Sentenza N. 22 del 1965
Corte Costituzionale
Data generale
09/04/1965
Data deposito/pubblicazione
09/04/1965
Data dell'udienza in cui è stato assunto
05/04/1965
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO – Prof. ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER
– Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO
MANCA – Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE
FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott.
GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO
PAOLO BONIFACIO, Giudici,
primo, secondo, terzo e quinto comma, dell’art. 10, primo e secondo
comma, dell’art. 12, secondo comma, e dell’art. 16, primo comma, della
legge 18 aprile 1962, n. 167, promossi con tre ordinanze emesse il 27
aprile 1964 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – adunanza
plenaria – sui ricorsi riuniti proposti da Hilfiker Alfredo ed altri,
dalla Società A. Giaione ed altri e dalla Società per azioni S.
Anselmo ed altri, contro il Ministero dei lavori pubblici ed il Comune
di Torino, iscritte ai un. 165. 166 e 167 del Registro ordinanze 1964 e
pubblicate, la prima nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 269
del 31 ottobre 1964, le altre nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, n. 282 del 14 novembre 1964.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dei
lavori pubblici, del Comune di Torino, di Hilfiker Alfredo e Roberto,
Rehsteiner Rodolfo e Anita, Ruedi Erminia, Audi – Grivetta Maria
Maddalena e Lucia, Chicco Eugenio ed Ettore, Società immobiliare
“Cincinnato”, Società A. Giaione, Ospedale Maggiore di S. Giovanni
Battista e della città di Torino, Beccuti Mario, Oreste ed Emilio,
Pastore Luigi e Domenico, Società per azioni S. Anselmo, Impresa
costruzioni edili Rosazza, Dentis Barbara e Società Immobiliare ligure
piemontese;
udita nell’udienza pubblica del 3 marzo 1965 la relazione del
Giudice Antonio Manca;
uditi gli avvocati Enrico Biamonti, Enrico Allorio, Antonio
Sorrentino, Enrico Zola, Romolo Contaldi, Jacopo Durandi, Luigi
Zegretti, Adriano Pallottino, Michele Bianco, Gaetano Zini Lamberti e
Vincenzo Traballesi, per le parti private, gli avvocati Guido Astuti,
Mario Comba e Giuseppe Guarino, per il Comune di Torino, ed i sostituti
avvocati generali dello Stato Luciano Tracanna e Gastone Dallari, per
il Presidente del Consiglio dei Ministri e per il Ministero dei lavori
pubblici.
Con ricorsi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, alcuni
proprietari di zone di terreno da espropriare per la costruzione di
case economiche e popolari, in applicazione della legge 18 aprile 1962,
n. 167, hanno impugnato la deliberazione del Consiglio comunale di
Torino del 9 gennaio 1963, concernente la formazione del piano di
esproprio e il decreto di approvazione del Ministero dei lavori
pubblici in data 15 maggio 1963.
Il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, con ordinanza del 27
aprile 1964 (n. 165 del Registro ordinanze), riuniti i vari ricorsi,
accogliendo alcune delle eccezioni prospettate dalle parti, ha
sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9,
primo, secondo, terzo e quinto comma, dell’art. 10, primo e secondo
comma, dell’art. 12, secondo comma, e dell’art. 16, primo comma, della
predetta legge, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 42, terzo
comma, 23 e 53, primo comma, della Costituzione.
Per quanto attiene alla rilevanza, in relazione all’art. 12 della
predetta legge specificamente impugnata dalle parti private, ha
premesso che l’oggetto della controversia non concerneva la violazione
di un diritto soggettivo circa la misura dell’indennità di
espropriazione, bensì piuttosto i criteri che il legislatore aveva
adottato per la determinazione dell’indennità stessa.
Ha poi osservato che, per dimostrare nella specie l’irrilevanza,
per la questione di costituzionalità dell’art. 12 della citata legge
n. 167 del 1962 (questione che era stata sollevata da tutti i
ricorrenti), non gioverebbe la considerazione, addotta in contrario,
che i provvedimenti impugnati, in sede amministrativa, non sarebbero
stati emessi in applicazione del predetto art. 12. Fra le disposizioni
di questo articolo, infatti, concernente in particolare la misura
dell’indennità di espropriazione e le altre disposizioni della legge,
poste a base dei provvedimenti impugnati (cioè quelle concernenti
l’obbligo della formazione dei piani e i vincoli imposti ai
proprietari, art. 1, art. 9, primo, secondo e quinto comma, e art. 10,
primo e secondo comma), sussisterebbe un rapporto di inscindibile
connessione, dal quale conseguirebbe che la questione di
costituzionalità non si esaurirebbe nella disposizione riguardante la
misura dell’indennizzo, ma si estenderebbe anche alle altre
disposizioni di carattere preparatorio e strumentale, quale la
formazione e approvazione dei piani. Rapporto che deriverebbe
specialmente dal carattere particolare della legge e dalle finalità
che ne avrebbero determinato l’emananazione.
Quelle cioè di agevolare la costruzione di alloggi a carattere
economico-popolare non soltanto con l’inclusione nei piani di
espropriazione delle zone di terreno ritenute idonee a tale scopo, ma
anche e specialmente di operare, con un particolare congegno
legislativo sul costo delle dette zone espropriandole con un’indennità
determinata e immutabile per tutto il tempo di efficacia dei piani; ed
impedendo inoltre la speculazione circa le aree fabbricabili: finalità
per conseguire le quali si sarebbe ritenuto più idoneo il sistema
adottato con l’art. 12, di riferire cioè l’indennità ad un
determinato momento, in una misura variabile entro certi limiti fra i
vari Comuni.
Senonché a parte ciò, il Consiglio di Stato ha osservato che il
rapporto di connessione ora accennato sussisterebbe, anche in quanto i
criteri adottati per la determinazione dell’indennità avrebbero
influito sia sull’impostazione del programma, sul l’estensione del
medesimo in relazione al costo finanziario e alla conseguente entità
della spesa a carico del Comune per il pagamento delle indennità di
espropriazione, e per le altre spese inerenti all’attuazione dei piani,
compresi gli interessi passivi.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto quindi la rilevanza delle
questioni di legittimità costituzionale non soltanto dell’art. 12, ma
altresì delle altre disposizioni in precedenza indicate.
Parimenti ha ritenuto rilevante la questione di legittimità
concernente l’art. 16, primo comma, in relazione specialmente agli
artt. 10 e 12, in quanto l’art. 16 non consentirebbe ai proprietari di
zone già destinate a verde agricolo di costruire direttamente gli
alloggi; diritto riconosciuto invece ai proprietari di zone già
destinate, nel piano regolatore, all’edilizia residenziale.
Per quanto attiene alla non manifesta infondatezza, nell’ordinanza
si osserva che, dall’applicazione delle disposizioni ora denunciate,
deriverebbero i seguenti effetti:
1) l’indennità è stabilita tenendo conto del valore venale che
l’area da espropriare aveva due anni prima della deliberazione del
piano, e, quindi, qualora l’espropriazione si effettuasse al termine
dell’efficacia del piano stesso (dieci anni, salva la proroga di due
anni) sarebbe determinata in misura pari al valore dell’area
quattordici anni prima dell’espropriazione.
Codesto criterio, si dice, potrebbe condurre ad una liquidazione
dell’indennizzo in misura pressoché irrisoria, se il potere di
acquisto della moneta subisse una progressiva diminuzione.
2) L’accennato criterio di determinazione dell’indennità potrebbe
altresì determinare in particolare una disparità di trattamento
rispetto ai vari proprietari espropriandi, a seconda del momento in cui
si effettuassero le espropriazioni, tenuto conto del diverso valore
della moneta, e potrebbe dar luogo a favore degli enti e dei privati, a
vantaggio dei quali si effettuasse l’esproprio, a realizzazione di
utili a danno dei proprietari, consistenti nella differenza fra il
valore determinato in base all’art. 12 e quello effettivo al momento
del trapasso della proprietà in relazione al diminuito valore
monetario.
Circa il primo aspetto, nell’ordinanza si richiamano le sentenze di
questa Corte nelle quali si è precisato il carattere che deve avere
l’indennizzo, per rispondere alle esigenze costituzionali.
Si ricorda specialmente la sentenza n. 91 del 1963, per desumerne
il principio che non sarebbe conforme alla norma costituzionale la
determinazione dell’indennità, quando esista una dissociazione fra la
situazione esistente al momento in cui furono o saranno effettuate le
espropriazioni e quello in cui le occupazioni ebbero inizio.
Anzi il Consiglio di Stato trae un’identità, quanto meno
un’analogia, di effetti pratici tra la legge 1 dicembre 1961, n. 1441,
esaminata nella predetta sentenza, e la legge n. 167 ora denunziata.
Analogia che consisterebbe soprattutto nel fatto che le due leggi
presuppongono momenti diversi per il calcolo dell’indennità e per
l’espropriazione, ed entrambe inoltre si riferiscono a espropriazioni
da effettuarsi in tempi successivi con riferimento, per il calcolo
dell’indennità, ad un’epoca precedente. Essendo altresì da rilevare,
si aggiunge, che il legislatore non avrebbe comunque preveduto alcun
mezzo per ovviare alle conseguenze del fenomeno anzidetto.
L’ordinanza conclude quindi su questo punto, osservando essere
dubbio che sotto tale aspetto la proprietà sia tutelata in armonia con
l’art. 42, terzo comma, anche se si ammette che la funzione sociale di
tale diritto importi un sacrificio di portata superiore a quello
imposto dall’espropriazione nei casi ordinari.
Il Consiglio di Stato inoltre ritiene la questione non
manifestamente infondata, anche in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, in sostanza per le seguenti considerazioni:
1) dalla dissociazione fra i due momenti dell’esproprio e del
calcolo dell’indennità deriverebbe che i vari proprietari sarebbero
indennizzati in misura effettiva diversa, in relazione al tempo in cui
si effettuasse l’esproprio. Se si considera poi che le aree oggetto dei
piani non sarebbero suscettibili di utilizzazione in conformità della
loro natura e destinazione, che il danno subito dai proprietari non
sarebbe indennizzabile, mentre resterebbero a carico dei proprietari
stessi gli oneri fiscali; e, che nell’indennizzo non sarebbero compresi
gli eventuali aumenti di valore delle aree, successivi all’emanazione e
approvazione dei piani, ne deriva che i proprietari subirebbero in
misura diversa, in relazione al momento dell’esproprio, il danno
derivante dal sistema;
2) l’accennata diversità di trattamento sussisterebbe anche
relativamente ai proprietari di aree, già destinate non a costruzioni
edilizie di carattere residenziale, bensì destinate a verde agricolo,
poiché, ai primi, e non agli altri, sarebbe consentito, in base
all’art. 16, primo comma, della legge, di costruire direttamente
edifizi economici-popolari: disparità di trattamento che risulterebbe
altresì accentuato in relazione all’art. 12, poiché i predetti
proprietari dovrebbero subire la espropriazione con indennità
commisurata alla qualifica delle zone come verde agricolo: zone che
invece, con la variante dipendente dall’essere tali zone comprese nel
piano, assumerebbero qualità di aree edificatorie.
Nell’ordinanza, infine, si osserva che la questione apparirebbe non
manifestamente infondata anche in riferimento agli artt. 23 e 53, primo
comma, della Costituzione. E ciò sul riflesso che, nel sistema
adottato dalla legge impugnata per la liquidazione dell’indennità,
sarebbe ravvisabile un’imposizione patrimoniale, consistente nella
differenza tra il valore venale effettivo del bene, alla data
dell’esproprio, e l’ammontare dell’indennizzo: imposizione che, da un
lato, sarebbe demandata alla discrezionalità del Comune riguardo alla
scelta delle aree da espropriare e che, dall’altro, graverebbe non già
sulla generalità dei proprietari di aree edificatorie, bensì soltanto
sui proprietari delle aree comprese nei piani, con una disparità di
trattamento non giustificabile, neppure in relazione con l’interesse
pubblico inerente alle finalità della legge. Manifestamente infondata
sarebbe, invece, la questione in riferimento agli artt. 73 e 97 della
Costituzione. Sarebbe inoltre manifestamente infondata la questione
sollevata dalle parti in relazione all’art. 15, secondo comma, della
legge n. 167, ed all’art. 5, n. 5, in riferimento all’art. 81 della
Costituzione, come pure in relazione all’art. 10, in quanto
consentirebbe ai Comuni di procedere all’esproprio a favore di enti o
soggetti privati. Adempiute le formalità relative alla notificazione
ed alle comunicazioni, l’ordinanza è stata pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale, n. 269 del 31 ottobre 1964. In questa sede le parti private
costituite sono rappresentate dagli avvocati Enrico Zola, Fulvio Croce,
Roberto Cravero, Jacopo Durandi, Luigi Zegretti, Romolo Contaldi. Si
sono pure costituiti il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il
Ministero dei lavori pubblici, rappresentati dall’Avvocatura generale
dello Stato; ed il Comune di Torino, rappresentato dagli avvocati Guido
Astuti, Mario Comba, Raoul Rossini e Giuseppe Guarino.
Nelle deduzioni regolarmente depositate il 30 ottobre e il 9 e 19
novembre del 1964, anche le parti private si richiamano ai principi
affermati nella sentenza di questa Corte n. 91 del 1963, e si
riportano, in sostanza, ai motivi ed alle argomentazioni esposte
nell’ordinanza di rimessione, in riferimento ai precetti costituzionali
pure indicati nelle ordinanze stesse; ponendo in luce che non avrebbe
alcun rilievo, per escludere la illegittimità, il fatto che, nel
sistema della legge, sia soltanto un’eventualità la sussistenza di una
diversità fra il valore delle aree al tempo dell’espropriazione e
quello fissato per il calcolo dell’indennità. Eventualità incerta che
darebbe per sé fondamento al dubbio di incostituzionalità, anche se
fossero improbabili (il che si esclude) elementi perturbatori, quali la
progressiva svalutazione monetaria. L’Avvocatura generale dello Stato,
nelle deduzioni depositate il 23 ottobre e il 25 novembre 1964, per
quanto riguarda la rilevanza, dichiara di rimettersi al giudizio della
Corte, pur non tralasciando di notare, al riguardo, la inaccettabilità
dei criteri da cui muove l’ordinanza, in quanto cioè ha riscontrato
una connessione fra l’art. 12 della legge e le altre disposizioni, cui
l’ordinanza si è riferita; connessione sulla quale invece, nel
giudizio di legittimità costituzionale, dovrebbe esclusivamente
decidere questa Corte; e che comunque non sussisterebbe nel caso
concreto. Sarebbe, infatti, da escludere che, anche nel caso di
dichiarazione di illegittimità del secondo comma dell’art. 12, ne
derivasse l’illegittimità delle altre norme (oggetto dei ricorsi
davanti al Consiglio di Stato) relative alla fase amministrativa della
procedura di esproprio e alla formazione dei piani. Un’eventuale
dichiarazione del genere produrrebbe soltanto l’effetto che
l’indennità di espropriazione non potrebbe valutarsi alla stregua del
citato art. 12, bensì, in mancanza di nuove disposizioni, applicando
quelle della legge del 1865, in base al rinvio di cui al primo comma
dell’art. 12 della legge n. 167.
L’Avvocatura dello Stato per rispondere alle osservazioni contenute
nell’ordinanza, si riporta alle finalità particolari di questa legge,
quali risultano dai lavori preparatori e dal complesso delle
disposizioni che ne formano il contenuto, in aderenza al precetto
contenuto nell’art. 47 della Costituzione, quelle cioe:
1) di dare ai Comuni indicati nella legge, mediante la formazione
di piani (con carattere di piano particolareggiato), la possibilità di
reperire un complesso di aree ritenute edificabili, da destinarsi alla
costruzione di alloggi di carattere economico-popolare;
2) di costituire collateralmente un patrimonio comunale di aree
fabbricabili con funzione calmierante sul costo delle aree, e ciò,
comprendendole in un piano urbanistico ed organico per la costruzione
di case del tipo anzidetto, a favore delle categorie disagiate.
E sarebbe, appunto, in relazione alle particolari finalità di
carattere sociale, cui si ispira la legge n. 167, che questa dovrebbe
essere considerata.
Onde la disposizione contenuta nell’art. 12 si inserirebbe
logicamente in tale sistema, rispondendo all’esigenza di contenere
l’incidenza del costo delle aree sulle spese per la costruzione delle
case economiche e popolari. Da ciò l’eliminazione dal computo
dell’indennità di espropriazione dell’incremento di valore inerente
alla programmazione urbanistica, operando quindi in modo che
l’indennità non fosse superiore a quella dovuta, se i beni fossero
stati espropriati in epoca anteriore alla deliberazione dei piani;
principio questo che, in sostanza, non si discosterebbe dal sistema
della legge generale sulle espropriazioni del 25 giugno 1865, n. 2359
(art. 42).
Dovendosi peraltro tener conto del carattere speciale della legge
n. 167, in quanto essa non opererebbe in vista di singole
espropriazioni e in rapporto a singoli tratti di zone, bensì in
riferimento a tutte le espropriazioni considerate, nel loro complesso,
come attuazione dei piani per il periodo di efficacia dei medesimi.
La difesa dello Stato si riporta inoltre ai principi, affermati
nella giurisprudenza di questa Corte, in tema di determinazione
dell’indennizzo, in base ai quali la Corte avrebbe dichiarato non
incompatibili con l’art. 42 della Costituzione le disposizioni di varie
leggi, e specialmente delle leggi 21 ottobre 1950, n. 841, e 18 marzo
1951, n. 333, sulla riforma fondiaria. Circa le quali ultime sarebbe
stato posto in rilievo l’interesse generale inerente alla riforma,
anche questa preordinata ad una riforma di struttura sociale; e, mentre
con le sentenze nn. 60 e 61 del 1957 e con altre successivamente emesse
si sarebbe dichiarata la legittimità costituzionale dei criteri
adottati dal legislatore, nonostante che la determinazione
dell’indennizzo non coincidesse con la data dell’espropriazione.
Per quanto attiene poi al particolare riferimento fatto dal
Consiglio di Stato alla sentenza n. 91 del 1963, la difesa dello Stato
osserva che, in quel caso, si trattava di occupazioni permanenti
effettuate all’inizio della seconda guerra, da oltre un ventennio dalla
data dell’espropriazione, con il pagamento dell’indennità, mentre si
sarebbe verificata di fatto un’imponente svalutazione monetaria. Ed
appunto per ciò questa Corte avrebbe ritenuto l’illegittimità della
legge n. 1441 del 1961, data la profonda divergenza fra il valore del
bene al tempo dell’occupazione e quello alla data dell’esproprio:
divergenza non giustificata, in quel caso, dalle ragioni di pubblico
interesse.
L’Avvocatura, d’altra parte, pone in rilievo la sostanziale
diversità fra l’accennata legge del 1 dicembre 1961, n. 1441, e la
legge ora impugnata. La prima riguarderebbe opere già compiute e
costituirebbe una sanatoria retroattiva di situazioni pregresse;
l’altra sarebbe, come in precedenza accennato, una legge di riforma di
struttura sociale, volta all’attuazione, in futuro, di un piano
urbanistico organico ed unitario, inteso al reperimento di aree
fabbricabili. Donde l’adozione del particolare criterio di
determinazione dell’indennizzo, riportando questa a due anni precedenti
alla deliberazione del piano; criterio uniforme per tutte le
espropriazioni, effettuate nell’ambito del piano e durante il periodo
di validità del medesimo.
In relazione al rilievo contenuto nell’ordinanza, nel senso che il
solo fatto della “dissociazione” fra il momento della determinazione
dell’indennità e il tempo dell’espropriazione, già di per sé
porrebbe in essere una situazione di incompatibilità con l’art. 42
della Costituzione, l’Avvocatura obietta, con riferimento, anche su
questo punto, alla giurisprudenza di questa Corte, che nessuna norma o
principio costituzionale vieterebbe al legislatore ordinario di
disporre, per la determinazione della indennità, il riferimento ad una
data diversa e precedente a quella dell’esproprio purché ciò trovi
giustificazione nelle ragioni di pubblico interesse e non si pervenga
al risultato di attribuire un’indennità non seria.
Escluderebbe infine che, circa la soluzione del problema ora
prospettato, possa avere influenza, in linea di principio, la
svalutazione monetaria, la quale oltre a costituire un evento futuro ed
incerto, porrebbe in essere, se si verificasse, problemi di carattere
generale, risolvibili con provvidenze pure di carattere generale.
Non sussisterebbe, secondo l’Avvocatura, neanche la violazione
dell’art. 3 della Costituzione, in dipendenza della dedotta disparità
di trattamento che, dal sistema dell’art. 12 della legge n. 167,
deriverebbe ai proprietari di aree comprese nel piano, a seconda che
siano espropriati in data più o meno prossima a quella di
deliberazione del piano stesso; e, in misura anche più notevole, ai
proprietari di zone destinate a verde agricolo.
L’accennata diversità di situazione non violerebbe il principio di
eguaglianza, in quanto “sarebbe conseguenza derivante dall’applicazione
in concreto della legge, trattandosi di vincoli, non indennizzabili,
secondo il nostro ordinamento, imposti da piani regolatori, come non lo
sarebbero le successive varianti al piano regolatore generale”. Non
sussisterebbe neppure, in base all’interpretazione dell’art. 16 della
legge, una disparità di trattamento rispetto ai proprietari di zone
destinate a verde agricolo.
Per analoghe considerazioni sarebbe da escludere la violazione
dell’art. 53 della Costituzione, richiamato anzi, nei lavori
preparatori, a sostegno delle ragioni fondamentali di pubblico
interesse, affinché il sacrifizio imposto al contribuente per fornire
i mezzi necessari per l’intervento statale, non comportasse un illecito
arricchimento a favore di alcuni proprietari di aree.
Conclude quindi la difesa dello Stato chiedendo che si dichiarino
non fondate le questioni di legittimità costituzionale.
La difesa del Comune di Torino, nelle deduzioni depositate il 14
novembre 1964, preliminarmente, pur non intendendo rimettere in
discussione le argomentazioni addotte dal Consiglio di Stato a
giustificazione della rilevanza, prospetta osservazioni analoghe a
quelle dedotte dalla difesa dello Stato, per contestare un rapporto di
interdipendenza fra l’art. 12 della legge n. 167 e le altre norme
denunziate.
Secondo la difesa del Comune la questione dovrebbe essere
circoscritta all’esame dell’art. 12 circa la determinazione
dell’indennità; questione che dovrebbe ritenersi infondata, dati i
principi affermati nelle sentenze di questa Corte, ricordate anche
dalla difesa del Comune; principi confermati nelle sentenze nn. 67 del
1959 e 91 del 1963, relative alle espropriazioni degli immobili
occupati per costruzione di ricoveri antiaerei.
A questo riguardo pure la difesa del Comune, come l’Avvocatura
dello Stato, ritiene che la Corte si sarebbe riferita alle
particolarità del caso, confermando il principio che non sarebbe
richiesto dalla Costituzione che il valore venale debba riferirsi al
momento dell’espropriazione.
Ciò posto, i criteri fissati nell’art. 12, per la determinazione
dell’indennizzo, non sarebbero in contrasto con il precetto
costituzionale. Il riferimento, per il calcolo dell’indennità, ad una
data anteriore all’esproprio, ricorrerebbe anche in varie leggi: tra le
altre nella legge del 15 gennaio 1885, n. 289; e specialmente nella
legge 21 ottobre 1950, n. 841 (così detta legge stralcio) sulla
riforma fondiaria, secondo la quale, appunto, il calcolo
dell’indennizzo è riportato al valore accertato ai fini dell’imposta
straordinaria sul patrimonio per il periodo 1946-1947, mentre i decreti
di espropriazione furono emessi nel periodo fra il 1951 e il 1953.
Per quanto riguarda la legge ora impugnata il riferimento al valore
dei terreni al biennio precedente all’adozione del piano troverebbe
speciale giustificazione nel fatto che, avendo la legge come finalità
l’esecuzione di un grande piano concernente l’edilizia popolare, che
renderebbe necessaria una valutazione degli oneri e la distribuzione di
essi nel tempo, ed inoltre la graduale attuazione del piano, evitando
l’insorgenza di un fenomeno speculativo, con un aumento artificioso del
prezzo delle aree edificatorie: aumento che si sarebbe necessariamente
verificato, qualora si fosse fatta coincidere la determinazione
dell’indennità con la data della espropriazione.
Si fa altresì notare che orientamenti del genere, circa il modo di
determinare l’indennità, sarebbero contenuti anche in altre leggi.
Si conclude quindi, su questo punto, che il sistema stabilito
nell’art. 12 della legge n. 167 non comporterebbe la violazione
dell’art. 42 della Costituzione.
Peraltro, secondo la difesa del Comune, il dubbio, circa la
incostituzionalità dell’art. 12, non avrebbe fondamento neppure sotto
gli altri aspetti prospettati dall’ordinanza di rimessione, e cioè la
durata del piano con la possibile, ma eventuale, incidenza della
svalutazione monetaria, senza alcun temperamento per eliminarne gli
effetti; nonché la disparità di trattamento derivante ai proprietari
delle aree, comprese nel piano stesso.
Circa il primo punto si pone particolarmente in rilievo come non
sarebbe ammissibile un giudizio di costituzionalità di una norma,
fondato, non già su una situazione in concreto verificatasi, bensì su
una mera ipotesi (anche se possibile), quella della svalutazione
monetaria, pur rimanendo costante il valore nominale della medesima, al
quale farebbe sempre riferimento l’ordinamento giuridico, nel regolare
i vari rapporti di diritto pubblico e privato, senza tener conto delle
eventuali variazioni che, di fatto, potrebbero verificarsi.
La durata decennale del piano, d’altra parte, (10 anni con
possibilità di proroga per altri due), risponderebbe all’esigenza
inerente all’attuazione del programma delle opere edilizie e di
urbanizzazione, e non potrebbe ritenersi di tale estensione da produrre
necessariamente, come rileva l’ordinanza, sperequazioni fra i
proprietari e produrre una riduzione dell’indennizzo, in misura reale,
diversa a seconda del momento in cui sarebbe effettuato l’esproprio.
Si rileva, a questo proposito che, pur prescindendo dalle
osservazioni circa l’ipotetica svalutazione monetaria, a tali
sperequazioni, attualmente insussistenti e soltanto ipoteticamente
possibili, non potrebbe attribuirsi rilevanza rispetto al precetto
dell’art. 3 della Costituzione, poiché si tratterebbe di situazioni
differenziate, soggette a trattamento diverso per motivi di interesse
generale.
Situazione che si riscontrerebbe particolarmente nel campo della
legislazione urbanistica, con limiti e vincoli circa la disponibilità
delle aree da parte dei proprietari, derivanti dall’attuazione dei
piani regolatori, i quali, senza dar luogo ad indennità, per finalità
di pubblico interesse e quindi legittimamente dal punto di vista
costituzionale, modificherebbero le situazioni preesistenti con
vantaggio per alcuni proprietari e con pregiudizio per altri.
Tali disparità di situazioni, si aggiunge, non contrastano con
l’art. 3, e neppure con gli artt. 23 e 53 della Costituzione. La
differenza, infatti, tra il valore venale effettivo dei beni alla data
dell’espropriazione e l’ammontare dell’indennità, calcolato ai sensi
dell’art. 12, e il conseguente vantaggio che ne deriverebbe ai Comuni
ed ai soggetti, ai quali potrebbero essere trasferite le aree
espropriate, non sarebbero manifestamente riconducibili nella sfera di
applicazione dei predetti articoli.
Né costituirebbero ingiustificate disparità di trattamento,
create dalla legge in esame, gli oneri – compresa la permanenza di
quelli fiscali – trattandosi di situazioni necessariamente derivanti,
in genere, dall’adozione e dall’attuazione dei piani regolatori, che
impongono limitazioni e vincoli.
Per ciò che attiene alla denunziata disparità di trattamento
derivante ai proprietari di aree destinate a verde agricolo, si osserva
che, prima dell’inclusione nei piani, tali zone, ai fini della
determinazione del valore, non sarebbero state considerate come aree
fabbricabili, e quindi la situazione non potrebbe ritenersi
giuridicamente modificata dal fatto dell’inclusione nei piani,
preveduti dalla legge in esame.
Conclude, quindi, la difesa del Comune perché siano dichiarate
infondate le questioni di costituzionalità sollevate dall’ordinanza.
Con altra ordinanza, pure del 27 aprile 1964 (n. 166/64 del
Registro ordinanze) pronunziata nel corso del giudizio promosso da un
altro gruppo di proprietari, il Consiglio di Stato, pure in adunanza
plenaria, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale
delle stesse disposizioni della legge n. 167 del 1962, alle quali si
riferisce l’ordinanza precedente, in riferimento agli stessi orticoli
della Costituzione. eccettuato l’art. 23. Ed ha prospettato uguali
motivi ed argomentazioni per giustificare la rilevanza ed il dubbio
sulla legittimità delle dette disposizioni.
L’ordinanza, dopo le prescritte notificazioni e comunicazioni, è
stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 282 del 14 novembre 1964.
In questa sede, per le parti private, si sono costituiti gli
avvocati Pietro Bodda, Enrico Biamonti, Adriano Pallottino, Enrico
Allorio, Antonio Sorrentino, Santo Rodilosso, Michele Bianco, Jacopo
Durandi e Luigi Zegretti.
Si sono pure costituiti il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, ed il Comune di
Torino, rappresentato dagli avvocati Guido Astuti, Mario Comba e Raoul
Rossini.
Nelle deduzioni depositate il 5, il 9 ottobre e il 9 e il 24
novembre 1964, la difesa delle parti private si riporta, in sostanza,
alle argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione,
concludendo per la dichiarazione di illegittimità delle disposizioni
impugnate.
Nelle deduzioni prodotte in difesa dell’Ospedale Maggiore, si
osserva che nella legge n. 167, il calcolo dell’indennità viene
riferito ad una data diversa e di molto anteriore a quella
dell’espropriazione, imponendo ai proprietari vincoli e limiti
derivanti dall’adozione del piano, con la probabilità di subire la
svalutazione monetaria, sempre che sia offerta alcuna garanzia che
l’indennizzo non fosse irrisorio e lontano dal rappresentare un serio
ristoro del danno subito.
Si osserva, quindi, che il sistema adottato dalla legge n. 167,
porrebbe in essere una situazione anche più grave di quella esaminata
nella sentenza n. 91 del 1963, in relazione alle disposizioni della
legge 10 dicembre 1961, n. 1441, dichiarate illegittime dalla detta
sentenza, e nonostante che, pur retrodatandosi il calcolo
dell’indennità, si fosse stabilito un coefficiente di rivalutazione e
la corresponsione degli interessi legali dalla data dell’occupazione.
Dal sistema invece instaurato dalla legge n. 167 deriverebbe la
impossibilità di valutare quale potrebbe essere, al momento
dell’esproprio, il rapporto fra il valore effettivo del bene e
l’ammontare dell’indennizzo, e di stabilire se, in conseguenza, questo
potesse ritenersi consistente, irrisorio, o del tutto simbolico. In
questa dissociazione tra i due momenti del calcolo dell’indennità e
dell’esproprio, consisterebbe soprattutto la illegittimità delle
disposizioni impugnate, in relazione ai principi fissati con la
sentenza sopra ricordata, giacché, pur adottando criteri restrittivi
nel calcolo dell’indennità, quando questo fosse riferito al momento
dell’espropriazione, non ne deriverebbero quelle sperequazioni
contrastanti con l’art. 3 della Costituzione, cui darebbe luogo invece
la legge in esame. Sperequazioni che sarebbero aggravate dalla
svalutazione monetaria, non indifferente nell’attuale momento, e non
sarebbero giustificate da alcun ragionevole motivo.
L’Avvocatura dello Stato ed il Comune di Torino, nelle loro
deduzioni depositate rispettivamente il 23 ottobre e il 14 novembre
1964, prospettano le stesse argomentazioni contenute nelle deduzioni,
depositate in relazione all’ordinanza precedente e concludono in
conformità.
Con una terza ordinanza, pure del 27 aprile 1964 (n. 167 del
Registro ordinanze del 1964), nel corso di altro giudizio avverso la
deliberazione del Comune di Torino 9 gennaio 1963, approvata con
decreto del Ministro dei lavori pubblici in data 15 giugno 1963, il
Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale delle disposizioni contenute negli articoli
indicati nelle precedenti ordinanze, fatta eccezione per l’art. 16, in
riferimento agli articoli, pure indicati, comprendenti anche il secondo
comma dell’art. 42, eccettuando l’art. 23.
Nell’ordinanza, per quanto attiene alla rilevanza e per ciò che
riflette le questioni di costituzionalità, relativamente alle norme
denunziate, si svolgono le stesse argomentazioni addotte nelle
ordinanze precedenti.
Si pone tuttavia in particolare rilievo il fatto che l’interesse
pubblico potrebbe imporre alla proprietà privata limitazioni e
vincoli, che si concretino nella diminuzione dell’uso o anche
nell’impossibilità di un uso corrispondente al pieno godimento della
medesima; e che, per tali limitazioni e vincoli, non sia dovuta alcuna
indennità. Ma non sarebbe ammissibile un vincolo di natura tale da
svuotare, in pratica, il contenuto di tale diritto, riducendolo, come
si esprime l’ordinanza, ad una semplice ed astratta espressione
giuridica. Il che si verificherebbe nella specie, in quanto il vincolo,
preordinato ad una espropriazione futura, da un lato non assicurerebbe
l’indennizzo che deve essere garantito nell’espropriazione, e
dall’altro lascerebbe il bene senza possibilità di impiego
corrispondente alla sua natura, in quanto, assoggettando i beni ad una
futura espropriazione, incerta nel tempo, precluderebbe al
proprietario, che non si trovasse nella situazione preveduta dall’art.
16, di disporre delle aree nell’unico modo conforme al loro carattere
edificatorio, o di utilizzarle comunque in modo proficuo, data
l’incertezza del momento dell’esproprio. Il che integrerebbe violazione
anche del secondo comma dell’art. 42, poiché non prevederebbe alcun
indennizzo per il conseguente pregiudizio economico e non assicurerebbe
neppure il vantaggio, normalmente derivante dalla perdita del bene,
qualora sia contemporaneo alla corresponsione dell’indennizzo.
Si aggiunge, nell’ordinanza, come altro elemento a conferma della
non manifesta infondatezza, la situazione di disuguaglianza in cui
verrebbero a trovarsi i proprietari di aree comprese nei piani di zona
previsti nella legge in esame, rispetto a quelli di aree non comprese
in tali piani, ma soggetti al piano regolatore, in base alla legge
urbanistica.
Dopo le prescritte notificazioni e comunicazioni, l’ordinanza è
stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 282 del 14 novembre 1964.
Le parti private si sono costituite in questa sede, rappresentate
dagli avvocati Gaetano Zini Lamberti, Carlo Sequi, Enrico Allorio,
Antonio Sorrentino e Vincenzo Traballesi, depositando le deduzioni il 2
novembre 1964 e il 14 dicembre 1964.
Si sono pure costituiti il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, con deduzioni
depositate il 23 ottobre 1964, ed il Comune di Torino, che ha
depositato le deduzioni il 14 novembre 1964.
Anche in questa causa le parti private si richiamano alle
argomentazioni esposte nell’ordinanza di rimessione, riguardo alle
norme denunciate e ai precetti costituzionali, che si assumono violati,
concludendo per la dichiarazione di illegittimità delle norme
impugnate.
La difesa della Società immobiliare ligure piemontese, nelle
deduzioni, svolge ampiamente i dedotti motivi di incostituzionalità,
riportandosi alle varie sentenze pronunciate da questa Corte in materia
di espropriazione. Dalle quali risulterebbe chiarito che l’indennizzo
debba rappresentare positivamente un serio ristoro del pregiudizio
risentito dal proprietario, proporzionale al valore del bene, valutato
al momento dell’espropriazione, e che la violazione dell’art. 42 della
Costituzione sarebbe ravvisabile, quando il sistema adottato dal
legislatore apra l’adito alla possibilità che la liquidazione sia
effettuata in misura irrisoria o del tutto simbolica. Ora, si rileva,
ad una tale conseguenza si giungerebbe, appunto, col sistema accolto
dalla legge impugnata, di cui si è fatto diffusamente cenno
nell’ordinanza di rimessione, come si è già in precedenza ricordato.
La quale legge, d’altra parte, non conterrebbe alcuna provvidenza per
evitare che tale possibilità divenga realtà concreta, e per attenuare
il danno risentito dai proprietari, a differenza della legge n. 1441
del 1961, che pure fu dichiarata da questa Corte illegittima con la
sentenza n. 91 del 1963. Né sarebbe necessario, per giungere a
siffatte conseguenze, pensare addirittura ad un tracollo della moneta,
essendo sufficiente la progressiva svalutazione già in atto. Non
varrebbe poi obiettare, si aggiunge, che si tratterebbe di mera
ipotesi, poiché, nel giudizio di costituzionalità, la norma
legislativa dovrebbe essere valutata anche rispetto a tutte le
conseguenze, anche future e possibili.
Gli effetti del predetto sistema, inoltre, sarebbero aggravati dal
fatto che il valore delle aree fabbricabili sarebbe soggetto, più di
qualsiasi altro bene, alle variazioni derivanti, non soltanto dalla
svalutazione della moneta, ma altresì dalle fluitazioni del mercato e
dallo svolgersi dell’attività edilizia.
Per quanto riguarda la violazione dell’art. 3 della Costituzione,
si pone in rilievo come tale violazione sarebbe ravvisabile, sia nei
rapporti fra i proprietari delle aree comprese nel piano, nel senso
già in precedenza indicato (in relazione al momento in cui, nel lungo
periodo di durata del piano, fosse effettuata l’espropriazione, anche
per la diversa incidenza dei vincoli e degli oneri fiscali), sia nei
rapporti fra i predetti proprietari e quelli delle aree rimaste fuori
del piano. Ciò non perché tale trattamento sfavorevole fosse
giustificato in rapporto a situazioni che il legislatore avesse
ritenuto diverse, bensì per il fatto, meramente casuale e rimesso alla
discrezionalità del Comune, che le aree fossero, o non, comprese nel
piano. E la disuguaglianza, si aggiunge, assumerebbe maggiore gravità,
in quanto la formazione del piano, importerebbe automaticamente
l’aumento di valore delle aree rimaste fuori, con ingiustificato
vantaggio dei proprietari delle aree stesse.
Circa poi le aree, già destinate a verde agricolo (art. 16 della
legge), all’obiezione che il legislatore avrebbe inteso conservare
immutata la situazione giuridica, obiettivamente risultante dal
precedente piano regolatore, si risponde osservando che, per espressa
disposizione della legge n. 167 (art. 3), i piani compilati dai Comuni
costituiscono varianti ai piani regolatori già esistenti; dal che
deriverebbe una modificazione nella qualificazione giuridica delle aree
anzidette. Le quali perciò si verrebbero automaticamente a trovare
nella stessa situazione di quelle già considerate residenziali.
Si insiste, in fine, nel porre in rilievo come il sistema adottato
dalla legge impugnata sarebbe in contrasto anche con l’art. 53′ in
relazione all’art. 23 della Costituzione. Giacché sarebbe disposta non
soltanto un’espropriazione con indennità ridotta, ma altresì un modo
di trasferimento coattivo di valori a favore della pubblica
Amministrazione; trasferimento non conforme ai principi
dell’imposizione tributaria, in quanto non riferito alla capacità
contributiva dei proprietari, ma determinato dall’inclusione o meno
delle aree nei piani, con sperequazione fra i proprietari stessi.
L’Avvocatura dello Stato ed il Comune di Torino, nelle deduzioni,
si riportano alle argomentazioni già svolte in riferimento alle
precedenti ordinanze.
I difensori delle parti private hanno depositato memorie, a
maggiore chiarimento delle deduzioni e per contestare le tesi sostenute
dall’Avvocatura dello Stato e dal Comune di Torino.
In via preliminare, pur prescindendo dalla discussione sulla
rilevanza, insistono nel rilevare che, dal combinato disposto di tutte
le norme indicate nell’ordinanza di rimessione, emergerebbe pienamente
la portata giuridica delle norme stesse, ed, in particolare, di quella
dell’art. 12, secondo comma, che costituisce il fulcro del sistema
della legge impugnata.
La connessione sistematica di tutte le disposizioni della legge
impugnata sarebbe inscindibile, di guisa che il vizio di
costituzionalità, afferente alla determinazione dell’indennità, si
rifletterebbe necessariamente sulle disposizioni concernenti la
formazione dei piani e l’imposizione dei vincoli, e cioè su tutto il
sistema espropriativo, come disciplinato dalla legge n. 167.
In riferimento alla norma dell’art. 42, terzo comma, della
Costituzione, si chiarisce, fra l’altro, che, per sostenere la
legittimità, non si potrebbero richiamare le norme sulla riforma
fondiaria e agraria, giacché, per la brevità del periodo
intercorrente fra la data stabilita per il calcolo dell’indennizzo e
quella della pronunzia dell’espropriazione, in relazione alla
particolare natura dei beni rustici allora considerati, sarebbero da
escludere, come furono esclusi, effetti pregiudizievoli a carico dei
soggetti colpiti dall’esproprio.
Quanto poi al rilievo che, in altri casi, già esaminati da questa
Corte (specialmente con la sentenza n. 91 del 1963), gli effetti della
dissociazione dei predetti momenti sarebbero stati valutati ex-post
dalle parti private, si ritiene che, dal punto di vista della
costituzionalità, non diversi effetti avrebbe il vizio della legge,
che prevedesse una dissociazione proiettata nel futuro, così da
importare l’eventualità che l’indennizzo possa costituire una garanzia
non reale, ma fittizia, del diritto di proprietà; e ciò in quanto
l’indennizzo sarebbe privo del necessario carattere di determinatezza,
attuale e concreta, in considerazione del lungo periodo di durata del
piano, della possibile svalutazione monetaria, nonché dei vincoli e
degli oneri che, per il detto periodo, gravano sui proprietari, in
mancanza di qualsiasi temperamento al riguardo.
In riferimento ai principi affermati da questa Corte, specialmente
nella ricordata sentenza n. 91 del 1963, si pone in rilievo che la
dissociazione, nel caso in questione, opererebbe probabilmente, anche
in misura più grave, che nell’ipotesi considerata nella sentenza
predetta. La dissociazione invero, specie se fra momenti notevolmente
distanti, sostituirebbe al valore reale del bene espropriato un
elemento del tutto futuro, variabile ed incerto, incompatibile con quel
carattere di “serio ristoro”, che comunque dovrebbe avere l’indennizzo
nella pur discrezionale disciplina legislativa, intesa al
contemperamento dell’interesse pubblico e della tutela del
proprietario.
Né varrebbe richiamarsi, si obietta, al principio nominalistico,
che vige soltanto riguardo ad indennità già liquidate e troverebbe
quindi applicazione solo dopo che, nei confronti di ciascun
proprietario, fosse stata disposta l’espropriazione.
Nelle memorie, infine, si confermano le argomentazioni, già in
precedenza prospettate, circa la violazione dell’art. 3, in relazione
altresì all’art. 53 della Costituzione, la cui applicazione non
sarebbe limitata alle entrate di carattere strettamente tributario, ma
ricomprenderebbe nella sua disciplina tutti i benefici derivanti, a
favore della collettività, da oneri patrimoniali imposti al cittadino.
In particolare si osserva che le norme impugnate darebbero luogo a
disparità di trattamento, non solo fra i proprietari di aree comprese
nei piani (in relazione al diverso tempo dell’esproprio), ma pure fra
questi e i proprietari di immobili, non compresi nei piani compilati ai
sensi della legge in esame. Per i quali immobili, nonostante
l’originaria eguaglianza di situazione rispetto a quelli inclusi nei
piani, il plusvalore sarebbe colpito solo in parte con l’applicazione
dell’imposta sulle aree fabbricabili, preveduta dalla legge 5 marzo
1963, n. 246.
L’Avvocatura generale dello Stato, con memoria depositata il 18
febbraio 1965, ribadisce la tesi che, fra le norme della legge n. 167
concernenti la formazione dei piani urbanistici per l’edilizia
economica e popolare e quelle attinenti all’espropriazione delle aree,
non sussiste una inscindibile connessione, tale da giustificare,
l’estensione dell’eventuale pronuncia di illegittimità della
disposizione dell’art. 12, terzo comma, alle altre norme della stessa
legge; giacché, se pure fosse dichiarata l’invalidità del ricordato
secondo comma dell’art. 12, rimarrebbe tuttavia efficace il rinvio
contenuto nel primo comma (non denunziato), per la determinazione
dell’indennità nella misura prevista dalla legge 25 giugno 1865, n.
2359.
Circa l’art. 42, terzo comma, della Costituzione, l’Avvocatura
dello Stato, sempre con riferimento alla precedente giurisprudenza di
questa Corte, specie nella materia della riforma fondiaria, sostiene
che esso non sarebbe ancorato al criterio della effettiva
corrispondenza dell’indennizzo al valore venale del bene espropriato;
che al potere discrezionale del legislatore sarebbe demandato di
stabilire l’equa misura (anche con criteri diversi dal valore venale al
momento dell’espropriazione), nonché il modo e il tempo
dell’indennizzo. Onde sarebbe consentito al legislatore di riferirsi,
per la determinazione dell’indennità, ad un momento anteriore e
diverso da quello dei singoli espropri, purché l’indennità stessa non
risultasse meramente simbolica.
Da tale orientamento interpretativo non si sarebbero discostate le
successive sentenze di questa Corte n. 67 del 29 dicembre 1959 e n. 91
del 18 giugno 1963, le quali avrebbero dichiarato l’illegittimità
costituzionale delle norme allora esaminate, in considerazione, da un
lato della già verificata svalutazione monetaria e, dall’altro, della
disciplina legislativa che, col riferimento a valori di mercato
prebellici, avrebbe reso evidente la dissociazione tra la situazione
esistente al momento in cui le occupazioni delle aree ebbero inizio e
la situazione esistente alla data dei provvedimenti di esproprio.
All’accennato orientamento si sarebbe uniformata anche la
disposizione contenuta nell’art. 12 della legge n. 167, giacché il
riferimento al valore venale delle aree espropriabili a due anni prima
della delibera del piano, costituirebbe un criterio imposto da
valutazioni di pubblico interesse, che troverebbero protezione
nell’art. 47, secondo comma, della stessa Costituzione; valutazioni
inerenti, conferma l’Avvocatura, al carattere della legge ed alle sue
finalità.
In riferimento alla questione prospettata sotto il profilo della
diversità di trattamento, a seconda che i proprietari siano colpiti
dall’esproprio in tempi differenti, l’Avvocatura dello Stato obietta
che il sistema degli artt. 9, 10 e 12 della legge impugnata non avrebbe
carattere discriminatorio, ma rifletterebbe necessariamente l’obiettiva
esigenza di gradualità dell’attuazione dei piani e la conseguente
ripartizione, nel tempo, dell’attuazione dei singoli espropri.
L’eventuale difformità di trattamento, che ne potesse derivare,
avrebbe rilievo di puro fatto, non in contrasto con l’art. 3 della
Costituzione, giacché non potrebbe essere ricondotta, in alcun caso, a
diversità di condizioni personali degli stessi espropriati.
Quanto alla disparità di disciplina che si sostiene dalle parti
private essere disposta dall’art. 16 della legge, l’Avvocatura
ribadisce che l’assenta disparità sarebbe invece diretta ad assicurare
diverso trattamento alle situazioni, originariamente non uguali, dei
proprietari di aree già edificabili in osservanza di precedenti piani
regolatori, nei confronti dei proprietari di zone, la cui destinazione
invece avesse escluso l’edificabilità. In caso diverso si verrebbe a
riconoscere agli stessi il plusvalore derivante dall’adozione dei
piani.
Anche il Comune di Torino ha depositato una memoria illustrativa,
nella quale ribadisce le tesi già prospettate nelle deduzioni: circa
la non estensibilità all’attuale controversia dei principi giuridici
enunciati con la sentenza n. 91 del 1963, per la peculiarità della
fattispecie allora esaminata, circa l’analogia fra la legge in esame e
le disposizioni in materia di riforma fondiana, posto che, nell’uno e
nell’altro caso, i valori per la liquidazione dell’indennità sarebbero
stati determinati in data anteriore ai provvedimenti di scorporo; e
circa il rilievo che la pretesa svalutazione monetaria ed il rincaro
dei prezzi di mercato, sarebbero prospettabili soltanto in modo
ipotetico e perciò non potrebbero influire sulla soluzione della
questione.
Contro l’assunto delle parti ricorrenti, secondo il quale i
proprietari delle aree incluse nei piani della legge n. 167
perderebbero senza alcun ristoro, fin dalla pubblicazione dei piani
medesimi, ogni pratica possibilità di godere e disporre dei fondi e
tuttavia rimarrebbero gravati dagli oneri fiscali, la difesa del Comune
di Torino osserva che la situazione, così configurata, non sarebbe
dissimile da quella che si verificherebbe a seguito della pubblicazione
dei piani regolatori, in relazione alle limitazioni e ai vincoli
urbanistici apportati alla proprietà privata, per le finalità sociali
della disciplina dell’assetto dei centri abitati. Né determinerebbe
contrasto con l’art. 42 della Costituzione il preteso “congelamento”
delle proprietà urbane alla data di riferimento per la liquidazione
degli indennizzi, giacché tale criterio sarebbe imposto dall’esigenza,
generalmente seguita, di escludere dall’indennità di esproprio gli
incrementi di valore dipendenti comunque dall’approvazione del piano; e
dall’esigenza di escludere che la acquisizione delle aree per
l’edilizia economica e popolare si traducesse in un vantaggio per i
proprietari delle aree medesime.
Il sistema della legge sarebbe quindi in armonia con l’art. 42
della Costituzione, anche per quanto riguarda i limiti, che per ragioni
sociali, possono essere imposti alla proprietà privata, oltre che in
armonia con il principio dell’eguaglianza. Principio che non sarebbe
violato in dipendenza del fatto che la graduale attuazione delle
riforme urbanistiche implicherebbe necessariamente disparità di
trattamento fra i privati proprietari, e per il fatto che, dalle
esigenze particolari nell’edilizia economica e popolare, deriverebbe
necessariamente disparità di disciplina fra i beni compresi nei piani
di cui alla legge n. 167, e i beni assoggettati ai limiti dei comuni
piani regolatori.
Quanto alla pretesa violazione degli artt. 23 e 53 della
Costituzione – si osserva – la materia in esame esulerebbe dal novero
delle prestazioni personali o patrimoniali. Né con tali prestazioni,
che costituiscono oggetto di obbligazioni propriamente dette,
potrebbero confondersi i limiti imposti alla proprietà privata in
conformità con l’art. 42 della Costituzione.
In merito all’art. 16 della legge impugnata la difesa del Comune di
Torino si riporta alle deduzioni, ponendo in risalto le finalità
sociali della norma stessa.
Con memoria aggiuntiva depositata nella stessa data del 18 febbraio
1965, la difesa del Comune di Torino rileva che il valore venale delle
aree urbane dipenderebbe essenzialmente dalla loro edificabilità, la
quale sarebbe, a sua volta, subordinata alla disciplina normativa e
amministrativa dei piani regolatori. Rileva pure che, in relazione
all’adozione di piani regolatori, o di sviluppo di zone urbane, per
finalità sociali e di pubblico interesse, la pubblica Amministrazione
dovrebbe pagare, per le aree soggette ad espropriazione, un indennizzo
commisurato alla nuova destinazione urbanistica, in base al valore
medio dei terreni finitimi a quelli compresi nei piani. il perciò che
si sarebbe introdotto, nella legislazione, il criterio secondo il
quale, ai fini dell’indennità di esproprio, non si deve tener conto di
qualsiasi incremento dipendente direttamente o indirettamente dalla
formazione ed esecuzione del piano.
Alla stregua di tale principio, si osserva, la disposizione
dell’art. 12, secondo comma, della legge impugnata non conterrebbe
norma diversa da quella già formulata nella legge urbanistica del 1942
(art. 38) e in altre leggi; norma per la quale il valore venale delle
aree espropriabili deve essere depurato dagli incrementi determinati
dalla formazione del piano. Nella specie quindi la necessità di non
tener conto di tali incrementi legittimerebbe il criterio di
riferimento, ai fini della valutazione dei beni espropriabili, a data
anteriore all’adozione del piano medesimo. Ai fini della presente causa
ne desume quindi che mancherebbe qualsiasi interesse a discutere della
questione sull’art. 12, poiché, anche se si volesse ammettere che il
valore venale dovesse essere determinato alla data nella quale
l’espropriazione è concretamente disposta, la consistenza
dell’indennizzo resterebbe uguale a quella che risulta
dall’applicazione dell’art. 12 della legge in discussione.
1. – Le tre cause possono essere riunite e decise con unica
sentenza, poiché, salvo alcune varianti di minor rilievo, riguardano
la stessa questione di costituzionalità.
2. – Risulta che i ricorrenti, sebbene davanti al Consiglio di
Stato avessero eccepito direttamente e specificatamente
l’incostituzionalità dell’art. 12 della legge n. 167 del 18 aprile
1962, in quanto stabilisce i criteri per la determinazione della
indennità di espropriazione, avevano altresì prospettato la
sussistenza di un rapporto di connessione è di interdipendenza fra la
detta disposizione e le altre della legge impugnata, poste a base della
formazione del piano e della relativa approvazione.
A questo rapporto di connessione si è riferito il Consiglio di
Stato per giustificare la rilevanza della questione di
costituzionalità, non soltanto dell’art. 12, nella parte impugnata ed
ora ricordata, ma anche degli artt. 9, primo, secondo, terzo e quinto
comma; 10, primo e secondo comma, e, nelle ordinanze nn. 165 e 166,
anche dell’art. 16, in relazione agli artt. 9 e 10 della legge stessa.
Ora, su tale giudizio di rilevanza, ampiamente motivato nelle
ordinanze di rimessione, la Corte, in conformità della sua costante
giurisprudenza, non può esercitare alcun sindacato; tuttavia,
essendosi sollevata la questione di legittimità costituzionale non
soltanto dell’art. 12, secondo comma, ma anche delle altre disposizioni
sopra indicate, per il rapporto di connessione con la prima, ciò non
esime dall’esaminare, sul piano costituzionale (il che sarà fatto in
fine), la sussistenza, o meno, di tale rapporto, ai fini della
definizione della controversia in questa sede.
3. – La questione principale e fondamentale della causa, in tal
senso del resto prospettata dalle ordinanze e dalle parti, consiste
nell’esaminare se possa ritenersi compatibile con l’art. 42, terzo
comma, della Costituzione, l’art. 12, secondo comma, della legge n.
167, nella parte in cui stabilisce che il valore venale delle aree, da
espropriare in attuazione dei piani, è riferito a due anni precedenti
alla deliberazione comunale di adozione dei piani stessi; valore venale
che, ai sensi del primo comma di detto articolo, è determinato
dall’Ufficio tecnico – erariale nella misura preveduta dalla legge 25
giugno 1865, n. 2359.
È da tenere presente peraltro che la disposizione anzidetta deve
essere considerata e interpretata non già in se stessa, bensì in
relazione al sistema della legge, in cui è inserita, nel cui ambito è
destinata ad operare e dal quale, per logica conseguenza, derivano la
portata e la incidenza nei confronti dei proprietari di terreni
compresi nei piani, predisposti dai Comuni per l’attuazione delle
finalità della legge. In relazione cioè alle disposizioni dell’art.
9, secondo il quale (primo comma) i piani hanno efficacia per dieci
anni, prorogabili per due anni (secondo comma), dalla data del decreto
di approvazione ed hanno valore di piani particolareggiati di
esecuzione, ai sensi della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150;
l’approvazione dei piani (terzo comma) equivale a dichiarazione di
indifferibilità ed urgenza di tutte le opere, impianti ed edifici
inclusi nei piani stessi; le aree in essi comprese (quinto comma)
rimangono soggette, durante il periodo di efficacia, ad espropriazione;
e in relazione inoltre all’art. 10, primo comma, che autorizza i Comuni
ad acquisire le aree, anche mediante l’espropriazione, nei limiti in
questo articolo indicati.
Ciò premesso, il problema, ora sottoposto all’esame della Corte,
non riguarda le finalità che hanno determinato l’emanazione della
legge n. 167, poste in luce dalla difesa dello Stato, con ampi
riferimenti alla relazione ministeriale che accompagna il disegno di
legge: finalità urbanistiche, da attuare mediante programmi razionali
ed organici, nei centri abitati, indicati nella legge; finalità di
carattere sociale, inerenti alla costruzione di case popolari ed
economiche da assegnare alle classi meno abbienti; finalità di
carattere economico-finanziario, intese a rendere possibile
l’acquisizione, da parte dei Comuni, anche mediante l’espropriazione,
di un complesso di aree destinate alla edilizia, a prezzo limitato,
evitando l’insorgere di fenomeni speculativi e l’incidenza non
giustificata di un plusvalore delle aree medesime.
Riguarda invece l’indagine se il congegno adottato dal legislatore
per conseguire le accennate finalità, mediante l’istituto
dell’espropriazione, sia conforme al precetto costituzionale (art. 42,
terzo comma), per quanto riguarda l’indennizzo; nel quale, come è
noto, si accentra la garanzia che la Costituzione riconosce ai
proprietari nel caso di trasferimento coattivo dei beni.
4. – A questo proposito la Corte deve riferirsi alla propria
giurisprudenza, che ha già definito il concetto di indennizzo ed ha
precisato, entro quali limiti, il legislatore ordinario può esercitare
il potere discrezionale, a lui devoluto nel determinarne la misura,
anche per quanto concerne la graduabilità rispetto all’interesse
generale.
Con la sentenza n. 61 del 1957, si è affermato che, data la
preminenza dell’interesse pubblico, in vista dei fini cui tende
l’espropriazione, l’indennizzo non può rappresentare un integrale
risarcimento del pregiudizio subito dal proprietario, bensì il massimo
di contributo e di riparazione, che la pubblica Amministrazione può
garantire all’interesse privato. Si è posto altresì in rilievo che
l’indennizzo non può essere stabilito in misura simbolica senza
violare il precetto costituzionale, pur riconoscendosi che il
legislatore possa discrezionalmente stabilirne la misura e i modi di
pagamento.
Questi principi sono stati confermati in successive sentenze (nn. 3
e 33 del 1958, n. 41 del 1959, n. 5 del 1960) ed anche in quelle n. 67
del 1959 e n. 91 del 1963. A questa fanno specialmente riferimento le
ordinanze e le difese delle parti private, in quanto avrebbe esaminato
una fattispecie, se non identica, quanto meno analoga, a quella
attualmente in esame, così da costituire precedente che condurrebbe a
ritenere l’illegittimità della disposizione ora impugnata.
Con l’ultima decisione si confermarono i principi già enunciati
nelle precedenti sentenze, circa la necessità che l’indennizzo non
può essere irrisorio né simbolico, ma deve rappresentare serio
ristoro del pregiudizio subito dal proprietario. Si rilevò che l’art.
42, terzo comma, della Costituzione non impone che l’indennità sia
ragguagliata al valore del bene al tempo dell’espropriazione. Si
dichiarò tuttavia l’illegittimità dell’art. 2, primo e secondo comma,
del decreto legislativo dell’11 marzo 1948, n. 409, e della successiva
legge del 1 dicembre 1961, n. 1441, per il fatto che, in quella
fattispecie normativa, riportandosi la determinazione dell’indennità
al valore dei beni al tempo della occupazione, si era, in sostanza,
attribuita un’indennità apparente, stante l’enorme squilibrio dei
valori monetari, intervenuto nel lungo intervallo di tempo tra
l’occupazione e le espropriazioni effettuate o da effettuarsi. Si è
concluso quindi che non poteva ritenersi conforme al precetto
costituzionale la determinazione dell’indennità riportata al valore
venale al tempo dell’occupazione, quando, come nel caso allora
esaminato, esisteva una “dissociazione” tra le due situazioni, tanto
più che, tra i due periodi, si erano inseriti eventi perturbatori,
quale la svalutazione monetaria.
Ora, se da un lato le due anzidette sentenze non autorizzano a
ritenere, in linea astratta, che la scissione della data di riferimento
per il calcolo della indennità da quella dell’espropriazione, importi
per se stessa necessariamente illegittimità della norma legislativa,
non appare d’altro lato esatto – come si assume dall’Avvocatura –
considerarle esclusivamente riferibili alla specie allora esaminata;
per il riflesso che il fenomeno dissociativo sarebbe stato preso in
considerazione dalla Corte e ritenuto non conforme alla Costituzione,
in quanto, si era venuta a creare una frattura nell’equilibrio dei
valori dei beni, fra i due momenti della determinazione dell’indennità
e dell’espropriazione, di tale importanza da rendere irrisorio
l’indennizzo.
Ora, se è vero che, nel sistema della legge in esame, si è invece
in presenza soltanto dell’eventualità che detti elementi perturbatori
possano verificarsi, dato che le espropriazioni sono da effettuare per
tutto il lungo periodo di durata dei piani; tuttavia, anche nel caso
attuale, si può porre il quesito se l’accennata situazione possa
incidere sull’indennizzo, considerato in termini reali, rispetto al
valore effettivo dei beni, in modo da renderlo non più rispondente al
precetto costituzionale.
5. – Ad avviso della Corte al quesito deve darsi risposta
affermativa.
Non è infatti contestabile che, per quanto attiene alla
determinazione e alla liquidazione dell’indennità, nei riguardi dei
proprietari delle zone comprese nei piani, sia posta in essere una
situazione di incertezza, o di alea, derivante dal concorso di vari
elementi: la lunga durata del periodo di validità dei piani (10 o 12
anni se intervenga la proroga, o anche maggiore, nei casi di ritardo
del decreto di approvazione); e la facoltà accordata ai Comuni o ai
consorzi, indicati nell’art. 1 della legge, di effettuare le
espropriazioni gradualmente, a norma dell’art. 11 della legge. Donde la
possibilità che, nell’intervallo fra l’adozione dei piani e la loro
attuazione, si verifichino eventi perturbatori tali da condurre ad una
liquidazione dell’indennità in misura irrisoria o addirittura
simbolica. La quale incertezza, appunto per l’incidenza sulla
consistenza reale dell’indennizzo, non può ritenersi eliminata dal
fatto che il calcolo del medesimo sia stabilito in riferimento ad un
indice numerico determinato (valore venale) seppure retrodatato.
Se quindi l’indennità costituisce la garanzia che il terzo comma
dell’art. 42 della Costituzione esige sia assicurata al proprietario
che subisce l’espropriazione, non si può non riconoscere che,
necessariamente per questo, essa debba essere sottratta ad elementi
aleatori.
Giacché, in caso diverso, in contrasto con il concetto stesso di
garanzia, questa resterebbe snaturata e pregiudicata nella sua
efficienza. Ed è da aggiungere, sempre in relazione alla consistenza
dell’indennizzo, che nel sistema adottato dalla legge n. 167, la
situazione dei proprietari dei terreni, compresi nei piani, resta
aggravata anche per effetto del vincolo espropriativo (imposto in base
alle disposizioni dell’art. 9 sopra indicato), perdurante per tutto il
periodo di efficacia dei piani stessi: vincolo a cui si ricollega, tra
l’altro, un divieto di utilizzazione dei suoli in riferimento alla
destinazione all’edilizia residenziale (attenuato nel caso di
applicazione del primo comma dell’art. 16); mentre i proprietari non
possono trarre profitto dagli aumenti di valore derivanti dall’adozione
dei piani e da altri fattori, pur rimanendo soggetti agli oneri
fiscali; salva l’esenzione dall’imposta sugli incrementi di valore
delle aree fabbricabili, ai sensi dell’art. 15, lett. c. della legge 5
marzo 1963, n. 246.
Con i predetti rilievi non si pone in discussione il potere del
legislatore d’autorizzare la formazione e l’attuazione di piani e
programmi, in vista di finalità di interesse generale, con
l’imposizione di vincoli alla proprietà privata. E neppure si viene a
disconoscere la discrezionalità del legislatore di riportare la
liquidazione dell’indennità ad una data anteriore a quella
dell’espropriazione (derogando al sistema seguito dalla legge
urbanistica e dallo stesso disegno, che divenne poi la legge n. 167);
purché però, adottando tale deroga, siano disposti anche i necessari
temperamenti, così da eliminare la possibilità che l’indennizzo, con
il concorso degli elementi di cui si è fatta menzione, possa perdere
consistenza, in modo tale da non assolvere più la funzione di garanzia
a cui si è accennato: temperamenti che non sono invece preveduti dalla
legge in esame.
Le considerazioni che precedono inducono a ritenere che il secondo
comma dell’art. 12, nella parte impugnata, non sia compatibile, nei
sensi e nei limiti sopra esposti, con l’art. 42, terzo comma, della
Costituzione.
Non appare fondata l’obiezione che il congegno espropriativo che fa
capo all’art. 12 sia intimamente legato al sistema normativo, adottato
dal legislatore, per la formazione dei piani, al quale esclusivamente
si fa riferimento in questa sede; tanto vero che il disegno di legge
presentato al Parlamento ed approvato, circa la disciplina dei piani
senza sostanziali modificazioni, prevedeva un diverso criterio di
liquidazione delle indennità (art. 11 del disegno di legge), sempre
sulla base dei principi stabiliti dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359,
ma rapportata al tempo dell’espropriazione, con decurtazione del
venticinque per cento.
6. – Non è neppure accettabile il rilievo della difesa del Comune,
secondo cui la dichiarazione di illegittimità dell’art. 12, nel senso
sopra indicato, verrebbe ad essere condizionata a situazioni non
attuali, ma future ed incerte, quali, ad esempio, la progressiva
diminuzione del potere di acquisto della moneta.
Il vizio di illegittimità, infatti, deriva, come si è chiarito,
dalla incertezza circa la garanzia dell’indennità, in conseguenza
della retrodatazione della liquidazione, in rapporto alla durata di
efficacia del piano. Appare chiaro perciò che, è già con
l’approvazione del piano che i proprietari subiscono i vincoli
dell’espropriazione e l’alea a cui si è accennato, donde l’attualità
e la concretezza della questione di costituzionalità, ritenuta
rilevante dal Consiglio di Stato.
7. – Né si può far richiamo, nella specie, al principio
nominalistico, per sostenere che la misura della indennità dovrebbe
restare invariata, pur modificandosi il potere effettivo di acquisto
della moneta. Il principio predetto, infatti, è applicabile
all’indennità già liquidata, ma non può riferirsi ovviamente ai
criteri adottati dal legislatore per il calcolo del valore dei beni da
espropriare.
Non ha poi rilevanza, ai fini della risoluzione della controversia,
l’osservazione che la svalutazione monetaria costituirebbe fenomeno di
carattere generale, a cui il legislatore dovrebbe ovviare con
provvedimenti di carattere pure generale; giacché la questione di
legittimità deve essere esaminata rispetto al contenuto della norma
impugnata, indipendentemente da eventuali provvedimenti che il
legislatore potrà adottare.
8. – Si è fatto riferimento a disposizioni di leggi precedenti,
ritenute compatibili con la Costituzione, con le quali, per la
determinazione dell’indennizzo, si è stabilita una data antecedente a
quella dell’esproprio.
È opportuno tener presente che, in relazione a tale punto, questa
Corte ha avuto occasione di esaminare la legge del 15 gennaio 1885, n.
289, sul risanamento della città di Napoli, e quella sulla riforma
fondiaria, del 21 ottobre 1950, n. 841 (così detta legge stralcio,
specialmente richiamata dalle parti), non invece la legge 6 luglio
1931, n. 981, sul piano regolatore di Roma, menzionata bensì nella
sentenza n. 61 del 1957, ma soltanto al fine di indicare lo svolgimento
storico della legislazione in materia di espropriazione.
Ora, né dalla legge del 1885, né da quella sulla riforma
fondiaria, si possono trarre elementi a favore dell’assunto
dell’Avvocatura dello Stato e della difesa del Comune di Torino.
Non dalla prima legge, dato che la determinazione dell’indennità,
fondata, come è noto, su una media di valori, non prescinde dal
momento in cui si effettua l’esproprio. A quella data, infatti, è pur
sempre riferito, da un lato, il valore venale del bene e, dall’altro,
l’imponibile accertato ai fini dell’imposta immobiliare, quando non sia
possibile tener conto della somma dei fitti dell’ultimo decennio,
compresi, anche in questa ipotesi, come elementi del computo, quelli
dell’anno dell’esproprio.
E neppure utili elementi si possono trarre dalla legge sulla
riforma fondiaria.
È vero che, secondo la legge stralcio (art. 18), l’indennità è
stabilita in base al valore definitivamente accertato ai fini
dell’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio (istituita con il
decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 143), ed è perciò riportata ad
una data precedente a quella della emanazione della stessa legge e
delle espropriazioni. Ma dalla sentenza n. 61 del 1957, già ricordata,
non risulta che, a tale retrodatazione, per se stessa non incompatibile
con il precetto costituzionale, sia da ricollegare un fenomeno
dissociativo, quale quello esaminato con le sentenze un. 67 del 1959 e
91 del 1963, sopra menzionate, e neppure una situazione aleatoria,
quale si riscontra nel caso ora in esame. Si sosteneva, infatti, che
l’indennizzo dovesse essere giusto, cioè congruo e corrispondente al
valore del bene al tempo dell’espropriazione, mentre le disposizioni
impugnate avrebbero attribuito uno pseudo indennizzo, di gran lunga
inferiore al valore effettivo del bene. Ed è, in relazione appunto
alla questione così prospettata, che questa Corte, affermando i
principi dei quali si è fatto cenno, ha, in sostanza, escluso che, pur
non essendo l’indennità corrispondente al valore effettivo del bene,
potesse avere carattere puramente simbolico.
Né, d’altra parte, secondo la legge n. 841 del 1950, dato il
periodo in cui si dovevano compilare i piani ed effettuare tutte le
espropriazioni (periodo compreso fra la data di entrata in vigore della
legge e i primi del 1953), e dato il costante riferimento alla
consistenza patrimoniale al 15 novembre 1949, si concretavano
situazioni equiparabili a quelle create dal sistema della legge n.
167.
9. – La difesa del Comune, nella memoria aggiuntiva e nella
discussione orale, ha prospettato l’infondatezza della questione di
costituzionalità sotto un diverso profilo. Sostiene, infatti, che la
retrodatazione per la determinazione dell’indennizzo risponda alla
necessità di decurtare, dalla stima dei beni, il plusvalore che
deriverebbe alle aree dalla formazione di piani urbanistici: plusvalore
che si verificherebbe ogni qualvolta nuove disposizioni e provvedimenti
attribuiscano destinazione edificatoria alle aree in essi comprese.
Donde la conseguenza che l’art. 12 della legge in esame non
rappresenterebbe se non l’attuazione di tale necessità, sancita da
tutta la legislazione nella materia; e, lasciando, nella specie,
integra la qualifica ed il valore delle aree, in quanto già
edificabili, secondo il precedente piano regolatore, conserverebbe
immutata la situazione dei proprietari, come se l’indennizzo fosse
determinato con riferimento al tempo dell’espropriazione. Senonché,
anche se si volesse ritenere esatto il presupposto da cui muove
l’argomentazione anzidetta, fermo restando il principio inerente alla
decurtazione (stabilito anche dall’art. 12, secondo comma, nella parte
non denunciata), e pur ammettendo, come risulta dai lavori preparatori,
che la retrodatazione ne rappresenti un applicazione, tutto ciò
peraltro non può avere – come si assume – carattere risolutivo
nell’attuale controversia. Si tratta, infatti, di vedere se, appunto in
dipendenza dell’accennata retrodatazione, nella situazione che si è
delineata, l’indennità possa o no conservare una consistenza
rispondente all’esigenza della garanzia costituzionale.
10. – Nell’ordinanza n. 167 il Consiglio di Stato ha espresso il
dubbio che il sistema, adottato dalla legge n. 167, possa essere in
contrasto non soltanto con il terzo, ma altresì con il secondo comma
dell’art. 42 della Costituzione. In quanto cioè i proprietari delle
aree comprese nei piani, oltre ad essere soggetti all’espropriazione
incerta nel quando, sono sottoposti, dalla data dell’adozione del
piano, ai vincoli che precludono, salvo che non si trovino nella
situazione preveduta dall’art. 16, la possibilità di disporre delle
aree stesse, nell’unico modo conforme alla natura di aree fabbricabili,
o comunque in modo proficuo, data l’incertezza del momento
dell’esproprio. E ciò senza che sia preveduto alcun compenso per il
pregiudizio subito, perdurando invece gli obblighi tributari.
La Corte è d’avviso che tale questione resti assorbita nella
soluzione circa l’illegittimità del secondo comma dell’art. 12,
oggetto, come si è detto, della questione principale, sollevata
nell’attuale controversia.
Già, nella stessa ordinanza, l’accennato rilievo è considerato,
non come un’eccezione autonoma, bensì come argomentazione “a sostegno
delle eccezioni già esaminate e di diversi profili di tali eccezioni”.
L’assorbimento appare comunque giustificato dal considerare che i
vincoli, derivanti ai proprietari dall’adozione dei piani, sono stati
ritenuti causa di aggravamento della situazione dei proprietari stessi,
contribuendo alla possibilità di un indennizzo irrisorio, se non
addirittura simbolico. Onde, con il venir meno del congegno
espropriativo preveduto dalla legge in esame, per le ragioni che sono
state in precedenza esposte, viene altresì meno la necessità di
esaminare separatamente tale profilo, dato il collegamento con la
questione principale.
11. – La Corte inoltre è d’avviso che, dall’applicazione del
secondo comma dell’art. 12, possa derivare altresì una disparità di
trattamento (sempre in relazione alla consistenza dell’indennizzo) fra
i proprietari delle zone comprese nei piani, con violazione anche
dell’art. 3 della Costituzione.
Infatti, le espropriazioni possono essere effettuate in momenti
più o meno lontani dall’approvazione dei piani, con diversa incidenza
dei vincoli e degli altri fattori già menzionati, ferma restando
tuttavia la data di valutazione dei beni. Onde ne può derivare che
siano liquidate indennità, in termini reali, diverse per beni
originariamente di eguale valore e, al contrario, indennità
sostanzialmente eguali per beni in origine di valore differente.
Ora, pur ammettendosi che disparità di trattamento siano
connaturali all’attuazione graduale del piano, è peraltro da rilevare
che, nella specie, in relazione appunto al sistema di accertamento del
valore degli immobili (già ritenuto incompatibile con l’art. 42, terzo
comma, della Costituzione), si pongono in essere, come conseguenza, non
giustificate sperequazioni; giacché si vengono a trattare in modo
eguale situazioni diverse e in modo diverso situazioni eguali, a
seconda del momento dell’esproprio, disposto, ai sensi dell’art. 11,
primo comma, della legge, caso per caso, in base a scelta discrezionale
degli enti esproprianti.
Nella terza ordinanza, il Consiglio di Stato ha espresso il dubbio
che la violazione dell’art. 3 possa riscontrarsi, anche per quanto
attiene alla posizione dei proprietari dei terreni compresi nei piani,
compilati in base alla legge n. 167, rispetto a quella dei proprietari
di suoli inclusi nei piani regolatori generali. Sotto questo aspetto,
peraltro, la questione deve ritenersi infondata, poiché la preminenza
dell’interesse pubblico, valutata discrezionalmente dal legislatore,
giustifica tale disciplina.
12. – Per quanto attiene alla disparità di trattamento derivante
dall’applicazione dell’art. 16, in relazione all’art. 10 e all’art. 12,
la questione è da ritenersi in parte fondata.
In base alla predetta disposizione il diritto di costruire
direttamente alloggi economici e popolari è riconosciuto espressamente
ai proprietari dei terreni già destinati ad edilizia residenziale, ma
non anche ai proprietari dei terreni con diversa destinazione, inclusi
nei piani, ai sensi dell’art. 3, quarto comma, della legge.
Si tratta invero, anche in questo caso, di una disparità di
trattamento non giustificata, dal momento che, con l’approvazione del
piano (che, per questa parte, viene a costituire una variante al piano
regolatore) le aree anzidette acquistano la qualità di aree
edificabili, secondo gli stessi intendimenti del legislatore. Ciò
risulta chiaramente dalla relazione ministeriale al disegno di legge,
ove si pone in rilievo che spetta ai Comuni e agli enti di edilizia
popolare la trasformazione dei terreni agricoli in terreni edificabili,
ponendo così, nella stessa condizione, in quanto sia consentita
dall’attuazione del piano, tutte le proprietà fondiarie interessate.
Si deve perciò concludere che, nel senso e nei limiti ora indicati,
anche l’art. 16, primo comma, deve essere dichiarato costituzionalmente
illegittimo.
Non può ritenersi fondato invece l’altro aspetto, sotto il quale
è stata dedotta l’illegittimità dell’art. 16, nel senso che i
proprietari dei suoli, con destinazione diversa da quella edificatoria,
sarebbero indennizzati, in relazione a tale carattere, e non in quanto
edificabili.
È da osservare che, al riguardo, non può avere influenza la
trasformazione operata dai piani, dato che il valore venale è
riportato (con disposizione, sotto questo profilo, per se stessa non
incompatibile con la Costituzione) a due anni antecedenti alla
formazione dei medesimi, ad una data cioè nella quale le aree in
questione non avevano subito quella trasformazione collegata
all’adozione del piano.
13. – Non sono infine utilmente richiamati, nel caso in esame, i
precetti contenuti negli artt. 23 e 53 della Costituzione, trattandosi,
come già questa Corte ha avuto occasione di rilevare (sentenza n. 5
del 1960) di istituti giuridici ricollegati a presupposti diversi e
diversamente disciplinati dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie.
Essi, infatti, pongono in essere obbligazioni di carattere personale,
che non possono equipararsi ai trasferimenti coattivi, regolati
esclusivamente dagli artt. 42 e 43 della Costituzione.
14. – Sciogliendo la riserva di cui alle premesse della
motivazione, la Corte ritiene che, sul piano della costituzionalità,
le disposizioni degli artt. 9 e 10, nelle parti impugnate, non siano,
rispetto all’art. 12, in quel rapporto di connessione e di
interdipendenza, di cui è cenno nelle ordinanze e nelle difese delle
parti private, e che è invece contestato dalla difesa dello Stato e da
quella del Comune. Difatti la disposizione del secondo comma dell’art.
12, direttamente impugnata, ai fini della attuale controversia, deve
essere bensì interpretata alla luce delle altre disposizioni della
legge, nell’ambito delle quali deve operare, ma non è necessariamente
legata a tale sistema; e ciò, da un lato per la considerazione che,
come pure è stato chiarito, il disegno di legge, per la liquidazione
dell’indennizzo, non conteneva una disposizione del tenore di quella
dell’art. 12, secondo comma, sebbene gli artt. 9 e 10, nello stesso
disegno di legge, fossero sostanzialmente identici a quelli del testo
definitivo; dall’altro, per la considerazione che lo stesso art. 12,
del resto, nell’ultimo comma, conferisce ai Comuni ed agli altri enti
di cui all’art. 10, terzo comma, la facoltà di procedere alle
espropriazioni, avvalendosi anche di altre norme vigenti.
Ne deriva quindi che la dichiarata illegittimità costituzionale
della disposizione dell’art. 12, nei limiti e sensi indicati, non
importa anche la illegittimità delle disposizioni denunciate degli
artt. 9 e 10, sotto il particolare aspetto nel quale è stata
prospettata.
Resta fuori dell’ambito della competenza di questa Corte ogni
indagine attinente alle conseguenze di merito che, sul piano
amministrativo o giurisdizionale, possano derivare dalla presente
decisione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riunite le tre cause di cui in epigrafe,
dichiara l’illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti
indicati nella motivazione:
a) dell’art. 12, secondo comma, prima parte, della legge 18 aprile
1962, n. 167 (contenente disposizioni per favorire l’acquisizione di
aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare), in riferimento
agli artt. 42, terzo comma, e 3, primo comma, della Costituzione;
b) dell’art. 16, primo comma, di detta legge, in riferimento
all’art. 3, primo comma, della Costituzione;
dichiara non fondata, nei sensi e nei limiti indicati nella
motivazione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 9,
primo, secondo, terzo e quinto comma; 10, primo e secondo comma, della
predetta legge, in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 3, primo
comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 aprile 1965.
GASPARE AMBROSINI – GIUSEPPE CASTELLI
AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA
JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO – BIAGIO
PETROCELLI – ANTONIO MANCA – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA – MICHELE
FRAGALI – COSTANTINO MORTATI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.