Sentenza N. 219 del 1974
Corte Costituzionale
Data generale
09/07/1974
Data deposito/pubblicazione
09/07/1974
Data dell'udienza in cui è stato assunto
27/06/1974
Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Avv. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Dott. LUIGI
OGGIONI – Avv. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VEZIO CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO
ROSSI – Avv. LEONETTO AMADEI – Dott. GIULIO GIONFRIDA Prof. EDOARDO
VOLTERRA – Prof. GUIDO ASTUTI, Giudici,
2 agosto 1967, n. 799 (Modifiche al testo unico delle norme per la
protezione della selvaggina e per l’esercizio della caccia, approvato
con regio decreto 5 giugno 1939, n. 1016, e successive modifiche),
promosso con ordinanza emessa il 4 agosto 1972 dal pretore di Firenze
nel procedimento civile vertente tra Peracci Francesco e Berti
Alessandro, iscritta al n. 370 del registro ordinanze 1972 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 334 del 27 dicembre 1972.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 12 giugno 1974 il Giudice relatore
Giovanni Battista Benedetti;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Con ordinanza 4 agosto 1972 il pretore di Firenze ha promosso un
secondo giudizio incidentale di legittimità costituzionale nei
riguardi dell’art. 8 della legge 2 agosto 1967, n. 799, già impugnato
con precedente ordinanza 24 marzo 1970. Anche la nuova ordinanza è
stata pronunciata nel procedimento vertente tra Peracci Francesco e
Berti Alessandro avente ad oggetto l’accertamento della validità di un
contratto stipulato il 27 giugno 1967 con il quale il primo acquistava
per cinque anni il diritto di cacciare in fondo chiuso di proprietà
del secondo, diritto che non fu possibile poi esercitare a causa del
divieto di caccia in fondo chiuso comminato dalla norma impugnata.
Il pretore – dopo aver ricordato che la Corte nell’ordinanza n.
153/1971 ha limitato l’esame della questione unicamente in riferimento
all’art. 44 Cost., essendo stati genericamente formulati gli altri
motivi di incostituzionalità – osserva che il divieto di caccia
introdotto dalla norma s’appalesa in contrasto a) con l’art. 44 Cost.,
giacché esso espone i raccolti ai danni arrecati dalla selvaggina e
perciò si risolve in un danno per la proprietà; b) con gli artt. 1,
4, 35, 44, 46 e 47 Cost., in quanto mortifica fortemente l’attività
produttiva diretta alla creazione e gestione di allevamenti di animali
per uso venatorio o per finalità commerciale; c) con l’art. 42 Cost.
perché, dovendosi gli animali considerare di proprietà del
proprietario del fondo, il divieto di caccia si risolve
nell’annullamento del diritto di proprietà; d) con gli artt. 42 e 43
Cost. perché l’intervento dei comitati provinciali di caccia per la
cattura degli animali esistenti nei fondi chiusi realizza una
espropriazione mobiliare su beni fungibili non prevista dalla
Costituzione e per di più senza indennizzo per il proprietario
espropriato.
Nel giudizio dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’avvocato
generale dello Stato, con atto depositato in cancelleria il 5 dicembre
1972. Si è anche costituita, ma fuori termine, la parte Peracci
Francesco con deposito di memoria difensiva in data 4 febbraio 1974.
Rileva preliminarmente l’Avvocatura l’inammissibilità delle
questioni sollevate per irrilevanza delle stesse rispetto al giudizio
sottoposto all’esame del pretore. Questi, invero, è chiamato a
decidere sulla validità di una convenzione intervenuta il 26 giugno
1967, avente ad oggetto la cessione di diritti di caccia per il
quinquennio 1967-1971. Una eventuale pronuncia d’incostituzionalità
della norma impugnata renderebbe questa non più applicabile dal giorno
successivo alla pronuncia, ma non spiegherebbe alcun effetto nel
giudizio a quo nel quale il giudice non è chiamato ad applicare l’art.
8 della legge n. 799 del 1967, ma deve solo tenerne conto per giudicare
sulla domanda dell’attore il quale pretende la restituzione della somma
anticipata a titolo di corrispettivo della cessione di diritti di
caccia non potuti esercitare a seguito del divieto introdotto dalla
norma.
Passando al merito l’Avvocatura osserva che il divieto di caccia
introdotto dalla norma denunciata anche a carico del proprietario del
fondo chiuso non contrasta con l’art. 44 che tutela la piccola e media
proprietà.
Questo precetto ha un carattere chiaramente programmatico che
assegna al legislatore l’indirizzo di non emanar leggi che tendano a
deprimere o danneggiare la piccola e media proprietà. L’art. 8 si
applica indistintamente a tutte le proprietà, quale ne sia la
dimensione; il suo contenuto non incide sul diritto di proprietà
bensì sul diritto di caccia del proprietario dando ad esso la stessa
regolamentazione del diritto di caccia degli altri cacciatori non
proprietari terrieri. D’altra parte se il proprietario ritiene che il
divieto danneggi le sue colture egli potrà non esercitare lo ius
prohibendi ovvero chiedere l’intervento del comitato provinciale per
far catturare gli animali che arrecano danno.
Neppure fondata è la seconda questione in quanto la creazione e
gestione di allevamenti di selvaggina non sono affatto preclusi dalla
norma denunciata, ma solo subordinati al rilascio di apposite
concessioni del resto richieste anche dalla precedente normativa.
Infondato è anche il terzo motivo di incostituzionalità che
denuncia la lesione del diritto del proprietario sugli animali
rinchiusi nel suo fondo. A parte il fatto che la selvaggina è da
considerarsi res nullius l’esclusione operata dalla legge riguarderebbe
una intera categoria di beni: spetterà quindi alla giurisprudenza
stabilire quale sia il modo d’acquisto della proprietà degli animali
selvatici ancora ammissibile dopo le innovazioni legislative introdotte
nel 1967: certo è che dette innovazioni non hanno annullato il diritto
di proprietà sulla selvaggina mansuefatta o catturata poiché lo
stesso art. 8 ammette l’allevamento a scopo ornamentale della
selvaggina.
Ricorda, infine, l’Avvocatura che l’intervento del comitato della
caccia può avvenire solo “su richiesta dei proprietari interessati”
che vogliano far catturare la selvaggina esistente nel fondo il che sta
a significare che, non essendovi stata già cattura da parte del
proprietario, non è a parlarsi di acquisto di proprietà per via di
occupazione.
Conclude l’Avvocatura chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o comunque infondata.
1. – L’Avvocatura dello Stato ha preliminarmente eccepito
l’inammissibilità per difetto di rilevanza della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 2 agosto 1967, n.
799 – che sancisce il divieto di caccia e uccellagione in fondo chiuso
anche a carico del proprietario – , osservando che il pretore, chiamato
a decidere della validità di un contratto stipulato tra le parti nel
1967 e scaduto nel 1971, non deve fare applicazione della norma
impugnata al rapporto controverso, ma solo tener conto del divieto di
caccia in fondo chiuso dalla stessa introdotto per statuire sulla
domanda dell’attore intesa ad ottenere la restituzione della somma
anticipata a titolo di corrispettivo della cessione di diritti di
caccia non potuti esercitare a causa del divieto.
L’eccezione non è fondata. Risulta chiaramente dagli atti di causa
che la convenzione 27 giugno 1967 avente ad oggetto la cessione di
diritti di caccia, rimasta in sospeso a seguito della proibizione di
legge, riprenderà efficacia in caso di accoglimento della sollevata
eccezione di incostituzionalità con uno spostamento temporale della
sua attuazione. L’accordo delle parti al riguardo emerge da una
specifica offerta in tal senso avanzata dal convenuto (comparsa del 15
ottobre 1969) espressamente accettata dall’attore (comparsa di replica
del 5 marzo 1970) e lo stesso pretore, del resto, non ha mancato di
osservare in proposito nella sua ordinanza che il mantenimento della
validità della convenzione resta “subordinato alla verifica della
legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 2 agosto 1967, n.
799”.
È quindi fuor di dubbio la persistente rilevanza della proposta
questione nel giudizio pendente dinanzi al giudice a quo.
2. – Prima di scendere all’esame delle varie censure di
incostituzionalità è d’uopo ricordare alcuni principi enunciati da
questa Corte in tema di diritto di caccia. È stato affermato che
questo diritto non ha carattere patrimoniale, ma costituisce un aspetto
del diritto di libertà e che la cosiddetta libertà di cacciare non è
costituzionalmente garantita, ma è una facoltà soggetta a disciplina
pubblicistica la quale si articola in un complesso di limiti e divieti
volti a tutelare l’incolumità personale, a proteggere la fauna e a
garantire le colture e i prodotti dei fondi (sent. 50 del 1967; ord.
153 del 1971 e sent. 93 del 1973).
Ora è appunto in questa normativa che va inquadrata la
disposizione contenuta nell’art. 8 della legge n. 799 del 1967 la quale
sancisce il divieto di caccia ed uccellagione nei fondi chiusi anche
nei riguardi del proprietario del fondo. Con tale divieto, che
costituisce una limitazione della facoltà di esercitare la caccia, il
legislatore ha voluto evitare che il proprietario potesse di fatto
costituire una riserva nel proprio fondo chiuso senza assumerne gli
obblighi e gli oneri relativi. Si è peraltro in tal modo realizzata
una equiparazione di trattamento tra cacciatori proprietari e non
proprietari per quanto attiene l’esercizio dell’attività venatoria.
3. – La prima censura mossa alla norma in esame è che il divieto
pone i raccolti alla mercé della selvaggina e si risolve quindi in un
danno per la proprietà, donde il contrasto con l’art. 44 della
Costituzione.
L’eccezione non è fondata. Il legislatore non ha mancato di
considerare tale eventualità e, all’uopo, nello stesso articolo, ha
disposto che il Comitato provinciale della caccia competente per
territorio, su richiesta dei proprietari interessati, effettua le
catture di selvaggina necessarie per la protezione delle colture.
Esiste dunque un puntuale precetto per impedire i danni che possono
derivare da un notevole addensamento di animali selvatici in fondi
chiusi e prive di rilievo sono le lagnanze formulate in ordine alla
tempestività ed adeguatezza degli interventi dei Comitati, giacché
esse non riguardano il contenuto e l’idoneità della norma allo scopo,
ma denunciano carenze della sua applicazione.
Del pari infondata è la seconda eccezione secondo cui la
disposizione impugnata contrasterebbe con gli artt. 1, 4, 35, 44, 46 e
47 Cost. in quanto inciderebbe notevolmente sull’attività produttiva
diretta alla creazione e gestione di allevamenti di animali per uso
venatorio e per finalità commerciali. Gli ultimi due commi dell’art. 8
prevedono, infatti, espressamente le facoltà in favore dei proprietari
di fondi chiusi di costituirli in riserva privata o allestirvi
allevamenti di selvaggina con le modalità e alle condizioni stabilite
dalla legge.
Altri motivi di incostituzionalità sono stati, in fine, formulati
in riferimento agli artt. 42 e 43 della Costituzione. Muovendo dalla
premessa che gli animali selvatici da piede in un fondo chiuso sono da
considerarsi di proprietà del titolare del fondo il pretore ritiene
che il divieto di caccia comporterebbe l’annullamento di tale diritto,
mentre la cattura degli animali da parte dei Comitati provinciali della
caccia realizzerebbe una forma di espropriazione senza indennizzo.
Anche queste censure non sono fondate. La Corte ha già avuto
occasione di affermare che il legislatore può regolare in modo
particolare il contenuto del diritto di proprietà quando ciò sia
fatto per un’intera categoria di beni e per fini di interesse generale
(sent. 55 del 1968). Queste condizioni ricorrono entrambe nel caso in
esame e perciò non può parlarsi di espropriazione senza indennizzo.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 8 della legge 2 agosto 1967, n. 799, contenente “Modifiche al
testo unico delle norme per la protezione della selvaggina e per
l’esercizio della caccia, approvato con regio decreto 5 giugno 1939, n.
1016 e successive modifiche”, sollevata, con l’ordinanza indicata in
epigrafe, dal pretore di Firenze in riferimento agli artt. 1, 4, 35,
42, 43, 44, 46 e 47 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 giugno 1974.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – GIUSEPPE
VERZÌ – LUIGI OGGIONI – ANGELO DE
MARCO – ERCOLE ROCCHETTI – ENZO
CAPALOZZA – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE – PAOLO ROSSI – LEONETTO AMADEI
– GIULIO GIONFRIDA EDOARDO VOLTERRA –
GUIDO ASTUTI.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere