Sentenza N. 194 del 1976
Corte Costituzionale
Data generale
28/07/1976
Data deposito/pubblicazione
28/07/1976
Data dell'udienza in cui è stato assunto
15/07/1976
OGGIONI – Avv. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI
– Dott. NICOLA REALE – Avv. LEONETTO AMADEI – Dott. GIULIO GIONFRIDA –
Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO –
Prof. ANTONINO DE STEFANO, Giudici,
ultimo comma, del decreto legislativo luogotenenziale 14 febbraio 1946,
n. 27; 2 del d.l. C.P.S. 13 settembre 1946, n. 303, ratificato con
legge 5 gennaio 1953, n. 35; 4 della legge 24 maggio 1970, n. 336; 6,
secondo e terzo comma, del d.l. 8 luglio 1974, n. 261, nel testo
introdotto dall’art. 1 della legge di conversione 14 agosto 1974, n.
355 (benefici combattentistici), promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 20 maggio 1974 dal pretore di Aosta nel
procedimento civile vertente tra Marchetti Dino e le società Nazionale
Cogne ed Egam, iscritta al n. 319 del registro ordinanze 1974 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 263 del 9
ottobre 1974;
2) ordinanza emessa il 13 febbraio 1975 dal giudice del lavoro del
tribunale di Torino nel procedimento civile vertente tra Mazza Santo e
la Società anonima torinese tranvie intercomunali (SATTI), iscritta al
n. 140 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 152 dell’11 giugno 1975;
3) ordinanza emessa il 23 maggio 1975 dal pretore di Fiorenzuola
d’Arda nel procedimento civile vertente tra Ziliani Felice ed altri e
la Società AGIP ed altro, iscritta al n. 351 del registro ordinanze
1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 268
dell’8 ottobre 1975;
4) ordinanze emesse il 21 maggio 1975 dal tribunale regionale
amministrativo per il Lazio sui ricorsi di Mastrolilli Vittorio, Bosio
Emanuele Mario, Venosi Erasmo, Pellegrino Aldo e Franzetti Alfredo
contro la Presidenza del Consiglio dei ministri ed altri, iscritte ai
nn. 470, 471, 472, 473 e 474 del registro ordinanze 1975 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 313 del 26 novembre 1975;
5) ordinanza emessa il 14 ottobre 1975 dal pretore di Orbetello nel
procedimento civile vertente tra Rossi Eustachio e l’ENEL, iscritta al
n. 578 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1976;
6) ordinanze emesse il 21 maggio 1975 dal tribunale regionale
amministrativo per il Lazio sui ricorsi di Lenzi Romolo e Messina
Umberto contro la Presidenza del Consiglio dei ministri ed altri,
iscritte ai nn. 580 e 581 del registro ordinanze 1975 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38 dell’11 febbraio 1976;
7) ordinanza emessa il 9 gennaio 1976 dal pretore di Vittorio
Veneto nel procedimento civile vertente tra Salamon Antonio ed altri e
l’Azienda trasporti Mesulana, iscritta al n. 102 del registro ordinanze
1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 72 del
17 marzo 1976.
Visti gli atti di costituzione di Mastrolilli Vittorio, Venosi
Erasmo, Pellegrino Aldo, Franzetti Alfredo e Lenzi Romolo e delle
Società Cogne ed Egam, nonché gli atti di intervento del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 maggio 1976 il Giudice relatore
Luigi Oggioni;
uditi gli avvocati Filippo Lubrano e Paolo Tesauro, per Mastrolilli
Vittorio, l’avv. Filippo Lubrano per Venosi Erasmo, Pellegrino Aldo,
Franzetti Alfredo e Lenzi Romolo, l’avv. Alberto Buffa per le Società
Cogne ed Egam, ed i sostituti avvocati generali dello Stato Renato
Carafa e Benedetto Baccari, per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Con ordinanza del pretore di Aosta emessa il 20 maggio 1974 nel
giudizio intentato da Marchetti Dino contro la società per azioni
“Cogne”, del gruppo EGAM (Ente gestione aziende minerarie), per
ottenere benefici concessi, a norma della legge 24 maggio 1970, n. 336,
ai dipendenti pubblici ex combattenti ed assimilati, e con le
successive ordinanze emesse dal giudice del lavoro presso il tribunale
di Torino il 13 febbraio 1975 nel giudizio promosso da Mazza Santo
contro la società Torinese tramvie intercomunali; dal pretore di
Fiorenzuola d’Arda il 23 maggio 1975 nel giudizio promosso da Ziliani
Felice ed altri contro l’AGIP; dal pretore di Orbetello il 14 ottobre
1975 nel giudizio promosso da ROSSI Eustachio contro l’ENEL e dal
pretore di Vittorio Veneto il 9 gennaio 1976 nel giudizio promosso da
Salamon Antonio ed altri contro l’azienda trasporti “Mesulana” società
per azioni, giudizi tutti aventi ad oggetto la richiesta di
riconoscimento dei benefici suddetti, è stata sollevata questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4 della citata legge n. 336 del
1970, in quanto non ha incluso i dipendenti delle imprese private fra
gli aventi diritto alle provvidenze in esame, consistenti in benefici
economici e di carriera di varia natura culminanti nella facoltà di
chiedere il collocamento a riposo a condizioni di particolare vantaggio
e, in particolare, in quanto non ha ammesso ai benefici anche i
dipendenti di società a partecipazione azionaria statale, quale, ad
esempio, la “Cogne”.
Secondo le predette ordinanze, tale omissione violerebbe gli artt.
3 e 52 Cost. perché, mentre a norma dell’art. 52 tutti sono tenuti ad
assolvere l’obbligo della difesa della Patria, la restrizione
denunziata si risolverebbe in una discriminazione a danno di coloro
che, pur avendo adempiuto il detto obbligo, si trovano ad essere
esclusi dai benefici, sol perché dipendenti da imprese private. Ciò
sarebbe ancor più evidente nel caso in cui, come si è detto, la
impresa privata appartenga ad un gruppo finanziato con partecipazione
statale, quale appunto l’EGAM, e, nella fattispecie considerata
nell’ordinanza emessa dal pretore di Orbetello, dato che la norma
impugnata include espressamente i dipendenti da enti pubblici,
ancorché regolamentati da contratti collettivi di lavoro, come appunto
l’ente convenuto ENEL, il cui personale, quindi, non dovrebbe
ragionevolmente godere di un trattamento preferenziale rispetto ai
dipendenti privati.
Secondo l’ordinanza dello stesso pretore di Orbetello, l’art. 4
impugnato contrasterebbe anche con l’art. 35, primo comma, Cost.,
perché finirebbe col privare i dipendenti privati della tutela
accordata, dalla detta norma costituzionale, al lavoro come tale,
indipendentemente dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro.
Il giudice del lavoro presso il tribunale di Torino, con la
suindicata ordinanza, nel motivare la censura nei sensi suesposti,
premette altresì come deduzione proposta “in linea principale”
questione di legittimità del richiamato art. 4 della legge n. 336 del
1970 “anche in relazione a tutte le altre disposizioni della legge
stessa” per contrasto, oltre che con l’art. 3 anche con gli artt. 97 e
53 Cost.: cio in quanto, concedendosi benefici agli ex combattenti
pubblici dipendenti, verrebbe ad essere violato anche l’art. 97 Cost.
per le conseguenze negative sul buon andamento della pubblica
amministrazione che deriverebbero dall’esodo dei pubblici dipendenti
incoraggiato dalla norma, ivi comprese le spese eccessive relative a
tale esodo, nonché l’art. 53 Cost., perché comporterebbe esborso di
pubblico danaro per scopi e funzioni incompatibili con le finalità che
la Costituzione porrebbe allo Stato.
Avanti a questa Corte si sono costituiti la società “Cogne” e
l’EGAM, rappresentati e difesi dagli avvocati Alberto Buffa e Vittorio
Chiurazzi. È anche intervenuto in tutte le cause il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato.
La difesa della società “Cogne” obbietta alle censure che il
legislatore può adottare trattamenti differenziati per situazioni che
ragionevolmente abbia ritenuto diverse.
La diversità di trattamento, sancita dall’art. 4 impugnato,
sarebbe giustificata dalle diversità strutturali dell’impiego privato
e pubblico, rappresentando la concessione di particolari benefici una
compensazione della limitazione e della rigidezza delle norme sul
pubblico impiego rispetto a quelle concernenti l’impiego privato.
Inoltre, poiché l’onere dei benefici ricade sull’erario, e la
difesa della Patria sarebbe giuridicamente un servizio adempiuto per lo
Stato visto nella sua unità, soltanto lo Stato stesso potrebbe
disporre e provvedere in tema di riconoscimento di benemerenze
militari, addossando l’onere finanziario relativo all’intera comunità
attraverso il sistema fiscale, in aderenza all’inscindibile nesso fra
il carattere politico del dovere di solidarietà posto dall’art. 52
Cost. e l’universalità del dovere di farvi fronte. Onde, se mai,
l’onere della estensione dei benefici anche ai lavoratori privati
potrebbe ipotizzarsi sempre e soltanto a carico dello Stato, e non
certo delle aziende private, come sembrerebbe ritenere il pretore.
La pretesa irrazionalità della differenziazione impugnata,
riferita, con particolare rilievo dal tribunale di Torino, alla
asserita sostanziale parità di situazione del personale degli enti
pubblici economici con quello delle aziende facenti parte di gruppi
pubblici, nell’un caso e nell’altro “dipendenti dal pubblico denaro”,
sarebbe, poi, insussistente, dato che l’eventuale appartenenza delle
azioni di una società privata ad un ente pubblico non inciderebbe
sulla natura di soggetto di diritto privato dell’impresa controllata.
Il momento di individuazione dell’ente pubblico andrebbe, invero,
ricercato nei caratteri formali ed in particolare nel suo inquadramento
istituzionale nell’organizzazione statale, il che non potrebbe certo
affermarsi riguardo alla società “Cogne”, la cui struttura è
interamente regolata dal diritto privato. Pertanto, la pur pacifica
natura pubblica dell’EGAM (ente di gestione), non toccherebbe per nulla
la struttura privata della “Cogne”. Il che, del resto, si ricaverebbe
in particolare dalla stessa legge istitutiva del Ministero delle
partecipazioni statali (legge 22 dicembre 1956 n. 1589), che prevede la
creazione di enti pubblici di gestione delle aziende private, i quali
enti non potrebbero, come tali, essere confusi con i soggetti privati
gestiti.
L’Avvocatura, da parte sua osserva che, in relazione alla
disciplina impugnata, al di fuori della qualifica di combattente,
verrebbe in rilievo preminente ed esclusivo lo status di dipendente
pubblico o privato. D’altra parte, alla sostanziale differenza di
posizione giuridica e di trattamento economico esistente fra dipendenti
pubblici e privati, potrebbe fare legittimamente riscontro una pari
differenza anche nel caso di comune appartenenza alla categoria dei
combattenti. Invero, l’osservanza del principio di eguaglianza esige
soltanto che a situazione eguali sia applicato eguale trattamento,
salva restando al legislatore la facoltà discrezionale di
apprezzamento circa la parità o la diversità delle situazioni stesse,
nel rispetto di criteri di ragionevolezza e degli altri principi
costituzionali. E, nella specie, si riscontrerebbe appunto un
ragionevole apprezzamento della diversità delle situazioni
raffrontate, anche se queste siano comparabili attraverso la identità
di un unico dato, di natura peraltro estrinseca, come quello della
qualifica di ex combattente o equiparato.
Le società a partecipazione statale, come la “Cogne”, pur se
collegate ad enti pubblici di gestione, non perderebbero poi la loro
tipica natura di imprese private che si identificherebbe con
l’esercizio di attività economica al fine di lucro, per cui infondato
sarebbe il particolare profilo di illegittimità, come si è detto,
evidenziato, sotto questo aspetto, nelle ordinanze dei pretori di Aosta
e di Orbetello. Con particolare riguardo a questa seconda ordinanza
(del pretore di Orbetello) è da aggiungere che il pretore argomenta
come sopra, dopo avere premesso e riconosciuto che l’ENEL è ente
pubblico, con dipendenti regolamentati da contratto collettivo di
lavoro. Il che ha suggerito all’Avvocatura dello Stato di eccepire, in
via preliminare, l’eccezione di inammissibilità del ricorso per
difetto di rilevanza, essendo il dipendente interessato, Rossi
Eustachio, comunque tutelato per effetto dell’art. 4 della legge n.
336.
Riguardo alle censure relative agli artt. 97 e 53 Cost. mosse con
l’ordinanza del giudice del lavoro del tribunale di Torino,
l’Avvocatura osserva infine che esse investirebbero apprezzamenti di
ordine politico, come tali riservati al legislatore, mentre, per quanto
riguarda il particolare profilo di illegittimità prospettato in
relazione alla pretesa disparità di trattamento fra dipendenti di enti
pubblici e dipendenti di società private con le speciali
caratteristiche accennate nell’ordinanza del detto tribunale, rileva
che tali elementi non produrrebbero comunque la trasformazione della
natura delle società stesse, che conserverebbero quindi giuridicamente
la loro qualità di imprese private anche in concorso degli elementi
peculiari elencati dal tribunale.
Con l’ordinanza del pretore di Aosta è stato denunziato, altresì,
l’art. 1, ultimo comma, del decreto legislativo luogotenenziale 14
febbraio 1946, n. 27, in quanto, escludendo dal computo dell’anzianità
il servizio prestato anteriormente alla riassunzione obbligatoriamente
disposto a favore di tutti i lavoratori dopo l’ultimazione del servizio
militare dal n. 2 dello stesso articolo, contrasterebbe con l’art. 52
Cost., nella parte in cui afferma che l’adempimento del servizio
militare non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, e con
l’art. 36 Cost. nella parte in cui assicura al lavoratore una
retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro
prestato.
Lo stesso pretore di Aosta, sempre con la medesima ordinanza, ha
poi denunziato anche l’art. 2 del decreto legislativo del Capo
provvisorio dello Stato, n. 303 del 1946, nelle parti in cui
limiterebbe l’applicazione della sospensione del rapporto di lavoro
durante il servizio militare di leva, ed il correlativo diritto alla
conservazione del posto, ai soli lavoratori delle classi 1924 e
successive ed ai lavoratori di classi precedenti rinviati per qualsiasi
motivo alla chiamata di dette classi. Anche questa disposizione
contrasterebbe con gli artt. 3 e 52 Cost. per motivi analoghi a quelli
esposti in relazione all’art. 1 del d.l.l. n. 27 del 1946.
Per quanto riguarda la questione sollevata in relazione all’art. 1,
ultimo comma, del d.l.l. 14 febbraio 1946, n. 27, la difesa della parte
privata nega sostanzialmente la continuità del rapporto di lavoro
precedente alla riassunzione obbligatoria con quello successivo,
argomentando in base alla legge 13 novembre 1924, n. 1825, sul
contratto di impiego privato, e all’art. 2111 del codice civile che
sancivano il principio della risoluzione del rapporto di lavoro in
conseguenza della chiamata alle armi. Solo con il d.l.C.P.S. 13
settembre 1946, n. 303, fu disposto che per effetto della chiamata alle
armi il rapporto di lavoro resta “sospeso”, non interrotto, e fu
ammessa la possibilità di prevedere nei contratti di lavoro il computo
del periodo passato alle armi agli effetti dell’anzianità. Ma poiché,
per effetto della sentenza n. 8 del 1963 della Corte, quest’ultima
disposizione è stata dichiarata illegittima, chiarendosi che il
diritto al computo di detto periodo deriva immediatamente dall’art. 52
Cost. indipendentemente dalla previsione nel contratto di lavoro,
secondo la difesa il diritto stesso sarebbe configurabile solo per i
rapporti successivi alla detta pronunzia mentre il primo rapporto tra
il Marchetti e la “Cogne” si sarebbe invece esaurito il 18 gennaio
1941, nel vigore della legislazione del tempo.
Quanto, infine, alla questione sollevata con riferimento alle
limitazioni stabilite dall’art. 2 del d.l.C.P.S. 13 settembre 1946, n.
303, la difesa ripropone le osservazioni sopra svolte circa
l’esaurimento del primo rapporto di lavoro del Marchetti, per
sostenerne l’infondatezza.
L’Avvocatura osserva che non sussisterebbe la denunziata violazione
dell’art. 3 Cost., giacché le particolari discipline censurate
costituirebbero limitazioni rispondenti a razionalità e coerenza, e,
come tali, sarebbero sottratte al controllo di merito della Corte
costituzionale.
Mastrolilli Vittorio, già dipendente della Ragioneria generale
dello Stato, collocato a riposo con i benefici di cui alla legge n. 336
del 1970, fu assunto quale direttore generale della Cassa di previdenza
e assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali. Ai sensi
dell’art. 6 dl. 8 luglio 1974, n. 261, convertito con modifiche nella
legge 14 agosto 1974, n. 355, la Cassa, con nota 8 novembre 1974, gli
comunicò che il rapporto di lavoro sarebbe venuto senz’altro a cessare
a decorrere dal 4 marzo 1974, a meno di una sua preventiva rinuncia
allo speciale trattamento di quiescenza ricevuto a norma della legge n.
336 del 1970 e salvo restituzione di quanto già percepito a tale
titolo.
Nel corso del giudizio conseguente al ricorso proposto dal
Mastrolilli contro detto provvedimento, il tribunale amministrativo
regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità del
menzionato art. 6 d.l. 8 luglio 1974, n. 261, nella formulazione di cui
alla legge di conversione 14 agosto 1974, n. 355, che con il primo
comma pone il divieto, per il personale collocato a riposo con i
benefici combattentistici, di assumere impieghi o incarichi presso lo
Stato e gli enti pubblici e, col secondo e terzo comma, dispone la
cessazione degli impieghi ed incarichi così effettuati prima dell’8
luglio 1974 entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge, salvo
rinuncia espressa al trattamento di quiescenza ottenuto per effetto
della legge n. 336 del 1970.
Al riguardo, detto tribunale afferma che al diritto al lavoro del
cittadino farebbe riscontro, per lo Stato, sia il divieto di porre
norme limitatrici di tale libertà, sia l’obbligo di indirizzare
l’attività di tutti i pubblici poteri e dello stesso legislatore alla
creazione delle condizioni che consentano l’impiego di tutti i
cittadini idonei.
Il far dipendere una limitazione della capacità lavorativa dal
godimento di un trattameno di quiescenza già concesso per legge e il
precludere vie di accesso al lavoro a cittadini che siano tuttora in
grado di svolgere un ruolo utile, contrasterebbero, rispettivamente,
secondo il tribunale, con il divieto e l’obbligo sopra menzionati.
Comunque, il denunciato profilo di illegittimità emergerebbe con
particolare evidenza per effetto della esclusione della possibilità di
opzione fra la reintegrazione nel posto di lavoro precedente o la
conservazione di quello conseguito successivamente, esclusione
emergente dalle norme impugnate che si limitano a subordinare la
conservazione del nuovo posto di lavoro alla rinuncia al trattamento di
quiescenza, conseguito a norma della legge n. 336 del 1970.
L’interessato verrebbe così a subire un trattamento diverso da quello
propostogli per la scelta originaria del collocamento a riposo, senza
che gli sia consentito rivalutare liberamente la nuova situazione al
fine della stessa scelta. Pertanto, secondo il tribunale, sarebbero
violati l’art. 4 e l’art. 13 Cost. inteso quest’ultimo non nel suo
significato primario di tutela della libertà personale del cittadino
ma, di riflesso, come tutela del diritto al lavoro considerato quale
fondamentale libertà della persona umana.
Questioni identiche sono state sollevate dal tribunale
amministrativo predetto in altri analoghi giudizi, rispettivamente
istituiti da Messina Umberto contro l’Università degli studi
dell’Aquila, da Bosio Emanuele contro l’INAM, da Venosi Erasmo contro
l’ENAOLI, da Pellegrino Aldo contro la Cassa nazionale di previdenza e
assistenza dottori commercialisti, da Franzetti Alfredo contro l’ENPI,
da Lenzi Romolo contro l’Università di Roma.
La difesa dei privati costituitisi negli ultimi quattro giudizi
svolge argomentazioni aderenti a quelle contenute nelle ordinanze di
rinvio, ponendo in evidenza la particolarità della disciplina
impugnata che muterebbe profondamente la situazione in base alla quale
il pubblico dipendente operò a suo tempo la sua scelta ai fini del
collocamento a riposo, tenendo indubbiamente presente anche la
possibilità di dedicarsi ad altro lavoro. Modifiche retroattive di
tale portata dovrebbero ritenersi escluse anche in base ai principi
costituzionali della tutela dei diritti di libertà in genere e di
eguaglianza, e coinvolgerebbero la credibilità stessa
dell’ordinamento, che non potrebbe togliere ai soggetti privati quanto,
per propri fini, ad essi ha definitivamente attribuito.
L’Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del
Presidente del Consiglio, osserva che il legislatore, nell’introdurre
con il d.l. 8 luglio 1974, n. 261, la condizione del divieto di
assunzione di impieghi o incarichi successivi al collocamento a riposo
per poter godere del trattamento preferenziale di quiescenza, avrebbe
agito legittimamente non ponendo alcuna limitazione alla libertà di
lavoro, ma rimettendo alla libera scelta degli interessati se avvalersi
dei benefici alla condizione suddetta, o rinunciarvi. Ovviamente,
prosegue l’Avvocatura, lo stesso legislatore, introducendo il divieto,
non poteva non regolare contemporaneamente la posizione di coloro che
avevano usufruito del beneficio quando il divieto stesso non
sussisteva, poiché, se ne fosse stata limitata l’efficacia solo ai
casi futuri, si sarebbe creata una diversità di disciplina legata solo
al dato temporale del momento della presentazione della domanda di
collocamento a riposo, mentre, d’altra parte, concedere agli ex
combattenti già collocati a riposo l’opzione per la riassunzione
avrebbe comportato gravi conseguenze, risolvendosi nella riammissione
in servizio di dipendenti necessariamente in soprannumero, essendosi
già provveduto riguardo ai posti in organico da loro lasciati.
In conclusione, quindi, la scelta effettuata dal legislatore
sarebbe giustificata dal rispetto dovuto ai principi costituzionali
dell’eguaglianza e del buon andamento della pubblica amministrazione, e
non inciderebbe, comunque, sul diritto al lavoro garantito dall’art. 4
Cost., diritto che l’interessato potrebbe esercitare
incondizionatamente al di fuori del settore pubblico e, all’interno,
alla condizione di eliminare l’incompatibilità con i benefici
riconosciutigli, a suo tempo, proprio nel presupposto del suo
volontario allontanamento dall’apparato pubblico.
Inoltre, secondo l’Avvocatura, la denunciata disciplina non solo
non contrasterebbe con le invocate libertà costituzionali, ma si
uniformerebbe all’esigenza, pure sancita dall’art. 4 Cost., di creare
le condizioni economiche sociali e giuridiche che consentano l’impiego
di tutti i cittadini idonei al lavoro, giacché attraverso
l’eliminazione di cumuli di trattamenti preferenziali di quiescenza e
di impieghi a favore degli stessi soggetti, con i relativi oneri ad
esclusivo carico dell’erario, si perseguirebbe appunto il sopra
menzionato indirizzo costituzionale.
Infine, del tutto inconferente sarebbe il richiamo all’art. 13
Cost., essendo la questione in discussione limitata a rapporti
individuali di lavoro senza incidenza sulla libertà personale del
soggetto.
Tutte le sopra menzionate ordinanze sono state ritualmente
notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica.
La difesa del Mastrolilli ed altri, integrata dall’avv. prof.
Paolo Tesauro, ha depositato nei termini una memoria illustrativa con
cui confuta le argomentazioni addotte dall’Avvocatura a sostegno delle
proprie tesi.
In particolare la difesa osserva anzitutto che il divieto di nuovo
impiego imposto a carico degli ex combattenti collocati a riposo non
potrebbe riguardarsi sotto il profilo di una mera incompatibilità, che
infatti potrebbe configurarsi, a dire della difesa, solo in casi di
potenziale conflittualità tra interessi diversi, insussistenti nella
specie.
La posizione degli ex combattenti già collocati a riposo e degli
ex combattenti che, all’epoca dell’entrata in vigore della legge, non
avevano ancora usufruito dei benefici ad essi riconosciuti sarebbe poi
da ritenere sostanzialmente differenziata, essendo i primi i titolari
di un diritto soggettivo al trattamento di quiescenza, ed i secondi
portatori di mera aspettativa, onde la equiparazione operata dalla
legge fra dette categorie non potrebbe trovare giustificazione nella
necessità di tutelare il principio di eguaglianza, come sostenuto
dall’Avvocatura, dovendosi tale principio ritenere operante solo fra
situazioni effettivamente omogenee.
La difesa prosegue poi illustrando altri aspetti di illegittimità
del divieto di nuovo impiego sancito dalla norma impugnata per assunto
contrasto col principio di eguaglianza, con riferimento, fra l’altro,
alla pretesa diversità di trattamento che si verificherebbe fra gli ex
combattenti a riposo e tutti gli altri pensionati statali, anche per
quanto riguarda la possibilità di realizzare a loro favore con le
norme impugnate le disposizioni di cui agli artt. 36 e 38 della
Costituzione.
Infine, la difesa contesta che la disposizione impugnata possa
realmente costituire mezzo di attuazione del pieno impiego di tutti i
cittadini nel senso sostenuto dall’Avvocatura. Invero, l’unico scopo
della legge del 1974 sarebbe l’opportunità di distribuire nel tempo
l’onere finanziario derivante dalla legge del 1970, e non quello
asserito dall’Avvocatura, che, eventualmente, avrebbe dovuto
coinvolgere tutti i pensionati e non già solo gli ex combattenti.
1. – Le dodici ordinanze, indicate in epigrafe, sottopongono
all’esame della Corte questioni in parte comuni ed in parte collegate,
sicché ne ravvisasi opportuna la riunione al fine di pervenire a
contestuale decisione.
2. – La Corte, seguendo l’ordine di un graduale esame delle
proposte questioni, ritiene premettere l’esame dell’ordinanza 13
febbraio 1975 del giudice del lavoro del tribunale di Torino, che, in
linea primaria, solleva questione di legittimità dell’art. 4 della
legge n. 336 del 1970 “anche in relazione a tutte le altre disposizioni
di tale legge” per contrasto con gli artt. 3, 97, 53 della
Costituzione. Secondo l’ordinanza, tratterebbesi di legge che, in sé e
per sé considerata, anche a prescindere dai motivi di illegittimità
prospettati sotto altri e successivi profili, costituirebbe per i fini
arbitrari e di mero privilegio settoriale, che la informano, violazione
dei principi che assicurano il buon andamento della pubblica
amministrazione e regolano i limiti del concorso dei cittadini alla
spesa pubblica.
3. – La questione non è fondata.
Va, anzitutto, posto in evidenza che la legge n. 336 del 1970,
risultante dalla unificazione di numerose proposte di legge di
iniziativa parlamentare presentate nel corso della quinta legislatura e
riproducenti in parte proposte precedenti, si inserisce nella serie di
provvedimenti analoghi a favore degli ex combattenti, che la nostra
legislazione conosce e che, a partire dal R.D. 30 settembre 1922 n.
1290, hanno sempre avuto ad oggetto benefici di maggiore o minore
ampiezza costantemente riservati ai dipendenti civili dello Stato e
degli enti pubblici, che avessero diritto alla qualifica di ex
combattenti.
Ciò corrisponde, a sua volta, ad un principio di carattere
generale, implicitamente accolto dal legislatore nel corso di vari
decenni, principio basato sulla peculiare natura del rapporto di
pubblico impiego, che e rapporto di supremazia, attribuita in genere
alla pubblica amministrazione, in vista degli scopi propri della sua
funzione, con assegnazione ai pubblici dipendenti di una attività
strumentale a tale fine (art. 98 Cost.).
È, pertanto, riscontrabile, nel caso, collegamento tra la
posizione dei beneficiari e la natura del riconoscimento, loro
attribuito dalla legge con la concessione di particolari agevolazioni
economiche e di carriera.
Non meno rilevante, sotto altro aspetto, è la circostanza,
emergente dai lavori preparatori, che i benefici in esame, consistenti,
per il loro aspetto più incisivo e qualificante, nella offerta di
collocamento a riposo a condizioni di notevole vantaggio, sono stati
accordati, nell’intenzione del legislatore, per attuare non solo un
riconoscimento del servizio militare prestato, durante il periodo
bellico, dai soggetti destinatari, ma anche per promuovere quanto meno
un primo passo concreto verso quella riforma della pubblica
amministrazione che costituisce da tempo un obbiettivo di primaria
importanza nel programma di adeguamento delle strutture dello Stato
all’evolversi dei tempi e di snellimento delle strutture stesse e che
dovrebbe trovare uno dei suoi cardini nell’esodo volontario dei
dipendenti pubblici, ovviamente programmato e regolato secondo le
esigenze e le possibilità offerte dalla situazione reale. Esodo
volontario, che trova la sua sanzione legislativa fin dalla legge 27
febbraio 1955 n. 53 con la quale già venivano concesse condizioni di
favore per il collocamento a riposo dei dipendenti della pubblica
amministrazione e che, comunque, risulta trasfuso nell’art. 19 della
legge delega del 18 marzo 1968 n. 249, quale principio di
riorganizzazione ed è stato poi concretamente attuato, per i dirigenti
statali ed il restante personale delle carriere direttive, anche con
l’art. 67 del D.P.R. 30 giugno 1972 n. 748, che ha appunto previsto
condizioni di particolare vantaggio per il pensionamento anticipato del
personale in possesso di dette qualifiche.
Questi motivi concorrono ad escludere la fondatezza, secondo le
norme di riferimento, della questione proposta, in via primaria, dal
giudice del lavoro del tribunale di Torino, poiché non si tratta della
concessione di un irrazionale privilegio settoriale, che contrasti col
buon andamento dei pubblici uffici, né, tanto meno, di una
distorsione, a fini ultronei, della spesa pubblica. Al quale ultimo
proposito, va anche rilevato che non è congruo il richiamo del
giudice, come termine di confronto, all’art. 53 Cost. che riguarda i
criteri di proporzionalità che debbono presiedere alle prestazioni
fiscali, imposte ai soggetti passivi, mentre la norma impugnata
riguarda l’erogazione della spesa pubblica, e cioè una fase diversa da
quella che attiene alla provvista dei fondi necessari.
4. – Con le ordinanze dei pretori di Aosta, Fiorenzuola d’Arda,
Orbetello e Vittorio Veneto è stata prospettata l’illegittimità del
suaccennato art. 4 della legge n. 336 del 1970 in quanto,
nell’estendere ai dipendenti delle Regioni, degli enti locali e delle
loro aziende, degli enti pubblici e di diritto pubblico, compresi gli
enti pubblici economici, delle istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficenza e degli enti ospedalieri, ancorché regolamentati da
contratti collettivi di lavoro, tutti i benefici economici e di
carriera a favore dei dipendenti ci vili dello Stato ex combattenti
previsti dagli articoli precedenti, e nell’avere implicitamente escluso
dall’estensione predetta i dipendenti delle imprese private, avrebbe
operato una ingiustificata discriminazione a danno di questi ultimi,
che pure hanno assolto come gli altri il comune dovere di difesa della
patria, stabilito per tutti dall’art. 52 Cost. e dovrebbero, quindi
meritare eguale riconoscimento, indipendentemente dalla circostanza,
estrinseca all’assolvimento del detto dovere, che datore di lavoro sia,
da una parte, lo Stato, o un ente pubblico come quelli indicati nella
norma impugnata, ovvero, dall’altra parte, un privato. Da ciò
conseguirebbe la violazione degli artt. 3, 35, primo comma, e 52 della
Costituzione.
5. – La questione non è fondata.
Quanto è stato esposto al n. 3 a proposito dei criteri informatori
della legge in esame vale anche a segnare i limiti del contenuto della
legge stessa rispetto ad altri rapporti. Tra il rapporto di lavoro
pubblico e quello privato intercorrono peculiari differenze, non solo e
non tanto in relazione alle diversità strutturali dei rapporti stessi,
di cui pure la giurisprudenza di questa Corte si è occupata,
mettendone in luce le caratteristiche principali quanto soprattutto in
relazione alle diversità collegate alla differenza di funzioni, come
si è già esposto. Ciò è stato recentemente ribadito in modo
espresso con la sent. n. 118 dell’anno corrente, la quale sentenza ha
altresì dato atto del processo di tendenziale assimilazione dei due
rapporti, aggiungendo, tuttavia, che ciò è rimesso ad una graduale
evoluzione del sistema, affidata al solo legislatore, quale naturale
interprete delle istanze politiche e sociali della comunità nazionale.
D’altra parte, a completamento di quanto precedentemente richiamato
a proposito di benefici tradizionalmente già concessi ai soli
dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, va ricordato che non v’è
traccia, per converso, nella nostra legislazione di provvedimenti del
genere di quelli qui considerati, destinati a dipendenti di imprese
private, rinvenendosi, al riguardo, solo interventi legislativi
diretti alla garanzia del posto di lavoro per i reduci ed assimilati,
ma non già all’attribuzione di vantaggi di carriera od economici
astrattamente riconducibili alla sfera dell’autonomia collettiva.
Da quanto premesso deriva che, mentre le censure in esame risultano
collegate al parametro comune di raffronto costituito dalla condizione
di lavoratore dei dipendenti pubblici e privati, tale presupposto è
insufficiente ai fini del giudizio di comparazione che dovrebbe
seguirne, difettando la necessaria omogeneità fra le categorie poste a
confronto e risultando, comunque, ragionevolmente giustificata la
diversità di trattamento stabilita dal legislatore, al di fuori della
comune e doverosa dedizione al servizio della patria in armi.
6. – Con la suindicata ordinanza del pretore di Aosta, premesso che
la Società per azioni “Cogne”, alle cui dipendenze aveva lavorato la
parte Marchetti Dino, è società privata ad intera partecipazione
azionaria statale, esercitata a mezzo dell’Ente di gestione EGAM, viene
prospettato un ulteriore profilo di contrasto dell’art. 4 legge n. 336
con il principio di eguaglianza. Ciò in base all’asserito parallelismo
fra la posizione dei dipendenti pubblici (ammessi ai benefici) e quella
dei dipendenti di imprese private finanziate mediante partecipazione
statale o comunale ed esclusi dai benefici.
Nello stesso senso sono le ordinanze del pretore di Fiorenzuola
d’Arda (dipendenti dell’AGIP, le cui azioni sono in maggioranza
possedute dall’ENI, che è ente pubblico): del pretore di Vittorio
Veneto (dipendenti della Società Mesulana, azienda privata autonoma,
con principale azionista il Comune) nonché del giudice del lavoro del
tribunale di Torino (Società per azioni torinese tramvie intercomunali
con azioni possedute e amministrate dal Comune).
La questione non è fondata.
Va tenuto presente, infatti, che la partecipazione azionaria dello
Stato o di enti pubblici in società per azioni è regolata
espressamente dagli artt. 2458 e seguenti del Codice civile e questo
“assoggettamento alla legge delle società predette è fatto per
assicurare alla propria gestione snellezza di forme e nuove
possibilità realizzatrici” (Relazione Ministeriale, numero 998). Ne
consegue che, per dette imprese, è da ritenere che le stesse
conservino inalterata la loro individualità in quanto l’appartenenza
al gruppo controllato da un ente pubblico di gestione o, comunque, la
partecipazione azionaria di un ente pubblico, non producono conseguenze
d’ordine giuridico per quanto riguarda l’organizzazione interna e della
loro attività che continua ad essere disciplinata dalle norme comuni e
ad utilizzare le forme e gli istituti tipici del diritto privato.
7- Con la precitata ordinanza del pretore di Orbetello, viene, poi,
sottoposta una particolare questione di legittimità dello stesso art.
4 della legge n. 336 del 1970, in riferimento agli artt. 3 e 35, primo
comma, Cost. Premesso che il caso “de quo” riguarda un dipendente
dell’ente pubblico ENEL, il cui personale è regolamentato da contratto
collettivo di lavoro, l’ordinanza rileva che il collegamento, stabilito
nell’art. 4, tra la qualità di ente pubblico e l’esistenza di un
contratto collettivo di lavoro per i dipendenti, dovrebbe razionalmente
condurre alla conclusione dell’estensione dei benefici anche a quelle
categorie ‘di dipendenti privati, che siano pur essi sottoposti a
contratto collettivo di lavoro.
La questione non è fondata.
Il dedotto parallelismo tra imprese pubbliche e imprese private,
che sarebbe evidenziato dalla comune regolamentazione del rapporto di
lavoro, non può costituire elemento decisivo per ritenere sussistente
il preteso contrasto con il principio di eguaglianza.
Invero, nel caso di enti pubblici con personale regolamentato da
contratto collettivo di lavoro, trattasi pur sempre di enti che
istituzionalmente perseguono scopi di interesse generale, in funzione
dei quali è appunto loro attribuita dalla legge natura pubblicistica.
L’eventuale assoggettamento, per questa parte del relativo rapporto di
lavoro, alla disciplina privatistica, non esclude la qualificazione
pubblicistica del rapporto né trasforma la natura pubblicistica degli
enti stessi, che è frutto di una valutazione operata direttamente
dall’ordinamento, con l’effetto di definire la posizione giuridica
dell’ente ed il suo inquadramento nell’organizzazione dello Stato.
La differenza di trattamento rispetto alla attribuzione di benefici
combattentistici non può ritenersi arbitraria o ingiustificata, ove si
consideri, come in precedenza già osservato, la particolare posizione
dei dipendenti pubblici in genere per la peculiarità delle prestazioni
loro richieste.
Nemmeno sussiste la prospettata violazione dell’art. 35 Cost.
poiché non può ravvisarsi una menomazione del principio generale di
tutela del lavoro per effetto di norme che dispongano l’attribuzione di
determinati vantaggi a lavoratori, a favore dei quali siano
ragionevolmente individuabili particolari motivi di giustificazione.
8. – Con la suindicata ordinanza del pretore di Aosta viene
proposta altra ed autonoma questione di legittimità.
L’ordinanza, nel precisare l’oggetto del giudizio, espone che a un
dipendente della Società “Cogne”, assunto in servizio nel 1937, indi
licenziato perché chiamato alle armi, con liquidazione delle sue
spettanze e, successivamente riassunto in servizio, non era stata
computata, in occasione della cessazione del secondo rapporto e della
relativa liquidazione, l’indennità di anzianità, corrispondente alla
somma dei due rapporti, ma soltanto quella relativa al secondo periodo:
ciò per effetto dell’art. 1, ultimo comma, del Decreto Legislativo
Luogotenenziale 14 febbraio 1946 n. 27. Di questa disposizione
l’ordinanza ha sollevato questione di legittimità costituzionale per
violazione degli artt. 36, primo comma, Cost. (retribuzione
proporzionata alla quantità di lavoro prestato) e 52, secondo comma,
(non pregiudizio della posizione di lavoro del cittadino sottoposto a
servizio militare).
La questione non è ammissibile per difetto di rilevanza.
Dal testo dell’ordinanza si evince che la chiusura del primo
rapporto era, senza contestazione, avvenuta al momento della chiamata
alle armi del dipendente: ciò per effetto di risoluzione del rapporto,
dettata dalla legge del tempo (legge 13 novembre 1924 n. 1825 e art.
2111 Cod. Civ.). Ed è la stessa ordinanza ad usare il termine di
rapporto di lavoro “interrotto” (non già soltanto sospeso). Sul
rapporto, da considerarsi in tal modo esaurito, non possono avere
incidenza e forza retroattiva né la disposizione successiva del
Decreto numero 303 del 1946 che ha concesso ampio spazio alla tutela di
conservazione del posto di lavoro ed al computo dell’indennità di
anzianità, né la solenne dichiarazione dell’art. 52 della
Costituzione.
L’ordinanza accenna ad una “naturale continuazione del primo
rapporto”: ma ciò è soltanto empirica valutazione del problema.
Nemmeno l’impugnato Decreto legislativo n. 27 del 1946 acquista
rilevanza per la decisione spettante al giudice di merito. Gli
eventuali vizi della norma, quali essi siano, non si riverberano sulla
prospettata situazione reale, emergente dagli atti, anche in funzione
di un espresso riconoscimento di retroattività, che la legge de qua
non prevede.
9. – Con la stessa ordinanza, il pretore di Aosta prospetta altra
questione, così formulata. Siccome l’art. 2 del surrichiamato Decreto
Legislativo n. 303 del 1946 limitava la possibilità di conservazione
del posto ai lavoratori, chiamati alle armi per servizio di leva, ai
soli lavoratori delle classi 1924 e successive e ai lavoratori di
classi precedenti, rinviati per qualsiasi motivo alla chiamata di dette
classi, ne deriverebbe, per questa limitazione di categoria
beneficiata, un contrasto con l’art. 3 e con il predetto art. 52 della
Costituzione.
La questione non è fondata.
La disposizione impugnata, nello stabilire la predetta limitazione,
ha tenuto presenti, come attestato dai lavori preparatori, rilevanti
elementi di fatto ed ha obbedito ad esigenze di razionale adeguamento
della normativa in materia alle condizioni stesse. Invero, limitando
espressamente, nel senso suddetto, l’applicabilità delle innovazioni
apportate al regime del rapporto di lavoro in relazione alla
prestazione del servizio militare, il legislatore ha considerato
l’opportunità di dettare una precisa norma transitoria, stabilendo che
le innovazioni, incidenti in profondità sulla organizzazione del
lavoro, si rendevano applicabili ai rapporti concernenti lavoratori
che, per effetto del termine ordinario di durata del servizio militare,
in rapporto al momento della chiamata alle armi della classe
menzionata, fossero in procinto di essere reimmessi nella vita civile
al momento dell’entrata in vigore del provvedimento, o non avessero
ancora prestato servizio militare per rinvio di chiamata, escludendone
invece coloro che, per appartenere alle classi precedenti e per avere,
quindi, già terminato, da più o meno tempo, il servizio militare
all’epoca dell’entrata in vigore della nuova disciplina, fossero,
invece, già rientrati nell’attività lavorativa.
Questa opportunità si rende evidente, ove si consideri che, in tal
modo, si poneva una netta norma obbiettiva, espressamente tendente ad
escludere le conseguenze derivanti da una ipotizzabile indiscriminata
applicazione delle innovazioni, con la massiccia reintegrazione nel
posto di lavoro anche di coloro che ne fossero stati esclusi in passato
per effetto della normativa precedente, con immaginabili effetti
negativi sulla economia delle imprese e sul mercato del lavoro in
generale.
In presenza di tale razionale giustificazione della disciplina
censurata, resta ovviamente esclusa la pretesa violazione del principio
di uguaglianza e gli stessi motivi valgono per escludere la violazione
dell’art. 52 della Costituzione, considerato che la garanzia della
posizione di lavoro del cittadino deve necessariamente essere
contemperata con il rispetto di interessi incisivi di carattere
pubblico e generale, come tali meritevoli di essere tutelati.
10. – Con le ordinanze, indicate in epigrafe, emesse dal tribunale
amministrativo regionale del Lazio, si assume che il divieto imposto
dall’art. 6 d.l. 8 luglio 1974, n. 261, sostituito con l’art. 1 legge
di conversione 14 agosto 1974, n. 355, al personale collocato a riposo
con i benefici combattentistici, di assumere impieghi o incarichi
presso lo Stato e gli enti pubblici in genere, salvo determinate
eccezioni, e la conseguente disposta cessazione obbligatoria degli
incarichi stessi comunque attribuiti prima della pubblicazione del
citato Decreto-legge n. 261, salvo rinuncia al trattamento
preferenziale di quiescenza già ottenuto a norma della legge n. 336
del 1970, comporterebbero una violazione dell’art. 4 della Costituzione
(diritto al lavoro) e dell’art. 13 (inviolabilità della libertà
personale).
La Corte non può condividere le argomentazioni che il giudice a
quo ha posto a fondamento della censura sotto tale profilo e che
sostanzialmente si incentrano sulla pretesa violazione degli obblighi
che la norma costituzionale invocata porrebbe allo Stato, tanto di
astenersi dall’emanare norme comunque limitatrici di tale libertà,
quanto di promuovere, anziché limitare, l’attività lavorativa di
tutti i cittadini idonei, violazione che nella specie assumerebbe
portata maggiormente incisiva collegandosi con la efficacia retroattiva
della disposizione denunciata.
Deve osservarsi che il diritto al lavoro garantito dall’art. 4
della Costituzione si traduce non in una pretesa giuridica del singolo
soggetto ad ottenere un determinato posto di lavoro, bensì nella
generica possibilità di avere accesso, concorrendone i requisiti, ai
posti di lavoro disponibili e nell’obbligo, pure genericamente imposto
al legislatore, di realizzare un ordinamento che renda effettivo questo
diritto, attraverso l’adozione di concrete ed idonee misure per la
assicurazione dell’occupazione e la creazione di posti di lavoro. Il
diritto al lavoro, così concepito, è anche integrato nel suo aspetto
per così dire strumentale, dalla garanzia della libertà di scelta
della attività lavorativa e di quelle libertà che a tale scelta si
colleghino in funzione di mezzo al fine. Ma, con ciò, non può
ovviamente escludersi che al legislatore rimanga la facoltà di
regolare l’esercizio della libertà di scelta dell’attività lavorativa
mediante l’adozione di opportune cautele che valgano a tutelare altri
interessi ed altre esigenze sociali, anche se ciò si traduca nella
limitazione per alcune categorie di soggetti della possibilità di
accedere a determinati posti di lavoro (Corte cost. sentt. nn. 120 del
1960; 105 del 1963; 11 del 1967; 102 del 1968; 41 del 1971).
Nella specie, come risulta chiaramente dai lavori preparatori, la
disciplina censurata risponde ad evidenti esigenze di equità e di
moderazione, tendendo ad evitare che il personale a cui, sia pure in
relazione a sue benemerenze speciali, era stato attribuito un
trattamento di quiescenza di particolare favore, si avvantaggiasse
ulteriormente, e sempre a carico della pubblica finanza, utilizzando la
propria situazione di preferenza per svolgere altre attività e
frustrando così le finalità delle norme di favore per gli ex
combattenti, ispirate al presupposto della attribuzione di un
trattamento preferenziale in quanto collegato alla cessazione dei
beneficiari dal rapporto di impiego pubblico.
A parte l’ostacolo di riferire al caso di specie il precetto di cui
all’art. 13 della Costituzione, che garantisce la inviolabilità della
libertà personale e ne vieta le restrizioni, mentre nell’attuale
controversia la detta garanzia non viene affatto in discussione,
trattandosi di ipotesi in cui non sono ovviamente operate restrizioni
nel senso suddetto, e anche se potesse, quindi, considerarsi il
riferimento alla detta norma sotto il profilo delineato nelle ordinanze
di rinvio, intendendo cioè l’invocato principio in rapporto ad una sua
particolare estrinsecazione che si sostanzierebbe nella libera scelta e
nel libero esercizio di un’attività lavorativa, tutto quanto già
esposto circa la legittimità della regolamentazione della invocata
libertà di lavoro, varrebbe altresì a proposito della garanzia della
libertà personale, intesa secondo la accezione sostenuta dal giudice a
quo.
Né d’altra parte le conclusioni così raggiunte possono essere
inficiate dalle considerazioni che il giudice a quo e la difesa delle
parti private hanno svolto a proposito della retroattività della
norma, che, come si è sostenuto, inciderebbe su posizioni costituite
in vista di una situazione giuridica, mutata poi in forza della
disposizione impugnata.
È, invero, principio acquisito nella giurisprudenza della Corte
che l’irretroattività della legge assurge a principio di livello
costituzionale solo per quanto riguarda la materia penale (sent. n. 118
del 1957 ed altre) mentre per le restanti materie, l’osservanza del
principio è rimessa alla prudente valutazione del legislatore,
sempreché la retroattività non comporti la violazione di uno
specifico precetto costituzionale. È stato anche affermato dalla
stessa giurisprudenza che il principio tradizionale della
irretroattività della legge non penale dovrebbe, in linea di massima,
essere osservato, essendo la garanzia della certezza dei rapporti
giuridici uno dei cardini della tranquillità sociale e del vivere
civile. Ma è anche vero che la validità di tale affermazione non può
non essere condizionata alla insorgenza di casi che eccezionalmente
impongano l’estensione retroattiva.
Ricorre nella specie un caso di riconoscimento di evidente
opportunità per la attribuzione di efficacia retroattiva alla legge,
che ne pone in evidenza le ragioni giustificatrici.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1, ultimo comma, del d.l.l. 14 febbraio 1946,
n. 27 (Norme integrative sulla riassunzione e assunzione obbligatoria
dei reduci nelle aziende private); questione proposta con l’ordinanza
in epigrafe dal pretore di Aosta, in riferimento agli artt. 36, primo
comma, e 52, comma secondo, della Costituzione;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità dell’art. 4
della legge 24 maggio 1970, n. 336, contenente “norme a favore dei
dipendenti civili dello Stato ed enti pubblici, ex combattenti ed
assimilati” anche in relazione a tutte le altre disposizioni di tale
legge: questione proposta con l’ordinanza di cui in epigrafe dal
giudice del lavoro presso il tribunale di Torino, in riferimento agli
artt. 3, 97 e 53 della Costituzione;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità dell’art. 4
della succitata legge 24 maggio 1970, n. 336, sollevate con le
ordinanze in epigrafe dei pretori di Aosta, Fiorenzuola d’Arda,
Orbetello, Vittorio Veneto e del giudice del lavoro presso il tribunale
di Torino con riferimento agli artt. 3, 35 primo comma, e 52 della
Costituzione;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2, comma secondo, d.l. C.P.S. 13 settembre 1946, n. 303
(conservazione del posto ai lavoratori chiamati alle armi per servizio
di leva), ratificato con legge 5 gennaio 1953, n. 35: questione
proposta con l’ordinanza di cui in epigrafe dal pretore di Aosta, in
riferimento agli artt. 3 e 52 della Costituzione;
5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 6 del d.l. 8 luglio 1974, n. 261 (norme a favore dei
dipendenti dello Stato ed enti pubblici, ex combattenti e assimilati),
sostituito con l’art. 1 della legge 14 agosto 1974, n. 355 (conversione
in legge con modificazioni del d.l. n. 261 del 1974): questione
sollevata con le ordinanze indicate in epigrafe dal tribunale
amministrativo regionale del Lazio, in riferimento agli artt. 4 e 13
della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 luglio 1976.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
ANGELO DE MARCO – ERCOLE ROCCHETTI –
ENZO CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE – LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA – GUIDO
ASTUTI – MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere