Sentenza N. 209 del 1971
Corte Costituzionale
Data generale
28/12/1971
Data deposito/pubblicazione
28/12/1971
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/12/1971
MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ –
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO –
Dott. LUIGI OGGIONI – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA –
Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott.
NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI, Giudici,
comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il
30 novembre 1970 dal tribunale di Torino nel procedimento penale a
carico di Valentini Virginio ed altro, iscritta al n. 393 del registro
ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 42 del 17 febbraio 1971.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 novembre 1971 il Giudice
relatore Nicola Reale;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Con ordinanza 30 novembre 1970, emessa nel corso del procedimento
penale promosso, col rito direttissimo, a carico di Valentini Virginio
e Di Ioia Alfio, il tribunale di Torino ha sollevato, di ufficio, in
riferimento agli artt. 3, primo comma e 24, secondo comma, della
Costituzione, dubbi sulla legittimità dell’art. 502, primo comma, del
codice di procedura penale, nella parte in cui, demandando al pubblico
ministero la potestà di procedere col rito direttissimo, non ne
circoscrive i criteri di valutazione circa l’esistenza dei requisiti,
prescritti dalla norma in oggetto, della flagranza e quasi flagranza
del reato e della non necessità di speciali indagini.
Dalla natura ampiamente discrezionale della accennata potestà, si
osserva nell’ordinanza, potrebbe derivare, pur nel concorso di pari
condizioni obiettive, disparità di trattamento nei confronti di
soggetti diversi, a carico dei quali l’azione penale venisse esercitata
nei modi ordinari (con richiesta di istruzione formale o con l’adozione
di quella sommaria) o con il rito direttissimo.
In violazione, inoltre, del diritto di difesa all’imputato non
sarebbe attribuito alcun mezzo per contrastare l’iniziativa del p.m.,
né al fine di chiedere, nel proprio interesse, l’immediata
celebrazione del giudizio a proprio carico, né al fine di contestare
la legittimità della presentazione al tribunale per il giudizio, senza
istruttoria e soltanto previo sommario interrogatorio.
Davanti a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, in rappresentanza del quale l’Avvocatura generale dello
Stato ha dedotto essere la questione non fondata sotto entrambi i
profili denunziati.
L’Avvocatura ha osservato che la flagranza e la quasi flagranza
costituiscono, quando ricorra l’ulteriore requisito della non
necessità di speciali indagini, presupposti agevolmente accertabili,
in merito ai quali, ove si verifichi violazione della legge, sussiste
comunque il rimedio del sindacato del tribunale. A questo, infatti, ai
sensi dell’art. 504, secondo comma, c.p.p., spetta, ove occorra,
ordinare nel corso del giudizio, di ufficio o ad istanza dell’imputato,
la trasmissione degli atti all’ufficio del p.m., perché proceda nei
modi ordinari.
Dal sistema processuale risulterebbe, quindi, assicurato
all’imputato il diritto di sottrarsi al giudizio direttissimo, se
promosso fuori dei casi indicati. Non sarebbe, invece, disciplinata a
favore di lui, la possibilità, che egli stesso richieda il giudizio
secondo il procedimento direttissimo. Ma la “mancata previsione di tale
diritto dell’imputato”, ha precisato l’Avvocatura, non avrebbe
rilevanza ai sensi dell’art. 24, secondo comma, della Costituzione,
risultando adeguatamente garantita la difesa.
1. – Il tribunale di Torino, investito del giudizio col rito
direttissimo a carico di due persone arrestate in flagranza di tentato
furto aggravato, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo
comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, la questione di
legittimità dell’art. 502, primo comma, del codice di procedura
penale, osservando che detta norma, senza fissare alcun criterio o
punto di riferimento obiettivo, attribuisce al pubblico ministero ampia
discrezionalità in merito alla valutazione dei requisiti di
legittimazione del giudizio direttissimo, circa la flagranza del reato
e la non necessità di speciali indagini. A parità di condizioni di
fatto – è detto nell’ordinanza – l’apprezzamento del p.m.
costituirebbe l’unico metro di scelta del procedimento: risulterebbero
così violati, da un canto, il principio costituzionale di uguaglianza,
per la possibilità che si verifichi disparità di trattamento fra
diversi imputati e, d’altro canto, il diritto di difesa, per il fatto
che nessun potere di contrastare la decisione del p.m. è attribuito
all’imputato, cui è precluso sia di richiedere l’adozione del
procedimento direttissimo a proprio carico, ove abbia interesse ad un
immediato accertamento della verità, sia di reclamare contro la
presentazione al giudizio suddetto, nel caso ritenga che il
dibattimento, senza preventiva istruttoria, possa risultare a lui
pregiudizievole.
2. – Le questioni non sono fondate.
L’art. 502, primo comma, c.p.p., nella parte in cui attribuisce al
p.m. la potestà discrezionale di adire il tribunale, nei casi
indicati, per il giudizio direttissimo a carico dell’imputato in istato
di arresto, non diverge dalle linee fondamentali del sistema positivo.
Nella detta norma ha espressione, infatti, il principio che,
riconoscendo al p.m. la titolarità dell’azione penale in ordine ai
reati di competenza del tribunale, gli conferisce la necessaria
legittimazione a promuovere il procedimento penale, nei modi che egli
ritenga rispondenti alla legge ed agli interessi della giustizia. E non
è dubbio che la scelta circa le modalità di esercizio dell’azione
penale rientri nel potere istituzionale dell’organo requirente e ne
determini l’ambito di discrezionalità, in necessaria correlazione,
peraltro, col dovere di osservare la legge, in riferimento alle
condizioni che questa specificamente stabilisca, nonché al principio
generale della congruenza dello strumento processuale prescelto,
rispetto al fine pratico della persecuzione penale. E all’osservanza
della legge da parte del p.m. è preordinato il sindacato del giudice
di cui alle osservazioni che seguono.
Va rilevato, inoltre, che la stessa discrezionalità inerente
all’esercizio del potere-dovere di richiedere il giudizio direttissimo
è preveduta nella recente legge 7 novembre 1969, n. 780, la quale,
nell’apportare modificazioni all’art. 389 del codice di procedura
penale, concernente i casi in cui si deve procedere con istruzione
sommaria, fa salva appunto la possibilità che, ad iniziativa del p.m.,
si instauri il giudizio predetto.
Alla stregua di tali considerazioni non può ritenersi che sussista
la asserita violazione dell’art. 3 della Costituzione, in riferimento
all’eventualità che soggetti diversi possano subire, in linea di
fatto, diseguale trattamento.
3. – E nemmeno è fondata la questione in riferimento alla garanzia
del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.).
Come è noto, questa Corte, pronunziando con sentenza n. 117 del
1968 la incostituzionalità dell’art. 389, terzo comma, del codice di
procedura penale, nel testo anteriore alla riforma introdotta con la
sopra ricordata legge 7 novembre 1969, n. 780, ebbe ad affermarne il
contrasto con l’art. 25, primo comma, Cost., nella parte in cui
lasciava lo stesso p.m. arbitro della scelta del rito istruttorio, a
seguito di ritenuta evidenza della prova, con la conseguenza che ne
potesse derivare compressione delle competenze del giudice istruttore.
Analoga decisione (sent. n. 40 del 1971) fu adottata altresì
nell’ipotesi prevista dal secondo comma dello stesso art. 389, nella
parte in cui rimetteva all’apprezzamento insindacabile del procuratore
della Repubblica la necessità di ulteriori atti istruttori nel caso di
confessione dell’imputato.
Infine, con altra sentenza n. 123 del 1971, riguardante la
disciplina dell’istruttoria suppletiva (art. 370 c.p.p.), è stato
riaffermato che le iniziative del p.m. devono ritenersi, nel sistema
processuale penale, normalmente soggette al controllo del giudice
competente in ordine ai fatti contestati.
Da tali principi non si discosta la disciplina del giudizio
direttissimo, per il fatto che all’organo requirente, come sopra
accennato, sono affidate funzioni connesse alla titolarità dell’azione
penale.
L’esercizio del potere di iniziativa ai fini della instaurazione
del rapporto processuale secondo il rito direttissimo non è, per vero,
sottratto alla cognizione del giudice, al quale risulta in definitiva
rimessa, a garanzia dell’interesse dell’imputato al giusto
procedimento, la decisione circa la necessità che il procedimento
stesso venga svolto col rito ordinario, in sostituzione di quello
direttissimo. Ai sensi dell’art. 504, secondo comma, c.p.p., spetta al
tribunale verificare la ammissibilità, nella fattispecie, del rito
direttissimo, e se il giudizio risulta promosso fuori delle circostanze
prevedute dall’art. 502, disporre che gli atti siano trasmessi al p.m.,
perché promuova il giudizio nelle forme ordinarie.
Dopo la chiusura del dibattimento, inoltre, allo stesso giudice è
data potestà di ordinare che si proceda con istruzione formale, quando
l’accertamento dei fatti contestati ecceda dai limiti consentiti alle
indagini dibattimentali (art. 504, primo comma).
Ne deriva che, nel sistema sopra delineato, l’esercizio del diritto
di difesa (nei limiti compatibili con le particolari caratteristiche
del procedimento in esame), risulta assicurato. E ciò anche perché
non costituisce menomazione dell’esercizio della difesa l’esclusione
della fase istruttoria, legittimamente pretermessa nel giudizio
direttissimo come in altri procedimenti penali (sentenza n. 119 del
1965).
4. – E nemmeno può ravvisarsi violazione dell’art. 24, secondo
comma, sotto il profilo che nella disciplina vigente non è consentito
all’imputato chiedere la sua presentazione immediata al tribunale.
Tale disciplina appare, infatti, razionale e coerente col sistema
del codice di procedura penale in vigore che appunto al p.m., titolare
dell’azione penale, riserva l’iniziativa del procedimento, ai sensi
dell’art. 112 della Costituzione, e la scelta, salvi i controlli
giurisdizionali, di quelle modalità di esercizio dell’azione medesima
che si palesino congrue nei singoli casi.
Al soggetto passivo dell’azione penale non è riconosciuto per
contro analogo potere, ma gli sono assicurati i mezzi perché
l’accertamento penale sia svolto con l’osservanza della legge e nel
rispetto del diritto di difesa.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 502, primo comma, del codice di procedura penale, sollevate,
con l’ordinanza del tribunale di Torino di cui in epigrafe, in
riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1971.
GIUSEPPE CHIARELLI – MICHELE FRAGALI
– COSTANTINO MORTATI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ERCOLE ROCCHETTI – ENZO
CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE – PAOLO ROSSI.