
consentivano di porre a carico del datore di lavoro la remunerazione
del tempo occorrente, per la loro ben altrimenti impegnativa funzione
di sindaco e di assessore, aggiunto a quello (“strettamente
necessario”: art. 32, comma primo) occorrente per l’espletamento del
mandato di consigliere. In ogni caso bisogna tener conto della più
volte richiamata legge n. 169 del 1974 che attribuisce a tutti i
sindaci, all’assessore anziano dei comuni con popolaziqne oltre i 5.000
abitanti e a tutti gli assessori dei comuni con popolazione superiore
ai 30.000 abitanti o capoluoghi di provincia una indennità mensile,
che si aggiunge alle indennità di presenza concesse ai consiglieri
comunali (e quindi anche al sindaco e agli assessori) per ogni seduta
del consiglio in tutti i comuni (artt. 1, 2 e 5 della legge n. 169 del
1974).
La denunciata discriminazione è dunque insussistente: il
legislatore non ha favorito i consiglieri comunali rispetto ai sindaci
e agli assessori perché tutti, in quanto consiglieri, hanno diritto
alla retribuzione da parte del datore di lavoro, del tempo necessario
all’espletamento del mandato di consigliere; perché i sindaci di tutti
i comuni e gli assessori dei comuni nei quali la funzione ha maggiore
importanza usufruiscono di una indennità mensile cui si aggiunge la
indennità di presenza alle sedute del consiglio. Deve dunque
escludersi che, così provvedendo alle varie situazioni, il legislatore
sia uscito fuori dai confini di una sua discrezionalità
costituzionalmente legittima.
9. – Non meno infondate si appalesano le censure che in direzione
opposta vengono sollevate dal tribunale di Lucca contro l’art. 32 dello
Statuto dei lavoratori. Della prima di esse (l’art. 32, primo comma,
dello Statuto dei lavoratori, conservando al dipendente la retribuzione
del tempo strettamente necessario da lui sottratto al lavoro per
l’espletamento del mandato di consigliere comunale, violerebbe l’art.
51 della Costituzione che accorda ai chiamato a funzioni pubbliche
elettive solo il diritto di disporre del tempo necessario e di
conservare il posto) si è già esclusa la fondatezza ricordando, al n.
7, che la Corte ha ritenuto nella sentenza n. 35 dei 1981 che l’art. 51
non impone, ma non esclude, che la legge ordinaria possa stabilire che
il periodo di assenza dal lavoro per l’espletamento della funzione
pubblica sia retribuito in tutto o in parte come dispone l’art. 32
dello Statuto dei lavoratori nei limiti che esso fissa, mantenendo la
retribuzione per il tempo “strettamente necessario” all’adempimento del
mandato di consigliere comunale.
Del resto alla interpretazione che dell’art. 51, terzo comma, fa il
tribunale di Lucca resiste chiaramente la lettera della norma:
accordare il diritto (quello di disporre del tempo necessario
all’adempimento delle funzioni pubbliche elettive), non significa
vietare al legislatore ordinario di accordare altri diritti, si intende
nei limiti derivanti da altre disposizioni costituzionali.
10. – Più delicata si presenta l’altra questione di
costituzionalità proposta dal tribunale di Lucca e relativa all’art.
32, primo comma, dello Statuto dei lavoratori, per il contrasto in cui
esso, ponendo a carico della categoria dei datori di lavoro il costo
dell’espletamento, da parte dei dipendenti, di una funzione pubblica,
si porrebbe con l’art. 53 Cost. (questione sopra riassunta sotto la
lettera H).
Tuttavia anche tale questione non appare fondata.
Tanto se la remunerazione dovuta dal datore di lavoro al dipendente
impegnato nell’espletamento della carica pubblica si voglia far
rientrare nella categoria della “spesa pubblica” di cui all’art. 53
della Costituzione, quanto se, più propriamente, la si voglia
classificare come una delle prestazioni patrimoniali di cui all’art. 23
della Costituzione, assorbente è comunque la considerazione che l’una
e l’altra delle citate norme costituzionali vanno lette in connessione
con l’art. 51 della Costituzione. Questo, infatti, già con l’imporre
espressamente “la conservazione del posto di lavoro”, pone sul datore
di lavoro un onere, in alcuni casi di non poco rilievo, dimostrando in
tal modo che la soddisfazione dell’interesse costituzionale alla
possibilità di tutti i cittadini di concorrere alle cariche elettive,
ben può giustificare un ragionevole sacrificio dell’interesse dei
privati datori di lavoro. Non si può, in linea di principio, negare
che sul richiamato interesse costituzionale possa fondarsi la
ragionevolezza della norma ordinaria (appunto il censurato art. 52,
primo comma, dello Statuto dei lavoratori) che prevede l’obbligo della
retribuzione dei permessi per l’espletamento della carica di
consigliere, previsti limitatamente al “tempo strettamente necessario”.
Né a questa conclusione potrebbe vittoriosamente opporsi il richiamo
alla sinallagmaticità del rapporto di lavoro, posto che l’onere
addossato al datore è pur sempre strettamente connesso allo
svolgimento in atto di quello stesso rapporto.
11. – L’ultima questione è quella pure proposta dal tribunale di
Lucca e sopra riassunta sotto la lettera I (violazione dell’art. 3
della Costituzione per l’ingiustificata discriminazione – nell’art. 52
in rapporto all’art. 31 dello Statuto dei Lavoratori – fra i lavoratori
che scelgono l’aspettativa non retribuita e quelli che scelgono i
permessi per il tempo strettamente necessario, senza perdere la
retribuzione).
La questione non è fondata. La scelta fra richiedere l’aspettativa
o l’autorizzazione ad assentarsi dal servizio per il tempo strettamente
necessario è facoltativa da parte del lavoratore. Il principio di
eguaglianza non potrebbe, dunque, immaginarsi violato a danno del
lavoratore che ha optato per l’una o per l’altra soluzione consentita
dalla legge.
12. – La Corte non può astenersi dall’osservare conclusivamente,
dopo aver dichiarato la infondatezza delle singole questioni di
legittimità costituzionale sollevate dai quattro giudici a quibus
contro l’art. 32 dello Statuto dei lavoratori, che questa norma è
parte di un sistema, nato e sviluppato negli ultimi decenni, con il
quale il legislatore repubblicano ha voluto progressivamente risolvere,
con successive normative, il problema dell’accesso, non limitato dalle
condizioni economiche, alle cariche pubbliche elettive.
Questo sistema è certamente perfettibile, come dimostra la sua
stessa evoluzione; ma il compito di operare in tale senso compete al
legislatore ordinario che possiede e deve conciliare tutti i dati del
complesso problema.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 32 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei
lavoratori), sollevate con riferimento agli artt. 3, 36, 51, primo e
terzo comma, e 53 della Costituzione dai pretori di Firenze, di Bari,
di Lucca, nonché dal tribunale di Lucca con le ordinanze di cui in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 novembre 1981.
F.to: LEOPOLDO ELIA – EDOARDO
VOLTERRA MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO – GUGLIELMO ROEHRSSEN –
ORONZO REALE – BRUNETTO BUCCIARELLI
DUCCI – ALBERTO MALAGUGINI – LIVIO
PALADIN – ARNALDO MACCARONE – ANTONIO
LA PERGOLA – VIRGILIO ANDRIOLI –
GIUSEPPE FERRARI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere