Sentenza N. 217 del 1972
Corte Costituzionale
Data generale
30/12/1972
Data deposito/pubblicazione
30/12/1972
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/12/1972
GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO
PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv.
ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI – Avv. LEONETTO AMADEI – Prof. GIULIO GIONFRIDA, Giudici,
comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 27 agosto
1970 dal tribunale di Orvieto nel procedimento penale a carico di
Angelino Luigi, iscritta al n. 326 del registro ordinanze 1970 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 299 del 25
novembre 1970.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 novembre 1972 il Giudice
relatore Leonetto Amadei;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Nel corso del procedimento penale a carico del cancelliere del
tribunale Luigi Angelino, imputato, tra l’altro, del reato previsto
dagli artt. 490, 476 e 61, n. 2, c.p. e del reato previsto dagli artt.
476 e 61, n. 2, c.p., commessi in data anteriore al 7 gennaio 1970, il
tribunale di Orvieto ha sollevato d’ufficio, con ordinanza 27 agosto
1970, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 81, cpv.,
del codice penale, nella parte in cui limita la concessione del
beneficio della continuazione a più violazioni della “stessa
disposizione di legge”, in relazione all’art. 3 della Costituzione.
È da rilevare che il rinvio a giudizio dell’Angelino era stato
determinato dal fatto che, nel procedimento a suo carico, sarebbe
emerso avere egli, nella sua qualità di cancelliere del tribunale di
Orvieto e nell’esercizio delle sue funzioni:
a) occultato, per assicurarsi l’impunità da altro reato, um
decreto di trasferimento di un bene, acquistato da terzo nel corso di
una procedura fallimentare, emesso dal giudice delegato di quel
tribunale;
b) alterato, mediante abrasione, al n. 128 del registro “repertorio
atti soggetti a registrazione”, anno 1969, l’annotazione corrispondente
ad un immobile, facendovi figurare la registrazione di una sentenza
civile riguardante altro procedimento.
Il tribunale ha ritenuto che la violazione dell’art. 3 della
Costituzione sia, nel caso in esame, da riferirsi alla interpretazione
data all’art. 81, cpv., del codice penale dalla Corte di cassazione, in
forza della quale l’applicazione del beneficio viene ristretta “alla
violazione della stessa norma incriminatrice, comprensiva delle norme
generali e speciali, che aggravano o attenuano il reato in essa
contemplato, ovvero di quelle che lo degradano da consumato in
tentato”.
Tale interpretazione, introdurrebbe, a parere del tribunale di
Orvieto, una disparità di trattamento, fondata su motivi formali e,
pertanto, arbitraria, in danno di chi abbia commesso una pluralità di
reati identici per il bene offeso e diversi soltanto per modalità non
rilevanti.
Tale arbitrarietà emergerebbe, in modo particolare, in ordine ai
reati di falso, ove la “pluralità delle figure criminose poggia solo
su criteri casistici seguiti dal legislatore e non già su un
sostanziale diverso apprezzamento delle fattispecie considerate,
tantoché i reati previsti dagli artt. 476 e 490 c.p. vengono puniti
con la medesima pena edittale”.
Correlativa sarebbe, pertanto, la violazione dell’art. 3 della
Costituzione, nel significato messo in luce dalle decisioni della Corte
costituzionale, che impone al legislatore di trattare in modo uniforme
situazioni che non presentino diversità obiettive atte a giustificare
una disparità di disciplina.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio con
atto depositato il 24 novembre 1970, nel quale chiede che la questione
sia dichiarata infondata.
Per l’Avvocatura dello Stato la fattispecie inquadrata
dall’ordinanza del tribunale di Orvieto e oggetto del giudizio di
legittimità costituzionale, integrerebbe una situazione obiettiva
diversa e tale, quindi, da giustificare una diversità di trattamento
e, di conseguenza, l’inapplicabilità dell’art. 81, cpv., del codice
penale. In sostanza, il falso materiale e il falso per soppressione
sarebbero ontologicamente diversi, sia in relazione alla condotta, sia
in relazione all’evento, che è quello di fare apparire come vero il
falso nel primo caso e impedire l’accertamento del vero nel secondo.
La questione sottoposta all’esame della Corte, con l’ordinanza del
27 agosto 1970 del tribunale di Orvieto, è se l’articolo 81, cpv., del
codice penale, nella parte in cui limita il beneficio della
continuazione “a più violazioni della stessa disposizione di legge”,
contrasti con l’art. 3 della Costituzione.
Detta ordinanza trae motivo dall’applicazione che la Cassazione fa,
nel caso di concorso di reati di falso materiale e falso per
soppressione, della interpretazione data alla formula usata dal
legislatore “più violazioni della stessa disposizione di legge”, come
“più violazioni della stessa norma incriminatrice comprensiva delle
norme generali e speciali che aggravano o attenuano il reato in essa
contemplato, ovvero da quello di consumato in tentato”.
La questione non è fondata.
1. – Il codice vigente ha unificato nella determinazione degli
effetti giuridici le due forme di concorso di reato: formale (unicità
di azione o d’omissione e pluralità di violazioni simultanee di legge
penale) e materiale (pluralità di azioni o di omissioni e pluralità
di violazioni di legge penale), applicando per entrambe il metodo del
cumulo materiale delle pene.
È noto che la figura del reato continuato si impernia sui seguenti
elementi costitutivi:
a) più azioni od omissioni esecutive. Il che tuttavia non esclude,
in base alla interpretazione giurisprudenziale fatta propria da questa
Corte (sentenza n. 9 del 1966 e ordinanza n. 12 del 1969), la
ipotizzazione del reato continuato anche se le violazioni siano
effettuate con una sola azione od omissione (concorso formale);
b) unicità del disegno criminoso;
c) più violazioni della stessa disposizione di legge.
2. – La questione di legittimità costituzionale sulla quale la
Corte è chiamata a decidere, investe quest’ultimo elemento ed è così
rappresentato: il riferimento alla stessa disposizione o norma di legge
fa sì che il concetto di continuazione improntato al favor rei, viene
disatteso nei casi in cui si hanno figure distinte di reati che pur
presentano elementi comuni e la cui separata considerazione non
corrisponderebbe ad un sostanziale diverso apprezzamento della
fattispecie.
Con la formula “più violazioni della stessa disposizione di legge”
non sarebbe pertanto consentita una interpretazione diversa di quella
data dalla Corte di cassazione, mentre si sarebbe dovuto comprendere
nel reato continuato anche una “pluralità di violazioni di diverse
disposizioni di legge” purché riguardanti fatti aventi caratteri
fondamentali comuni.
Gli esposti argomenti non valgono ad evidenziare, sul piano del
diritto vigente, la denunciata violazione dell’art. 3 della
Costituzione.
Premesso che non può essere considerata restrittiva della
espressione usata dal legislatore, la giurisprudenza della Corte di
cassazione quando intende la formula “medesima disposizione di legge”
come “stessa norma incriminatrice” comprensiva di tutte le altre norme
che rispetto ad essa hanno carattere integrativo e complementare, giova
ribadire come la stessa interpretazione giurisprudenziale abbia esteso
la portata dell’art. 81, cpv., c.p. stabilendo che, ove sussista la
identica unità di disegno criminoso, il trattamento del reato
continuato debba comprendere anche la ipotesi in cui sia stata una sola
azione a produrre più violazioni della stessa norma, poiché la legge
parla di più azioni od omissioni non nel senso che debbano essere
plurime, ma in quello che possono essere anche più di una. Potrà, se
mai, il legislatore nella sua discrezionalità e valutazione politica,
allargare la sfera di applicazione dell’art. 81, cpv., c.p., ma, de
iure condito, è da escludersi che detto capoverso contrasti con la
norma costituzionale che si assume vulnerata.
3. – In tema di valutazione del principio di eguaglianza sancito
dall’art. 3 Cost., più volte questa Corte si è espressa nel senso che
detto articolo mira ad impedire che a danno dei cittadini siano dalle
leggi disposte discriminazioni arbitrarie, senza che la disposizione
obblighi il legislatore a fissare per tutti una identica disciplina;
per cui gli è consentito di adeguare le norme giuridiche ai vari
aspetti della vita sociale e, in conseguenza, di dettare norme diverse
per situazioni diverse.
Tale principio rientra nel piano di una inderogabile esigenza di
logica legislativa. Un ordinamento che non distingua situazioni da
situazioni e tutte le consideri allo stesso modo non è nemmeno
pensabile: finirebbe col non disporre regola alcuna. L’impostazione è
valida non soltanto per il principio di uguaglianza in genere, ma per
ogni norma in cui il principio di uguaglianza venga in questione, anche
in una sua applicazione particolare (sentenza n. 64 del 1961).
Il fatto che il legislatore abbia inteso dare al concorso di reati
un diverso aspetto giuridico agli effetti della pena, distinguendo
quando si deve far luogo al criterio generale del cumulo materiale e
quando si deve far luogo al previsto criterio particolare del cumulo
giuridico, non pone in essere discriminazioni ai sensi dell’art. 3
della Costituzione in quanto l’istituto trova applicazione nei riguardi
di tutti coloro che si trovino nella situazione o condizione prevista.
4. – Nel caso del falso, che è quello in cui il giudice a quo è
chiamato a decidere e che l’ordinanza segnala come caso in cui emerge
la pretesa illegittimità della norma, esiste una obiettiva e
ontologica differenza fra il falso materiale e quello per soppressione.
Trattasi di reati che presentano una identità del bene giuridico leso
(fede pubblica), ma una diversità di elementi sostanziali che ne
variano il contenuto specifico.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 81, capoverso, del codice penale, sollevata con l’ordinanza
in epigrafe, in riferimento all’art. 3 della Costituzione. Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 18 dicembre 1972.
COSTANTTNO MORTATI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTTSTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI –
LEONETTO AMADEI – GIULIO GIONFRIDA.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere