Sentenza N. 20 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
09/03/1967
Data deposito/pubblicazione
09/03/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
28/02/1967
ANTONINO PAPALDO – Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Prof. BIAGIO PETROCELLI
– Dott. ANTONIO MANCA – Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA –
Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE
CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI, Giudici,
29 luglio 1927, n. 1443, sulla ricerca e la coltivazione delle miniere,
promosso con ordinanza emessa il 1 luglio 1965 dalla sezione di Corte
di appello di Reggio Calabria nel procedimento civile vertente tra
Barreca Demetrio, Antonio e Domenico e la Società Laterizi Fratelli
Antonino e Valentino Neri, iscritta al n. 159 del Registro ordinanze
1965 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 216 del
28 agosto 1965.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e di costituzione di Barreca Demetrio, Antonio e Domenico;
udita nell’udienza pubblica del 9 novembre 1966 la relazione del
Giudice Michele Fragali;
uditi l’avv. Vincenzo Mazzei, per i Barreca, e il sostituto
avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente del
Consiglio dei Ministri.
1. – L’odierna controversia trae origine da una ordinanza emessa il
1 luglio 1965 dalla sezione di Corte di appello di Reggio Calabria che
rimetteva a questa Corte una questione di legittimità costituzionale
concernente l’art. 45 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, sulla ricerca e
la coltivazione delle miniere, in riferimento agli artt. 42, comma
terzo, e 43 della Costituzione. Rilevava la Corte di appello che non vi
sono opinioni concordi sulla condizione giuridica delle cave e delle
torbiere prima che, secondo la norma denunciata, la loro disponibilità
venga sottratta al proprietario del fondo; e che alcuni orientamenti di
dottrina e di giurisprudenza scorgono, nell’attribuzione allo Stato del
potere di sottrarre al proprietario del suolo quella disponibilità,
un’espropriazione senza indennità, giustificata come sanzione contro
il proprietario che non ha adempiuto ad esercitare convenientemente la
cava o la torbiera.
L’ordinanza è stata notificata alle parti in causa il 14 luglio
1965, e al Presidente del Consiglio dei Ministri il giorno 15
successivo; è stata comunicata in quest’ultima data ai Presidenti
delle Camere, ed è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della
Repubblica del 28 agosto 1965, n. 216.
Innanzi a questa Corte si sono costituiti soltanto gli attori del
giudizio che ha dato luogo all’ordinanza di rimessione; È intervenuto
il Presidente del Consiglio dei Ministri.
2. – La parte comparsa ritiene che le cave e le torbiere, prima del
provvedimento previsto nella norma denunziata, siano nella proprietà
privata: esse non sono oggetto di una originaria concessione ex lege al
proprietario del suolo, perché è riconosciuto che sulle medesime
quest’ultimo può esercitare tutti i diritti che gli provengono dalla
sua qualità e si è financo ammesso che esse siano espropriabili per
pubblico interesse sulla base delle disposizioni di carattere generale.
È stato qualificato potere di espropriazione senza indennizzo quello
consentito allo Stato quando le cave e le torbiere non siano coltivate
nell’interesse dell’economia generale, donde il contrasto con le norme
costituzionali invocate dalla Corte di appello.
3. – Il Presidente del Consiglio osserva in contrario che il
sistema vigente per le cave e le torbiere è quello di una demanialità
attenuata, che ha portato l’ordinamento ad attribuire al proprietario
del suolo la concessione ex lege della coltivazione, per la minore
importanza dei materiali che si estraggono nelle cave e nelle torbiere
rispetto al materiale minerario e per la maggiore facilità dei lavori
di estrazione.
Non si può ritenere che, avendone lasciata al proprietario del
suolo la disponibilità, se ne sia mantenuta a lui la proprietà,
perché ciò che caratterizza il contenuto del diritto di proprietà
non è soltanto il godimento o la disponibilità, ma la pienezza ed
esclusività, nella specie esclusa, dato che lo Stato può ingerirsi
nei rapporti fra il proprietario del fondo e la cava o la torbiera. Si
aggiunga che l’ultimo comma della norma denunciata rende applicabili in
ogni caso, e cioè anche prima che la disponibilità sia tolta al
proprietario del suolo, norme ed istituti caratteristici del rapporto
di concessione, confermando, in tal modo, che quel proprietario è
sostanzialmente un concessionario: l’art. 826 del Codice civile sta a
significare soltanto che le cave e le torbiere, finché vengono
lasciate nella disponibilità del proprietario del suolo non sono
soggette alle norme sull’amministrazione del patrimonio indisponibile,
non che sulle stesse non esiste un dominio dello Stato.
Il provvedimento di concessione a terzi della cava e della torbiera
fa decadere il proprietario del suolo da ogni diritto sulla stessa per
inosservanza degli obblighi derivanti dalla concessione ex lege:
l’ipotesi che giustifica la sottrazione del bene alla disponibilità
del proprietario del fondo è infatti quella stessa che legittima la
pronuncia di decadenza dalle concessioni minerarie e in genere dalle
concessioni su beni demaniali. Si giustifica come decadenza anche fuori
dal campo del diritto pubblico, come può desumersi dall’art. 972 del
Codice civile, per il quale l’enfiteuta che non adempie all’obbligo di
migliorare il fondo decade senza indennizzo dal suo diritto. In modo
che, anche per il suo contenuto sanzionatorio, rimane escluso un
contrasto tra la norma denunciata e gli artt. 42 e 43 della
Costituzione.
4. – In una sua memoria, la parte privata ribadisce che il diritto
del proprietario del suolo sulla cava è un vero e proprio diritto di
proprietà, e fa risalire questa convinzione a ragioni storiche,
risalenti al diritto romano, all’epoca feudale e alla legislazione
mineraria preunitaria, a ragioni tecniche inerenti al fatto che la cava
è intimamente incorporata alla crosta superficiale, a ragioni
giuridiche attinenti all’interpretazione delle norme vigenti.
L’art. 826, secondo comma, del Codice civile, attribuendo le cave e
le torbiere al patrimonio indisponibile dello Stato quando la
disponibilità è sottratta al proprietario del fondo, a contrario fa
intendere che, prima del provvedimento ablativo, le une e le altre sono
jure proprio nella disponibilità di quel proprietario; accanto a tale
disponibilità successivamente si affianca ed aggiunge la facoltà di
godimento, il che vuol dire che il proprietario del suolo ha la
pienezza del diritto di proprietà sulla cava o sulla torbiera e può
esercitare ogni potere che ne deriva: il rinvio fatto dall’art. 840 del
Codice civile, alle norme delle leggi speciali significa che, in
materia di cave e di torbiere, si debbono osservare, oltre alle norme
di carattere generale, quelle particolarmente dettate sulla materia.
Al diritto del proprietario delle cave e delle torbiere la
giurisprudenza ha riconosciuto carattere originario al pari degli altri
diritti del proprietario del suolo; e non ne riduce l’esclusività e
l’assolutezza l’ingerenza che su di esso è attribuita allo Stato, dato
che l’art. 836 del Codice civile, ammette l’esistenza di diritti e di
obblighi in ogni proprietario.
È un virtuosismo letterale quello che propugna l’opinione della
concessione ex lege; la legge lascia le cave e le torbiere alla
disponibilità del “proprietario” e non di “colui che ne era
precedentemente proprietario”, e la legge mineraria ha parlato di
concessione al proprietario solo nell’art. 54 e nell’art. 63. Peraltro,
le concessioni nel nostro ordinamento sono tipiche e non possono
ammettersi senza una espressa previsione legislativa; sarebbe strana
l’idea della concessione, perché il proprietario non è tenuto a
pagare allo Stato alcun canone e alcuna tassa e perché le concessioni
possono aversi soltanto su beni di cui gli enti pubblici abbiano la
esclusiva disponibilità. così essendo, l’illegittimità della norma
che esclude un indennizzo appare, secondo la parte comparsa,
indiscutibile; e lo è se pure si volesse seguire quella teoria secondo
la quale il diritto sulla cava e sulla torbiera è simile
all’usufrutto, perché la Corte costituzionale ha ritenuto che la
tutela accordata dall’art. 42 della Costituzione riguarda anche i
diritti parziali o frazionari.
È inaccoglibile l’opinione che scorge nella norma denunziata una
sanzione o una decadenza per l’inerzia del proprietario. Il nostro
ordinamento non conosce sanzioni o decadenze dal diritto di proprietà,
e del resto, la stessa espropriazione sanzionatoria non può ammettersi
senza indennità. Che, del resto, non si tratti di decadenza o di
sanzione si può desumere dalla constatazione che la valutazione
deferita all’amministrazione come presupposto della misura ablativa ha
per oggetto le pubbliche esigenze e non una colpa del proprietario;
riguarda cioè l’opportunità del trasferimento, che è una indagine
preliminare propria dell’atto di espropriazione, attenendo
all’apprezzamento specifico del vantaggio procurato alla collettività.
Ripugna all’istituto espropriativo una configurazione sanzionatoria, e
non potrebbe nemmeno trattarsi di confisca, perché la confisca,
essendo di natura punitiva, va riferita ad attività pericolose o
illecite. L’ipotesi si pone sullo stesso piano dell’art. 838 del
Codice civile, che consente la espropriazione di beni interessanti la
produzione nazionale quando il proprietario ne abbandona la
conservazione, la coltivazione e l’esercizio in modo da nuocere
gravemente alle esigenze della produzione stessa; e, nel caso, si
impone il pagamento di un’indennità al proprietario inerte, altresì
confermandosi, in tal modo, che non è ammissibile una espropriazione
senza indennizzo nemmeno in via eccezionale.
Affermare che, terminata la coltivazione della cava e della
torbiera, il proprietario può esercitare tutti i suoi poteri di
disponibilità e di godimento sui fondi rimasti, vuoi dire equiparare
la situazione delle cave e delle torbiere a quella delle miniere e non
avvertire che la cava o la torbiera torna al proprietario del tutto
svuotata di valore per la coltivazione avvenuta; cosicché la
fattispecie rientra in quella che la Corte costituzionale ha ritenuto
comprese nell’art. 42, terzo comma, della Costituzione, in quanto
implichino limitazioni tali da svuotare di contenuto il diritto di
proprietà.
Non è esatto che l’espropriazione colpisce solo il materiale
estratto dalla cava o dalla torbiera: cava o torbiera v’è pure con
riferimento ai materiali che affiorano alla superficie. E non basta
dire che la cava e la torbiera vanno viste come strumento per la
realizzazione di un pubblico interesse, in modo che esse non sono
comprese fra i beni indicati nell’art. 42 della Costituzione: la
proprietà, nella definizione dell’art. 832 del Codice civile, ha in
germe il perseguimento di un interesse generale, ha i limiti di questo
interesse; e comunque l’esistenza di esso non esclude l’indennità, nel
caso di espropriazione, tanto vero che essa è imposta, come si è
detto, pure nel caso di espropriazione causata da inerzia del
proprietario dei beni interessanti la produzione nazionale.
Il risultato pratico dell’applicazione della norma denunciata è
che essa sancisce un indebito arricchimento a favore di un soggetto
privato e a danno di un altro.
5. – All’udienza del 9 novembre 1966 le difese delle parti hanno
ribadito i rispettivi argomenti.
Che l’art. 45, quarto comma, del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, non
abbia illegittimamente negato l’indennità reclamata innanzi al giudice
a quo, può arguirsi dalla constatazione che il trattamento giuridico
fatto alle cave e quello adottato per le miniere hanno una comune
ispirazione, e che la coltivazione delle cave assolve a fini di
utilità generale come quella delle miniere; per cui, nel diritto
accordato al proprietario del fondo sulla cava che vi affiora, si
immedesima una destinazione che lo fa divenire mezzo di realizzazione
di un interesse pubblico, e sostanzialmente lo affievolisce.
Le cave formano, è vero, una categoria di beni distinta dalle
miniere. Ma l’art. 2 del predetto R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, le
riunisce alle miniere sotto la denominazione di lavorazioni minerarie,
delle quali le cave costituiscono la seconda classe. Tale unificazione
trova conforto nella legge di delegazione 14 aprile 1927, n. 571, la
quale autorizzava il Governo ad emanare norme aventi carattere
legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle
miniere, intendendo riferirsi anche all’assetto delle cave, e indusse a
dare un comune fondo alla disciplina delle due categorie di beni: lo si
rileva fin nel primo atto illustrativo dell’ordinamento vigente, la
fondamentale relazione Fadda, ove il sistema della concessione proposto
per le miniere lo si qualificava demaniale, e l’altro progettato per le
cave, di disponibilità privata limitata dal potere statale di
concessione, lo si definiva di demanialità attenuata o potenziale: si
riteneva che implicasse una generale e preventiva concessione ope
legis, la quale non escludesse un altro dominio dello Stato sul bene, e
che attuasse una graduazione nel regime di pubblica utilità cui era
conveniente assoggettare la proprietà del suolo e del sottosuolo. La
riducibilità dei due regimi ad unità fu ammessa anche da chi,
all’indomani dell’emanazione della legge delegata, nel contestare, per
la prima volta, che le miniere e le cave fossero state inquadrate
insieme nell’ambito della demanialità, sostenne che tuttavia nessun
inconveniente avrebbe potuto venire se si fosse parlato di sistema
demaniale qualora, con ciò, si fosse inteso alludere ad un ordinamento
che implicasse, rispetto a determinate cose, poteri della pubblica
Amministrazione, e addirittura il potere di essa di fare la cosa
oggetto di concessione; e si soggiunse, in tale occasione, che il
principio demaniale, nel senso proposto, dominava anche il trattamento
approntato per le cave, trovando in esso una differenza di intensità,
per modo che la pubblica Amministrazione, e non il privato, era
costituita arbitra della ricerca e della coltivazione delle miniere e
delle cave. S’intuiva cioè, fin d’allora, che un potere di concedere
queste coltivazioni risultava attribuito allo Stato per entrambi i due
beni, ma era esercitabile per le miniere subito dopo la scoperta, e,
per le cave, era differito al tempo in cui si fosse accertato che il
privato non imprimeva alla cosa quella destinazione all’utilità
generale che è nella sua essenza. Ancora oggi si può dire che la
funzione economico-sociale delle cave, secondo la valutazione fattane
dall’ordinamento giuridico, si differenzia solo quantitativamente da
quella che svolgono le miniere; e che l’attribuzione al proprietario
del fondo di un diritto sulla cava che vi esiste, fino a quando
l’interesse della produzione cui essa specificatamente serve non ne
renda opportuna la concessione a terzi, rispecchia la minore intensità
del vantaggio generale che le cave possono rendere, secondo la loro
natura, essendosi ritenuta sproporzionata una sottrazione originaria
del bene al proprietario del fondo, e viceversa congrua l’assegnazione
di un limite al diritto di quel proprietario. Così essendo, questo
diritto risulta accordato per fare, dell’iniziativa privata, uno
strumento d’attuazione del pubblico interesse, e perché si è
ravvisato che l’iniziativa privata avrebbe potuto egualmente attendere
alla realizzazione di questo interesse; e dovrà riconoscersi, in
conseguenza, che quel diritto convive con un potere
dell’Amministrazione, tanto vero che la coltivazione delle cave è
assoggettata alla sua vigilanza, e ad una vigilanza tendente a
mantenere il rispetto delle esigenze pubbliche nel modo del suo
svolgimento, quella stessa alla quale è soggetta la coltivazione della
miniera (art. 29), perché essa, dall’art. 45, ultimo comma, è estesa
alla cava. Venuta meno la fiducia nell’iniziativa del proprietario del
fondo, l’Amministrazione pubblica provvede alla tutela dell’interesse
generale senza il tramite del procedimento tipico di espropriazione per
pubblico interesse così come senza ricorrere a questo procedimento
concede originariamente la miniera; in una guisa cioè che, se non
toglie al proprietario del fondo garanzia di difesa, nell’ipotesi di
atto illegittimo, si profila quale espressione di una relazione
immediata con la cava.
Non importa individuare la natura del diritto del privato sulla
cava: la proprietà, l’usufrutto, o che altro sia, sarebbero attribuiti
con i limiti impressi dalla rilevanza pubblica del bene, e questi
limiti si inseriscono nella struttura del diritto, comunque esso si
qualifichi, caratterizzandolo nella sua giuridica essenza, vincolandolo
indissolubilmente ad un esercizio che svolga quella funzione
d’interesse generale cui la cava è, di per sé, destinata.
Nemmeno importa discutere, ai fini della questione da decidere, se
la concessione della cava al terzo sulla base della disposizione
denunciata sia un atto di carattere ablativo; l’atto incide sul diritto
del privato per l’attivarsi del limite cui sottostava, il che basta a
far ritenere che la fattispecie esula dal tenore del terzo comma
dell’art. 42 della Costituzione. Questo comma contempla l’ipotesi del
sacrificio di una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che
essenzialmente sta fuori di essa e ad essa si sovrappone: se però
l’interesse pubblico è limite della situazione, la sua tutela
preferenziale è sviluppo naturale o normale del rapporto da cui il
diritto del privato trae origine e non induce acquisizione aliena di un
valore. Infatti il diritto sacrificato, in tal caso, non contiene il
valore di quello prevalso; e deve stimarsi avendo presente la
coesistenza di un altro diritto capace di assorbirlo, quindi con
detrazione del valore di questo.
La fattispecie regolata dall’art. 838 del Codice civile, cui la
parte privata si è richiamata per dar maggior vigore alla sua denuncia
di illegittimità, è del tutto diversa da quella in esame. In tale
articolo si prevede un indennizzo per l’espropriazione di beni che
interessano la produzione nazionale e che il proprietario usa in modo
da nuocere alle esigenze della produzione stessa; si ha cioè riguardo
ad un diritto su beni che sono utili alla produzione, non che sono ad
essa necessari, come i prodotti delle cave, per loro natura
insostituibili: in quel caso l’interesse generale è toccato di
riflesso dal comportamento del privato, il diritto sul bene non essendo
dato perché con esso possa realizzarsi un interesse pubblico, come è
invece per il diritto sulla cava.
Questa Corte ha già osservato (sentenza 19 gennaio 1966, n. 6) che
la legge può non disporre indennizzi quando segna modi e limiti che
attengano al regime di appartenenza o a quello di godimento dei beni in
generale o di intere categorie di beni, ovvero quando regoli la
situazione che i beni stessi abbiano, rispetto a beni o ad interessi
della pubblica Amministrazione: è necessario, in tal caso, soltanto
che la legge sia destinata alla generalità dei soggetti i cui beni si
trovino nelle accennate situazioni, vale a dire che l’imposizione di
limiti abbia carattere obiettivo, quindi scaturisca da disposizioni che
diano un certo carattere a determinate categorie di beni,
identificabili a priori per contrassegni intrinseci. Da quanto si è
esposto appare indiscutibile che la sottrazione delle cave alla
disponibilità privata ex art. 45 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443,
svolge il limite connesso al regime di quei beni come categorie, per la
loro inerenza ad un interesse della pubblica Amministrazione; rientra
cioè fra le ipotesi genericamente descritte dalla Corte, per le quali
la Costituzione non dà garanzia d’indennizzo.
Per le stesse ragioni è infondata la questione di legittimità
costituzionale proposta in relazione all’art. 43 della Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione proposta con ordinanza 1 luglio
1965 della sezione della Corte di appello di Reggio Calabria, sulla
legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 45 del R.
D. 29 luglio 1927, n. 1443, relativo alla ricerca e alla coltivazione
delle miniere, in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 43 della
Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 1967.
GASPARE AMBROSINI – ANTONINO PAPALDO
– GIOVANNI CASSANDRO – BIAGIO
PETROCELLI – ANTONIO MANCA – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA – MICHELE
FRAGALI – COSTANTINO MORTATI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI.