Sentenza N. 203 del 1981
Corte Costituzionale
Data generale
29/12/1981
Data deposito/pubblicazione
29/12/1981
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/12/1981
EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO –
Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN –
Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof. VIRGILIO
ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
del r.d. 28 febbraio 1930, n. 289 (norme per l’attuazione della legge
24 giugno 1929, n. 1159, sui culti ammessi nello Stato e per il
coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato), promosso con
ordinanza emessa il 29 aprile 1976 dal Tribunale di Trieste, nel
procedimento penale a carico di Sekulic Milos ed altri, iscritta al n.
565 del registro ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 260 del 29 settembre 1976.
Visti l’atto di costituzione di Perich Giorgio e l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 ottobre 1981 il Giudice
relatore Giuseppe Ferrari;
udito l’avvocato dello Stato Giuseppe Angelini Rota, per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Nel corso di un procedimento penale contro tale Perich Giorgio
– procedimento riunito per connessione ad altri contro diversi imputati
-, il Tribunale di Trieste, con ordinanza emessa il 29 aprile 1976 (n.
565 Reg. ord. 1976) e debitamente notificata e pubblicata, sollevava
questione di legittimità costituzionale degli artt. 13, 14 e 15 del
regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289 (di attuazione della legge
1159/1929 sui “culti ammessi nello Stato”) in riferimento agli artt. 8
e 20 Cost.
2. – La vicenda ebbe origine nel 1973 a Trieste, ove esiste una
“comunità religiosa serbo-ortodossa”, il cui statuto è stato
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 21 novembre 1966,
n. 1205. In tale statuto, la suddetta comunità è dichiarata “persona
giuridica e morale, costituita su base volontaria di carattere
spirituale, ecclesiastico, religioso, morale, culturale e di
beneficenza” (art. 1); sono individuati gli organi della comunità
nell’Assemblea, nel Consiglio e nella Presidenza (art. 14); viene
precisato che il segretario è scelto dal Consiglio ed acquista la
stabilità dopo un anno (art. 80); è statuito che, “se il numero dei
confratelli si riducesse a meno di sei”, allora “deciderà la
competente autorità italiana” (art. 13); è inoltre previsto, tra
l’altro, non solo che “all’assemblea elettorale la Presidenza è tenuta
ad invitare tempestivamente la competente autorità governativa
italiana di Trieste, il cui delegato presenzierà all’assemblea fino al
termine delle elezioni, prendendo posto a destra del Presidente” (art.
24), ma anche che “della elezione del Consiglio, della Presidenza e
degli altri organi deve essere data comunicazione alla locale autorità
governativa di Trieste” (art. 28).
3. – Con nota del 14 marzo 1973, indirizzata a Perich Giorgio, ma
anche, per conoscenza, al locale Procuratore della Repubblica – oltre
che al Presidente della comunità ed a tale Relich Dusan – la
Prefettura di Trieste, premesso che il Consiglio della comunità aveva
deliberato, sin dal 27 del mese di gennaio, di sostituire nell’incarico
di segretario il Perich col Relich, invitava il Perich a consegnare le
chiavi dell’ufficio al Presidente della comunità, avvertendolo che, in
caso contrario, sarebbe stato denunziato all’autorità giudiziaria per
i provvedimenti di competenza. Senonché, lo stesso giorno 14 marzo,
un avvocato triestino, dichiarando di agire nella qualità di legale
della comunità, replicava alla Prefettura, con lettera inviata per
conoscenza al Procuratore della Repubblica. In particolare, eccepiva:
che la Prefettura non aveva alcuna competenza, giacché la questione
concerneva “un incarico di carattere burocratico nell’ambito della vita
interna della comunità”; che la delibera di questa, cui la Prefettura
faceva riferimento, “era nulla in radice, perché contraria all’art. 36
dello statuto” ed anche all’art. 34; che “le norme statutarie sono
vincolanti anche per l’autorità politica ed amministrativa”; che
l’operato degli organi statutari “può essere oggetto di sindacato
esclusivamente da parte dell’autorità giudiziaria nell’ambito delle
norme regolanti le persone giuridiche”; che “l’intervento
dell’autorità amministrativa è strettamente limitato alle ipotesi
previste dagli artt. 24 e 28 dello statuto”.
Il giorno successivo, tuttavia, nonostante le surriportate
considerazioni in fatto ed in diritto, la Prefettura di Trieste inviava
apposita nota al Procuratore della Repubblica, dandogli notizia del
rifiuto del Perich di consegnare le chiavi al Presidente della
comunità “o, quanto meno, al legittimo segretario” e dichiarando di
informarlo “nel caso ravvisasse nei fatti esposti estremi di reato”.
4. – L’autorità giudiziaria elevava allora rubrica a carico di
Perich, imputandogli la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p “per
essersi rifiutato di eseguire l’ordine della Prefettura di Trieste
perché consegnasse le chiavi dell’ufficio di segreteria della
comunità serbo-ortodossa di Trieste al nuovo Presidente della
comunità o, quanto meno, al nuovo segretario”. E, benché si
trattasse di reato di competenza pretoria, venivano disposti
l’istruttoria formale – stante la già segnalata riunione ad altri
processi – e, quindi, il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale di
Trieste. Nel corso del dibattimento, poi, il Perich eccepiva
l’illegittimità costituzionale degli artt. 13, 14 e 15 del regio
decreto n. 289/1930, in quanto ritenuti fondamento dell’ordine
prefettizio. Il Tribunale, stimando a sua volta che la vigilanza e la
tutela dell’autorità tutoria sull’attività dei culti ammessi,
previste dalle richiamate norme, violano gli artt. 8 e 20 Cost., cioè
la libertà delle confessioni religiose ed il divieto di stabilire
speciali limitazioni legislative nei confronti delle associazioni o
istituzioni aventi carattere ecclesiastico o fine di religione o di
culto, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di cui
in epigrafe.
5. – Si sono costituiti in giudizio, sia il Presidente del
Consiglio, tramite l’Avvocatura dello Stato, sia il Perich, tramite
l’Avvocato Arturo Carlo Jemolo.
Osserva l’Avvocatura dello Stato, invocando la sentenza n. 59/1958
di questa Corte, che ogni regolamentazione di rapporti – e, quindi,
anche quella tra Stato e confessioni acattoliche – comporta vantaggi
per queste ultime, cui corrispondono limiti nell’interesse dello Stato,
e che le norme impugnate non incidono in alcun modo sulla libertà di
esercizio del culto, in quanto concernono la sfera amministrativa
dell’attività degli enti dei culti acattolici, ma non già quella
religiosa e spirituale. Inoltre, l’evidente analogia delle norme in
esame con quelle emanate in esecuzione del Concordato con la Santa Sede
mostra come nel nostro ordinamento v’è assoluta parità di trattamento
fra “culti ammessi” e religione cattolica. Aggiunge poi che non si
configura alcuna violazione della libertà religiosa dei culti
acattolici ad opera delle norme impugnate, le quali non creano alcuna
discriminazione rispetto ad altri enti di diritto comune e non hanno
perciò carattere di specialità.
La difesa di Perich, da parte sua, rileva in primo luogo che il
divieto disposto dall’art. 20 Cost., di statuire speciali limitazioni
legislative all’attività delle associazioni od istituzioni ivi
previste non può non comprendere il divieto di stabilire limitazioni
mediante atti amministrativi. Affermi poi che l’art. 8 Cost. non ha
inteso riconoscere una semplice libertà associativa, ma accordare un
‘autonomia istituzionale, e che all’autorità governativa italiana sono
consentiti solo quegli interventi che risultano previsti nello statuto,
il quale è sufficiente a regolare ogni rapporto tra lo Stato e la
comunità serbo-ortodossa.
La sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt.
13, 14 e 15 del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289 (di attuazione
della legge 1159/1929 sui “culti ammessi”) in riferimento agli artt. 8
e 20 Cost., così come proposta dal giudice a quo, è inammissibile per
difetto di motivazione sulla rilevanza.
Va anzitutto precisato, infatti, che l’ordine prefettizio di
consegnare le chiavi dell’ufficio della comunità serbo-ortodossa di
Trieste al Presidente o al segretario della comunità stessa non
conteneva alcuna indicazione della norma legittimante l’autorità
governativa ad esercitare nel caso quel potere e che, prescrivendo
l’art. 650 c.p. che il reato di inosservanza di un provvedimento
dell’autorità si consuma solo se questo è “legalmente dato”, è stato
allora il Tribunale ad individuare nelle norme poi impugnate il titolo
di legittimazione del potere prefettizio. Esso ha affermato, in primo
luogo, che “l’ordine della Prettura… venne certamente preso in virtù
delle disposizioni di cui agli artt. 13, 14 e 15 del r.d. 28 febbraio
1930, n. 289”; ha, in secondo luogo, espresso il dubbio sulla
legittimità costituzionale delle menzionate norme. Tuttavia, anziché
argomentare sulla relazione tra le fattispecie normative invocate e la
fattispecie concreta oggetto del giudizio de quo, al fine di mostrare
che questo non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione
della sollevata questione di legittimità costituzionale, si è
limitato a manifestare il convincimento che con quelle disposizioni “si
pone in essere un controllo dell’autorità tutoria che snatura la
libertà religiosa espressamente prevista dall’art. 8 della
Costituzione e ribadita dall’art. 20”.
Se si considera allora – prescindendo da ogni indagine sulla esatta
natura giuridica della comunità serbo-ortodossa di Trieste – che, in
ordine agli “istituti dei culti diversi dalla religione dello Stato”,
l’art. 13 stabilisce la vigilanza e la tutela governativa (senza
peraltro specificare che vi rientri l’ordine di consegna); l’art. 14
facoltizza visite, ispezioni, scioglimento dell’amministrazione con
conseguente nomina di un commissario; l’art. 15 prevede l’annullamento
di atti e deliberazioni in violazione di leggi e regolamenti, il sopra
trascritto richiamo dell’ordinanza al controllo, da parte
dell’autorità tutoria, che pregiudicherebbe la libertà religiosa
appare motivo più astratto, che generico, a sostegno della
indimostrata applicabilità delle norme impugnate nel giudizio de quo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 13, 14 e 15 del r.d. 28 febbraio 1930, n. 289, sollevata,
in riferimento agli artt. 8 e 20 della Costituzione, dal Tribunale di
Trieste, con l’ordinanza di cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1981.
F.to: LEOPOLDO ELIA – EDOARDO
VOLTERRA – MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO – GUGLIELMO ROEHRSSEN
ORONZO REALE – BRUNETTO BUCCIARELLI
DUCCI – ALBERTO MALAGUGINI LIVIO
PALADIN – ARNALDO MACCARONE – ANTONIO
LA PERGOLA – VIRGILIO ANDRIOLI –
GIUSEPPE FERRARI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere