Sentenza N. 22 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
09/03/1967
Data deposito/pubblicazione
09/03/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
28/02/1967
Nicola JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Dott. ANTONIO MANCA – Prof.
ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof.
COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ
– Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO –
Dott. LUIGI OGGIONI, Giudici,
agosto 1935, n. 1765, contenente disposizioni per l’assicurazione
obbligatoria degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali,
promosso con ordinanza emessa il 29 marzo 1965 dal Tribunale di Milano
nel procedimento civile vertente tra Pregnolato Sante e la società
fratelli Righini, iscritta al n. 105 del Registro ordinanze 1965 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 171 del 10
luglio 1965.
Visti gli atti di costituzione di Pregnolato Sante e della società
Righini e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 23 novembre 1966 la relazione del
Giudice Costantino Mortati;
uditi l’avv. Carlo Smuraglia, per il Pregnolato, gli avvocati Guido
Gentile ed Enrico Biamonti, per la società Righini, ed il sostituto
avvocato generale dello Stato Giovanni Albisinni, per il Presidente del
Consiglio dei Ministri.
1. – Nel corso di un procedimento civile promosso avanti al
Tribunale di Milano con atto di citazione di Pregnolato Sante per
ottenere dalla convenuta s.r.1. Fratelli Righini il risarcimento dei
danni subiti dall’attore, durante il viaggio compiuto con automezzo di
proprietà del convenuto per assolvere mansioni a lui assegnate, in
conseguenza di un incidente dovuto al fatto colposo del conducente del
veicolo, anch’esso dipendente dalla società stessa, il Tribunale in
accoglimento della richiesta formulata dalla difesa del Pregnolato
perché fosse sollevata questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4 del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, ha, con ordinanza in data
25 marzo 1965, proposto tale questione avendola ritenuta rilevante ai
fini della decisione della causa e non manifestamente infondata, dato
che l’articolo stesso, nella parte in cui sottrae il datore di lavoro
alle comuni norme in materia di responsabilità civile, con conseguente
menomazione del diritto al risarcimento a danno del lavoratore
infortunato, sembra contrastare tanto con il primo comma quanto con il
secondo comma dell’art. 3, ed altresì con gli artt. 35 e 38, che
impongono rispettivamente la tutela del lavoro in ogni sua forma, e
l’assicurazione di mezzi adeguati alle esigenze di vita a favore dei
lavoratori rimasti vittime di infortunio sul lavoro.
L’ordinanza debitamente notificata e comunicata è stata pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 171 del 10 luglio 1965.
Si sono costituiti nel giudizio avanti alla Corte il signor
Pregnolato Sante, assistito dagli avvocati Carlo Smuraglia e Luigi
Giorgetti, con deduzioni depositate il 17 maggio 1965; la resistente
società Righini rappresentata e difesa dagli avvocati Guido Gentile ed
Enrico Biamonti con deduzioni del 15 maggio stesso anno; il Presidente
del Consiglio dei Ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato con deduzioni depositate il 28 giugno 1965.
2. – La difesa dell’attore ha fatto rilevare che i danni da
infortuni non sono risarciti che in piccola parte dall’indennità
assicurativa, e che l’azione di risarcimento contro il datore è
subordinata dall’art. 4 della legge infortunistica ad una serie di
restrizioni in deroga al diritto comune, come sono quelle che
richiedono l’avvenuta condanna penale del datore per reati perseguibili
per azione pubblica, oppure quella a carico di un dipendente solo se
risulti incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro,
diversamente da quanto dispone l’art. 2049, o le altre secondo le quali
occorre si sia verificata invalidità per più di 40 giorni, o
consentono che, in caso di estinzione del processo penale l’azione
civile possa proseguire solo quando l’estinzione stessa derivi dalla
morte o dalla amnistia e non già per altre cause, come per esempio in
seguito a prescrizione dell’azione penale. Sostiene che tali
limitazioni contrastano, oltre che con i due commi dell’art. 3, e con
gli artt. 35 e 38 denunciati dall’ordinanza del Tribunale, anche con
l’art. 41. E dopo avere fatto presente che la legittimità dell’art. 4
era stata posta in dubbio, da una parte della dottrina, già in
confronto dell’art. 2087 del nuovo Codice civile e che a maggior
ragione deve apparire incompatibile con la Costituzione, conclude
chiedendo che ne sia dichiarata l’illegittimità.
In data 27 ottobre 1966 la difesa stessa ha prodotto una memoria
nella quale ribadisce le considerazioni già prima svolte per
dimostrare il contrasto dell’art. 4 con le norme costituzionali
denunciate, ed aggiunge che contrasto vi è pure con l’art. 24. Essa
affronta poi il problema più generale se il criterio transattivo cui
si ispira il sistema consacrato della legge infortunistica, fondata
sulla accettazione del principio del rischio professionale, e la
conseguente riduzione quantitativa del ristoro del danno nonché la
notevole mitigazione a favore del datore della normale responsabilità
civile possano ritenersi in armonia con la nuova Costituzione. La
risposta negativa viene argomentata dal carattere assoluto ed
inderogabile della prescrizione dell’art. 38, che non tollera riduzioni
in ordine agli adeguati mezzi di vita da assicurare al lavoratore
infortunato, nonché dal divieto che l’art. 3 oppone a trattamenti
disuguali, quali sono quelli che la legge in esame fa derivare nei
confronti di posizioni attinenti ad un unico gruppo sociale, e che
determinano una situazione di privilegio a favore del datore di lavoro.
A corroborare tale giudizio fa rilevare che il carattere transattivo
che si attribuisce al sistema del rischio professionale è solo
apparente poiché i contributi assicurativi appartengono
sostanzialmente alla retribuzione rappresentando quote di salario,
secondo è riconosciuto da un’autorevole dottrina e dalla stessa
commissione ministeriale costituita nel 1947 per la riforma della
previdenza sociale. Osserva poi che nella presente sede di giudizio di
legittimità nessun rilievo può assumere la considerazione degli
effetti sul sistema che potrebbero derivare dalla pronuncia di
annullamento dell’art. 4, e insiste nel richiedere che si decida in tal
senso.
3. – La difesa della ditta convenuta fa rilevare come il principio
del rischio professionale, cui si informa il denunciato art. 4, crea
una situazione di equilibrio, poiché, se pone a carico del datore una
responsabilità oggettiva, garantisce altresì il lavoratore anche
contro le conseguenze della propria colpa, ed è stato perciò adottato
in tutti gli Stati europei. Sotto l’aspetto giuridico, il principio
stesso si collega ad un altro più generale, secondo cui norme
particolari sulla responsabilità sono giustificate allorché il danno
colpisce coloro che hanno assunto ed accettato i rischi inerenti alla
prestazione del lavoro svolto; mentre, sotto l’aspetto politico, esso
trova Giustificazione nell’opportunità di evitare conflitti fra datori
e lavoratori, come accadrebbe se si dovessero applicare le norme sulla
presunzione di responsabilità. Fa rilevare come la legislazione in
materia ha apportato continui perfezionamenti alla disciplina
infortunistica, sia con il migliorare i trattamenti a favore dei
lavoratori vittime di incidenti sul lavoro, e sia con l’imporre misure
sempre più rigorose di prevenzione, in conformità al disposto
dell’art. 2087 del Codice civile la cui violazione pone in essere una
fattispecie giuridica di colpa penale a carico dell’imprenditore. Sulla
base di tali premesse afferma che la disciplina dell’art. 4 non si pone
in contrasto con l’art. 3 della Costituzione perché il principio di
eguaglianza non vieta trattamenti differenziati che corrispondano ad
esigenze della vita sociale, importando solo l’esclusione di privilegi;
secondo del resto risulta da disposizioni analogamente limitative della
responsabilità (come dall’art. 2047 cpv. del Codice civile: dagli
artt. 275 e 967 del Codice della navigazione, dall’art. 46 della legge
di espropriazione per pubblica utilità). Aggiunge che non può
ritenersi violata neppure la norma programmatica di cui all’art. 38
della Costituzione poiché le disposizioni che hanno migliorato il
trattamento degli infortunati e provveduto ad assicurare la loro
rieducazione soddisfano le esigenze poste dalla medesima.
Fa infine osservare che l’annullamento dell’art. 4 farebbe decadere
anche la facoltà di regresso stabilita dall’art. 5 a favore dell’ente
assicuratore verso il datore di lavoro, sconvolgendo così tutto il
sistema. Conclude chiedendo che si dichiari l’infondatezza della
questione sollevata. Con successiva memoria depositata il 27 ottobre
1966 la difesa della società Righini riafferma le argomentazioni prima
svolte e le conclusioni prese.
4. – Anche l’Avvocatura generale dello Stato, nelle sue deduzioni e
nella successiva memoria depositata il 26 ottobre, sostiene
l’infondatezza delle questioni sollevate, nella considerazione che il
sistema del rischio conferisce al lavoratore una garanzia maggiore di
quella che gli deriverebbe dall’applicazione pura e semplice dei
principi generali della responsabilità civile, in quanto prescinde
dall’accertamento della colpa e consente il risarcimento anche nel caso
che il danno si sia verificato per forza maggiore o per colpa dello
stesso infortunato, mentre addossa al datore di lavoro, con l’obbligo
del pagamento dei premi, l’onore di far fronte ad eventi che
normalmente non sarebbero a lui imputabili. Si giustifica così
l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità ex artt. 2043 e
segg. del Codice civile, la quale presuppone invece il dolo e la colpa
di lui, o di uno dei soggetti indicati nell’art. 2049 del Codice
civile. Passando quindi ad esaminare la particolare ipotesi in cui il
fatto lesivo sia tale da determinare una responsabilità penale,
l’Avvocatura stessa rileva che per i casi più lievi gli obblighi di
risarcimento sono assorbiti dalla particolare funzione del rapporto
assicurativo, mentre per quelli più gravi il datore è chiamato a
rispondere non solo pel fatto proprio ma anche per quello dei suoi
dipendenti. La limitazione in quest’ultima ipotesi della
responsabilità, solo per fatti delittuosi addebitabili ai dipendenti
che siano incaricati della direzione e sorveglianza del lavoro, apporta
una deviazione dagli ordinari principi della responsabilità civile,
che però è tale da scalfire solo in minima parte il trattamento di
cui i lavoratori fruiscono in caso di infortunio, trattamento che
risulta complessivamente più favorevole di quello derivabile dalle
norme comuni. Non sussiste perciò la denunciata violazione del
principio di eguaglianza, poiché “quando al regime della
responsabilità aquiliana si sostituisce quello della responsabilità
per rischio di impresa, ed al concetto di giudizio sulla colpa
individuale quello dell’indennizzo automatico di tipo assicurativo
(facendosi gravare i relativi obblighi sull’imprenditore), ricercare
una parità di funzionamento e di effetti tra i due sistemi è impresa
manifestamente impossibile”. Da tali considerazioni consegue, a
giudizio dell’Avvocatura, anche l’infondatezza delle altre violazioni
costituzionali denunciate. In particolare, per quanto riguarda l’art.
38 della Costituzione fa rilevare che esso ha per oggetto aspetti
sostanziali dell’assistenza sociale e nulla stabilisce circa la tutela
giurisdizionale dei vari diritti e interessi. Conclude pertanto
chiedendo altra pronuncia di rigetto.
1. – Per potere apprezzare la fondatezza della censura di
violazione del principio consacrato nell’art. 3, primo comma, che
l’ordinanza rivolge contro l’art. 4 del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765,
occorre richiamarsi alle pronuncie con le quali la Corte ha
costantemente ritenuto che il contrasto con il principio di eguaglianza
è rilevabile dal giudice della legittimità costituzionale, cui è
precluso ogni apprezzamento di merito, solo quando la disparità di
trattamento risultante dal confronto fra le discipline adottate dal
legislatore in ordine a più fattispecie relativamente omogenee sia
tale da non trovare alcun ragionevole fondamento nella diversità delle
situazioni alle quali ognuna di esse ha inteso provvedere. Si rende
pertanto necessario accertare se nella specie un siffatto fondamento, a
giustificazione del contrasto che si allega fra il citato art. 4 del
R.D. n. 1765 e gli art. 2043, 2049 e 2054, terzo comma, del Codice
civile, non possa rinvenirsi nei principi che ispirano il sistema
previdenziale – assicurativo in materia di infortuni sul lavoro, del
quale l’art. 4 è parte integrante.
Risulta che, in tale sistema, alla riduzione della misura del
risarcimento a danno dell’infortunato, rispetto a quello che
spetterebbe nella generalità dei casi in cui il danno sia stato
cagionato dal fatto doloso o colposo altrui, sulla quale si appunta la
censura del Tribunale, fa riscontro una serie di altre norme, anch’esse
derogatorie del Codice civile, le quali si risolvono in un sensibile
beneficio per il lavoratore, sia sotto l’aspetto sostanziale, in quanto
garantiscono a lui il risarcimento in ogni caso, pur quando
l’infortunio sia occorso per caso fortuito o addirittura per colpa, sia
sotto quello procedimentale, per l’automaticità della liquidazione
dell’indennizzo, che giova a sottrarlo all’esigenza del promuovimento
di apposita azione giudiziaria e della conseguente osservanza delle
regole sull’onere della prova; mentre poi nessuna eccezione più si
oppone all’impero del diritto comune allorché l’infortunio risulti
dovuto a colpa grave del datore, penalmente sanzionata. Pertanto la
posizione del lavoratore infortunato, quale deriva dal complesso
sistematico delle norme speciali relative al trattamento assicurativo,
assume caratteri così peculiari da renderla non assimilabile a quella
cui hanno riguardo le altre norme di diritto privato in materia di
responsabilità civile; e di conseguenza, non può, sotto questo
aspetto, ritenersi che faccia difetto quel ragionevole motivo del
trattamento differente da quello spettante agli altri cittadini,
sufficiente a far considerare infondata la censura di violazione
dell’art. 3, primo comma.
Una tale violazione non può riscontrarsi neanche se si prenda in
considerazione la diversità che viene a determinarsi nell’ambito della
stessa categoria dei lavoratori, secondo le allegazioni della difesa
del Pregnolato, dato che tale diversità la legge fa discendere dalla
differente gravità delle lesioni prodotte dall’infortunio, e non è
irragionevole assumere tale gravità come criterio di differenziazione
del trattamento praticato, tanto più quando si tenga presente che alla
minore entità del danno subito corrisponde anche una diminuzione dello
scarto fra l’indennità assicurativa e quella che si sarebbe potuta
conseguire alla stregua delle norme comuni.
2. – L’ordinanza prospetta il dubbio di incostituzionalità anche
sotto l’aspetto della violazione del secondo comma dell’articolo ora
citato: dubbio che sembra voglia mettere in rilievo la particolare
qualificazione che la riduzione del diritto al risarcimento assume
allorché sia disposto a carico di lavoratori, in quanto conduce ad
aggravare la situazione di inferiorità nella quale costoro si trovano,
ponendosi così in contrasto con l’obbligo imposto dal comma predetto
di rimuovere gli ostacoli che la determinano. È chiaro che
l’apprezzamento del motivo di incostituzionalità, così prospettato,
deve effettuarsi non più – come prima si è fatto – in base al
confronto con quanto è disposto in generale per gli altri cittadini,
ma invece con riguardo alle parti dello stesso rapporto di lavoro,
trattandosi di accertare se, tenuto conto delle particolari condizioni
in cui si svolge il lavoro di fabbrica o quello ad esso equiparato, il
trattamento infortunistico, quale risulta dal sistema assicurativo
vigente, non sia tale da determinare una sperequazione a danno del
lavoratore, contraddicendo così all’esigenza, fatta valere dal citato
secondo comma, della speciale tutela spettante alla parte più debole
del rapporto lavorativo. Ora è incontestabile che i danni da
infortunio sul lavoro assumano caratteri peculiari, ed è appunto in
relazione ad essi che appaiono privi di rilievo i richiami fatti dalla
difesa dei resistenti alle varie disposizioni di legge le quali
dispongono eccezioni alla normale determinazione e misura del contenuto
del danno, come nel caso degli albergatori e simili (artt. 1784, 1786
del Codice civile), o dei vettori, o esercenti di trasporti marittimi o
aerei (artt. 412, 423, 943 del Codice della navigazione) poiché dette
norme si riferiscono a danni alle cose o anche alle persone, ma sempre
occorsi in occasione di un rapporto precario di alloggio o di
trasporto.
Invece, il lavoro di fabbrica, mentre assoggetta l’intera attività
del lavoratore al potere organizzativo e di direzione
dell’imprenditore, importa in larga misura l’impiego di macchine, al
quale è fatalmente connesso il rischio di danno alla persona del
lavoratore, anche senza che ricorra alcun comportamento colposo, per
effetto di eventi del tutto fortuiti. E non può esser dubbio che (in
virtù del principio secondo cui i particolari oneri inerenti
all’esercizio di determinate attività sono da addossare al soggetto
che dall’esercizio di tali attività ricava particolari vantaggi) debba
gravare sul datore di lavoro la responsabilità del risarcimento dei
danni subiti dal lavoratore in occasione del lavoro prestato alle
dipendenze di lui nel caso che i danni stessi provengano (oltreché,
com’è ovvio, dall’imperfetto adempimento dell’obbligo di predisporre
ogni specie di misura idonea a prevenire gli infortuni) dal caso
fortuito o dalla forza maggiore. E poiché gli eventi ora menzionati
sembrano costituire i fattori determinanti gli infortuni sul lavoro
più rilevanti, sia sotto l’aspetto numerico che sotto quello
qualitativo, potrebbe sorgere un qualche dubbio sul punto se l’esonero
dalla responsabilità civile del datore, qual è sancito in via
generale dal primo comma dell’art. 4 in esame, non determini nei suoi
riguardi una posizione di maggior favore rispetto a quella in cui viene
a trovarsi il lavoratore costretto a subire in ogni caso una
decurtazione dell’ammontare del risarcimento che gli sarebbe dovuto.
Tuttavia un’indagine su questo punto, allo scopo di accertare
un’eventuale violazione dell’art. 3, richiederebbe una
particolareggiata analisi delle varie componenti causali del rischio
assicurato e della loro diversa incidenza media sugli infortuni,
indagine che esula del tutto dai poteri della Corte.
Né a differente avviso potrebbe condurre la considerazione, fatta
valere dalla difesa del Pregnolato, secondo cui l’onere dei contributi
assicurativi solo apparentemente grava sul datore, poiché in realtà
viene trasferito sul lavoratore, che quindi dall’attuale assetto del
congegno assicurativo verrebbe a sopportare, in definitiva, una
riduzione di salario. Infatti, a parte il rilievo circa l’ostacolo
opposto all’allegata traslazione dalla regolamentazione salariale
risultante dai contratti collettivi di lavoro, è da osservare che
l’eventuale suo verificarsi corrispenderebbe ad una situazione di
fatto, non apprezzabile in questa sede.
La difesa stessa ha anche invocato, a sostegno della censura di
violazione dell’art. 3, la sentenza n. 1 del 1962 di questa Corte; ma
deve escludersi che la questione allora decisa possa comunque
assimilarsi alla presente, poiché la pronuncia di illegittimità
costituzionale allora emessa riguardava una legge che, in alcuni casi,
escludeva nei confronti di una categoria di cittadini ogni indennizzo
per danni alla persona, derivanti da causa di servizio prestato a
favore dello Stato, ed in altri casi, concedeva loro un indennizzo solo
apparente.
3. – Infondata deve ritenersi la questione di illegittimità
costituzionale prospettata anche se la si esamini con riguardo
all’altro motivo, che l’ordinanza deduce dall’art. 35 della
Costituzione. Infatti il principio da questo enunciato nel suo primo
comma nulla aggiunge alle dichiarazioni risultanti dall’art. 1 della
Costituzione, nonché dal secondo comma dell’art. 3 e dall’art. 4,
primo comma, venendo piuttosto ad assumere, collocato com’è all’inizio
del titolo III, solo una funzione introduttiva alle disposizioni che
entrano a far parte di questo: cioè vuole, non già determinare i modi
e le forme della tutela del lavoro, ma solo enunciare il criterio
ispiratore comune alle disposizioni stesse, nelle quali ultime
esclusivamente sono poi da ritrovare le specificazioni degli oggetti
della tutela voluta accordare.
4. – Più consistente potrebbe sembrare l’altra denuncia di
incostituzionalità che l’ordinanza ricava dall’art. 38, nella parte in
cui questo garantisce ai lavoratori infortunati mezzi adeguati alle
loro esigenze di vita. Ma tale non si rivela ad un più approfondito
esame. È anzitutto da notare che il citato articolo pone un principio
generale, riguardante tutte le situazioni bisognevoli di prestazioni
previdenziali, e pertanto non esclude che la legge disciplini
variamente gli ordinamenti che meglio si adeguino in concreto alle
particolarità delle singole situazioni, predisponendo i mezzi
finanziari all’uopo necessari. In particolare, per quanto riguarda le
prestazioni dovute in conseguenza di infortuni sul lavoro, non si rende
possibile la loro commisurazione alle esigenze di vita se non si
proceda preventivamente alla determinazione dei criteri che debbano
presiedervi. Una volta che si fossero ritenute inapplicabili le norme
vigenti, per il loro asserito contrasto con l’art. 38, il criterio che
si ricerca non potrebbe rintracciarsi nelle disposizioni di diritto
comune, alle quali l’ordinanza ha fatto richiamo, poiché, a tenore
delle medesime, il risarcimento per danno da fatto illecito non è da
commisurare sulla base delle esigenze di vita, bensì solo sul grado di
riduzione dell’integrità fisica. D’altra parte, l’affermazione che la
riduzione dell’indennizzo, qual è disposto dalla legge denunziata, sia
tale da compromettere la soddisfazione delle esigenze di vita (che sono
da determinare sulla base di valutazioni differenti dalle altre che
riguardano il salario sufficiente, a termini dell’art. 36, secondo ha
messo in rilievo la sentenza n. 67 del 1964 della Corte) non trova
riscontro nella legislazione vigente, poiché questa contempla una
serie di provvidenze (come quelle che tengono conto del fattore
familiare nella determinazione di alcune prestazioni previdenziali, ai
sensi degli artt. 77 e 85 del T.U. n. 1124 del 1965, o le altre che
dispongono la rivalutazione periodica delle rendite, così da farle
variare in dipendenza dei mutamenti dei livelli salariali) le quali
tendono appunto ad adeguare, almeno in una certa misura, l’entità
dell’indennizzo alle esigenze di vita del lavoratore.
In conclusione, deve ritenersi che la norma denunciata non
contrasta con l’art. 38, mentre l’integrale applicazione del precetto
in esso contenuto esige la strutturazione su nuove basi dell’intero
congegno previdenziale e del relativo sistema di finanziamento.
5. – A soluzione diversa da quella prima adottata si deve giungere
quando si esamini la conformità con l’art. 3, primo comma, del terzo
comma dell’art. 4, che esonera dalla piena responsabilità il datore di
lavoro allorché il danno alla persona del lavoratore sia stato
cagionato da colpa grave, sanzionata con condanna penale, di uno dei
suoi dipendenti, che non rivesta la qualifica di incaricato della
direzione o di sorvegliante dei lavori, anche se del fatto di lui egli
dovrebbe rispondere secondo il Codice civile. Tale limitazione
all’esercizio dell’azione di risarcimento (limitazione che appare tanto
più grave quando si tenga presente l’interpretazione restrittiva che
la giurisprudenza ha dato della natura delle mansioni atte a
qualificare l’incaricato o il sorvegliante, e dell’esigenza fatta
valere dalla giurisprudenza stessa di una specifica investitura
nell’incarico da parte dell’imprenditore) sembra sfornita di ogni anche
minimo fondamento razionale, che valga a spiegare il contrasto in cui
la medesima si pone, sia con la regola generale vigente in materia, sia
con quelle risultanti dalla legislazione speciale. Secondo la prima,
quale risulta consacrata nell’art. 2049 del Codice civile, risale ai
padroni ed ai committenti la responsabilità per fatto illecito dei
domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono
addetti, indipendentemente dalla prova di qualsiasi loro colpa, anche
solo in eligendo, o senza alcuna discriminazione derivabile dalla
natura delle mansioni esplicate dai medesimi.
Ma anche le leggi speciali equiparano sempre il fatto di tutti i
dipendenti o preposti a quello del vettore o dell’esercente (così per
es., quelle dettate per l’esercizio della navigazione, artt. 414, 942,
943, 944 cpv., 952, 965, 971 del Codice della navigazione) ed anche nei
casi in cui deve aversi riguardo al grado della colpa o all’intensità
del dolo, tale requisito è esteso, senza discriminazioni, alla colpa o
al dolo dei dipendenti o preposti (artt. 943, 944 cpv., 952, 971). Non
varrebbe obbiettare che le disposizioni per ultimo richiamate si
riferiscono a danni recati a terzi e che quindi non sono invocabili per
coloro che beneficiano del regime assicurativo, poiché ciò può
valere fin dove vale tale regime, mentre nei casi in cui questo faccia
difetto, o quando si superino i limiti entro cui il regime stesso
opera, il dipendente colpito dal fatto illecito di altro dipendente
(quando l’uno o l’altro agiscano nell’esercizio del lavoro loro
commesso) viene ad assumere la posizione di terzo, ed a beneficiare
delle norme di diritto comune.
L’affermazione secondo cui la disposizione denunciata troverebbe
fondamento nella considerazione che l’infortunio occorso ad un
lavoratore pel fatto di altro dipendente dalla stessa impresa,
allorché questi non eserciti funzioni di direzione o di sorveglianza,
rientra nel rischio specifico che l’industria comporta, non fornisce in
realtà alcuna giustificazione, risolvendosi piuttosto in una pura e
semplice constatazione di quanto disposto dal legislatore. Quello che
sarebbe necessario accertare è se, una volta esclusi dal rischio
professionale coperto dall’assicurazione gli infortuni provocati da
colpa grave, configurabili come reati, e come tali accertati in una
sentenza di condanna, risponda ad una qualche esigenza di ragione far
dipendere la soddisfazione della pretesa all’integrale risarcimento
dalla natura delle mansioni espletate dal dipendente che abbia
provocato il danno.
Si è affermato che siffatta giustificazione possa ritrovarsi nel
diverso grado di utilità che proviene all’imprenditore dall’attività
esplicata dai propri dipendenti, secondo la diversità delle posizioni
rivestite da questi. Ma, una volta ammesso che la responsabilità pel
fatto dei dipendenti si fonda sul principio cuius commoda eius
incommoda, non si rende possibile operare discriminazioni sulla base
della entità dei vantaggi conseguiti, dato che tutti i dipendenti
rivestono la stessa posizione di elementi dell’impresa o dell’azienda,
e per tutti l’unica circostanza che, nella fattispecie considerata,
può venire in considerazione, è la gravità del reato commesso a
danno dell’infortunato. Informato a questo principio è l’art. 19 della
legge 31 dicembre 1963, n. 1860, sull’impiego pacifico dell’energia
nucleare che, stabilisce l’obbligo dell’esercente di risarcire il
danno, senza alcuna limitazione, nel caso che questo sia derivato da
reato commesso da lui o da coloro del cui operato esso risponde a norma
del Codice civile.
Neppure varrebbe invocare il personale rapporto fiduciario, che
lega il datore di lavoro ad alcuni e non ad altri dipendenti, perché
ciò condurrebbe ad introdurre nella figura della responsabilità
oggettiva, qual è quella gravante sull’imprenditore, un elemento di
culpa in eligendo che deve rimanere irrilevante.
La deroga ai principi ed alle norme che si sono richiamate, qual è
apportata dal terzo comma dell’art. 4 in esame, viene a porsi in
contrasto con l’art. 3, per l’ingiustificata differenza di trattamento
che importa a carico dei lavoratori colpiti dall’altrui fatto
delittuoso, non solo in confronto con i comuni cittadini, ma anche con
gli altri lavoratori che risultino danneggiati per effetto di un reato,
secondo che questo sia addebitabile ad un incaricato o un sorvegliante
o ad altro dipendente. Mentre nel caso prima considerato la diversità
del risarcimento spettante ai lavoratori danneggiati da un infortunio
che consegua da un fatto delittuoso perseguibile d’ufficio rispetto a
quello spettante agli altri lavoratori infortunati, poteva (sotto
quest’ultimo aspetto della diversità di disciplina dei lavoratori fra
di loro) trovare giustificazione nella differente entità delle lesioni
subite, analogo carattere di ragionevolezza non può riscontrarsi
quando la diversità si colleghi alla natura delle attribuzioni
esercitate dal dipendente al quale risale l’evento dannoso perseguibile
penalmente.
6. – La difesa dell’attore ha, nella memoria, fatto altresì
rilevare la incostituzionalità del quinto comma dell’art. 4, in quanto
questo, nello stabilire che spetta al giudice civile decidere circa la
sussistenza della responsabilità, a norma dei precedenti commi, per il
fatto che avrebbe costituito reato, allorché l’azione penale si sia
estinta per morte dell’imputato o per amnistia, ha omesso di
considerare il caso analogo dell’estinzione per effetto di intervenuta
prescrizione.
Tale questione non risulta formalmente proposta dall’ordinananza,
ma può tuttavia ritenersi compresa nella generica denuncia di
violazione dell’art. 3, in quanto fondata sull’asserito trattamento
differenziale di fattispecie legali fra loro equivalenti.
La censura così formulata sembra fondata, in quanto la
prescrizione dell’azione penale, per i casi presi in considerazione
dall’art. 4, che sono procedibili solamente per azione pubblica, viene
ad operare con la stessa efficacia degli altri eventi considerati nello
stesso comma quinto. L’anomalia potrebbe venire superata anche in via
di interpretazione sistematica, dato che questa conduce a far ritenere
estensibile alla prescrizione la norma stabilita per la morte o per
l’amnistia. Tuttavia, per meglio assicurare la certezza del diritto, si
deve procedere ad un’espressa statuizione in questo senso.
7. – In applicazione dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953 si
deve dichiarare anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 del
D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, che, in esecuzione della legge di
delegazione 19 gennaio 1963, n. 15, ha emanato il T.U. delle leggi
sugli infortuni, nella parte che riproduce testualmente le statuizioni
dell’art. 4 ritenute affette da tale illegittimità
Analoga applicazione non si rende necessaria in confronto all’art.
186 T.U. n. 1124, che estende la disposizione dell’art. 10 anche ai
casi di infortunio nell’agricoltura, dato che esso rinvia alla norma
che si dichiara illegittima.
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, terzo
comma, del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, contenente “disposizioni per
l’assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro e delle
malattie professionali” nella parte in cui limita la responsabilità
civile del datore di lavoro per infortunio sul lavoro derivante da
reato, all’ipotesi in cui questo sia stato commesso dagli incaricati
della direzione o sorveglianza del lavoro e non anche dagli altri
dipendenti, del cui fatto debba rispondere secondo il Codice civile;
b) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, quinto
comma, del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765, in quanto consente che il
giudice civile possa accertare che il fatto che ha provocato
l’infortunio costituisca reato soltanto nelle ipotesi di estinzione
dell’azione penale per morte dell’imputato o per amnistia, senza
menzionare l’ipotesi di prescrizione del reato;
c) in applicazione dell’art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo
1953, n. 87:
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 del D.P.R. 30
giugno 1965, n. 1124, che approva il T.U. delle disposizioni per
l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro,
limitatamente al comma terzo ed al comma quinto, nella parte in cui
essi riproducono le norme dichiarate incostituzionali nei limiti di cui
sub a) e b);
d) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4, primo e secondo comma, del R.D. 17 agosto 1935, n. 1765
predetto, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 35 e 38
della Costituzione, sollevata con ordinanza 25 marzo 1965 del Tribunale
di Milano.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 1967.
ANTONINO PAPALDO – NICOLA JAEGER –
GIOVANNI CASSANDRO – ANTONIO MANCA –
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – FRANCESCO PAOLO
BONIFACIO – LUIGI OGGIONI.