Sentenza N. 232 del 1975
Corte Costituzionale
Data generale
30/10/1975
Data deposito/pubblicazione
30/10/1975
Data dell'udienza in cui è stato assunto
22/10/1975
Dott. LUIGI OGGIONI – Avv. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI –
Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO
CRISAFULLI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI – Avv. LEONETTO
AMADEI – Dott. GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO
ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONIO DE STEFANO, Giudici,
secondo e terzo comma, del d.l. 20 febbraio 1968, n. 59, convertito in
legge 18 marzo 1968, n. 224; degli artt. 15, 16 e 34 del d.l. 19
dicembre 1969, n. 947, convertito in legge 11 febbraio 1970, n. 23,
recanti norme sull’organizzazione comune dei mercati nei settori dei
cereali, carni suine, uova, pollame, riso ed altro, promossi con
ordinanze emesse il 31 ottobre 1974 dalla Corte suprema di cassazione –
sezioni unite civili – e il 10 aprile 1975 dalla Corte d’appello di
Roma in quattro procedimenti civili vertenti tra la società Industrie
chimiche Italia centrale (I.c.I.c.) e il Ministero del commercio con
l’estero, iscritte ai nn. 50, 296, 297 e 298 del registro ordinanze
1975 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.77 del 20
marzo 1975 e n.202 del 30 luglio 1975.
Visti gli atti di costituzione della società I.c.I.c. e del
Ministero del commercio con l’estero;
udito nell’udienza pubblica dell’8 ottobre 1975 il Giudice relatore
Guido Astuti;
uditi gli avvocati Massimo Severo Giannini, Leopoldo Elia e Nicola
Catalano, per la società I.c.I.c., ed il sostituto avvocato generale
dello Stato Michele Savarese, per il Ministero del commercio con
l’estero.
Nel corso di un giudizio civile vertente tra la società Industrie
chimiche dell’Italia centrale ed il Ministero del commercio con
l’estero, le sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione,
accogliendo l’eccezione proposta dalla difesa della società I.c.I.c.,
hanno sollevato, in riferimento agli articoli 10, primo comma, e 11
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.
13, commi secondo e terzo, del decreto legge 20 febbraio 1968, n. 59,
convertito nella legge 18 marzo 1968, n. 224.
Si rileva, preliminarmente, nell’ordinanza di rinvio, che la
controversia ha avuto origine a seguito dell’incameramento parziale
della cauzione versata dalla società I.c.I.c. all’atto del rilascio in
suo favore di un titolo di importazione nella Comunità economica
europea di 6.000 tonnellate di granturco, importazione poi non
verificatasi. Secondo la società I.c.I.c. la misura dell’incameramento
sarebbe stata eccessiva in relazione a quanto disposto dai regolamenti
C.e.e. 120/1967 e 473/ 1967, sostanzialmente riprodotti nel d.l. 20
febbraio 1968, n. 59, convertito nella legge 18 marzo 1968, n. 224, e
nel d.m. 28 maggio 1968. Tale tesi era stata disattesa nei primi due
gradi di giurisdizione in base al rilievo che nella fattispecie,
esistendo delle norme nazionali regolanti la materia, successive ai
regolamenti, dovevano trovare applicazione le sole norme interne,
interpretate dai giudici nazionali, con esclusione di ogni intervento
della Corte di giustizia delle Comunità europee. Le sezioni unite
della Corte suprema di cassazione osservano che la mera riproduzione
delle disposizioni dei regolamenti C.e.e. in norme interne viola l’art.
189, comma secondo, del Trattato di Roma, ed inoltre che, pur essendo
stata in più sedi ribadita la prevalenza del diritto comunitario sul
diritto statale, non sono stati precisati i mezzi giuridici offerti
dall’ordinamento interno per realizzare tale prevalenza. In proposito,
andrebbe esclusa l’ipotesi di una nullità delle norme interne
contrarie ai regolamenti C.e.e., sembrando difficile ammettere che la
adesione al Trattato di Roma renda priva di effetto la volontà sovrana
degli organi legislativi, con ciò introducendo un vizio della legge
più grave dell’incostituzionalità. Viceversa, la violazione del
Trattato a seguito della emanazione di leggi interne in contrasto con
la normativa comunitaria, si porrebbe in urto con il principio di cui
all’art. 10 della Costituzione, il quale avrebbe recepito il principio
di diritto internazionale “pacta sunt servanda”, o con l’art. 11 della
Costituzione medesima, che conferirebbe valore costituzionale ai
trattati stipulati per perseguire la pace e la giustizia tra le
Nazioni.
Identica questione di legittimità costituzionale, estesa anche
agli artt. 15,16 e 34 del d.l. 19 dicembre 1969, n. 947, convertito
nella legge 11 febbraio 1970, n. 23, è stata sollevata dalla Corte di
appello di Roma in altre tre controversie vertenti tra la società
Industrie chimiche Italia centrale ed il Ministero del commercio con
l’estero, e sempre relative all’incameramento di canzioni versate
all’atto del rilascio di titoli di importazione poi non utilizzati.
Nei giudizi di legittimità costituzionale si è costituita la
società I.c.I.c., chiedendo l’accoglimento, se ed in quanto
necessario, delle eccezioni proposte.
Si è, altresì, costituito, a mezzo dell’Avvocatura generale dello
Stato, il Ministro per il commercio con l’estero, deducendo
l’infondatezza delle questioni sollevate.
1. – Il regolamento del Consiglio C.e.e. 13 giugno 1967, n. 120,
sull’organizzazione comune dei mercati nel settore dei cereali, dispone
all’art. 12 che il rilascio dei titoli di importazione o esportazione
è subordinato alla costituzione di un deposito cauzionale a garanzia
dell’impegno di compiere l’operazione durante il periodo di validità
del titolo, deposito che resta acquisito in tutto o in parte se
l’operazione non è realizzata entro tale termine, o se è realizzata
solo parzialmente. Lo stesso regolamento attribuisce alla Commissione
l’adozione delle misure di immediata applicazione (art. 26);
conseguentemente, il regolamento della Commissione C.e.e. 21 agosto
1967, n. 473, ha tra l’altro determinato all’art. 8, n. 3 lett. b,
l’importo da prendere in considerazione per il calcolo della cauzione o
della parte di essa da incamerare, quando trattisi di titoli
d’importazione o esportazione “per i quali il prelievo è stato fissato
in anticipo”.
Con decreto legge 20 febbraio 1968, n. 59, “ritenuta la
straordinaria necessità ed urgenza di emanare norme per l’adattamento
della vigente legislazione” in conformità del regolamento n. 120/67 e
di altri regolamenti comunitari, è stata riprodotta, tra l’altro, la
disposizione dell’art. 12 di quel regolamento (art. 13, secondo comma),
autorizzandosi inoltre il Ministro per il commercio con l’estero a
determinare, con decreto, previo concerto, “la misura della cauzione e
le modalità per la costituzione della stessa o per la prestazione di
fideiussione, nonché per lo svincolo o incameramento, totale o
parziale” (art. 13, terzo comma). E con decreto ministeriale 28 maggio
1968 è stata, tra l’altro, riprodotta all’art. 3, lett. b, la
disposizione dell’art. 8, n. 3 lett. b, del regolamento della
Commissione C.e.e. n. 473/67, sopra ricordata.
Deve qui essere precisato che il testo dell’art. 8, n. 3 lett. b,
del regolamento C.e.e. n. 473/67 è stato sostituito con l’art. 1 del
regolamento della Commissione del 7 aprile 1970, n. 638. La nuova
disposizione non deve peraltro essere presa in considerazione in questa
sede perché, come disposto dall’art. 2, essa è entrata in vigore l’11
aprile 1970 ed è applicabile solo “ai titoli di importazione
rilasciati a decorrere da tale giorno”. Tutti i titoli o certificati di
importazione cui si riferiscono i giudizi a quibus sono anteriori alla
data suindicata.
2. – Nelle cause che hanno dato origine al presente giudizio si è
discusso se ai fini del parziale incameramento delle cauzioni prestate
da privati operatori, in relazione a titoli o certificati di
importazione non interamente utilizzati nei termini di validità,
dovessero applicarsi le richiamate disposizioni dei regolamenti C.e.e.
n. 120/67 e 473/67, ovvero le successive disposizioni, di legge o
regolamento, con le quali le prime erano state riprodotte e recepite
nel nostro ordinamento interno. La questione assumeva rilevanza
decisiva, in quanto trattavasi di stabilire se a base del calcolo della
somma soggetta ad incameramento dovesse essere assunto, come richiesto
dalla parte privata, secondo l’interpretazione data dalla Corte di
giustizia delle Comunità all’art. 8, n. 3 lett. b, del regolamento
C.e.e. n. 473/67, il prelievo in vigore nel mese per il quale
l’importazione era stata prevista, ovvero, come preteso dalla pubblica
amministrazione, il prelievo in vigore nell’ultimo mese di validità
del titolo, giusta l’interpretazione che il giudice di merito aveva
ritenuto di dare all’art. 3, lett. b, del decreto ministeriale 28
maggio 1968, dichiarando che dovevano applicarsi non le norme dei
regolamenti comunitari ma le successive norme nazionali regolanti la
materia, e che pertanto non poteva tenersi conto dell’interpretazione
data alle prime dalla Corte di giustizia.
3. – Le sezioni unite della Corte di cassazione, nell’ordinanza di
rimessione, prospettano l’alternativa se il giudice italiano abbia il
potere di procedere alla diretta disapplicazione delle norme interne,
riproduttive dei regolamenti C.e.e., e in specie di quella del decreto
ministeriale 28 maggio 1968, ovvero debba sollevare questione di
legittimità costituzionale delle norme di legge che hanno riprodotto
le norme comunitarie, e autorizzato l’emanazione della norma
regolamentare dianzi ricordata.
Respingendo la prima soluzione, l’ordinanza solleva, in riferimento
agli artt. 10, primo comma, e 11 della Costituzione, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 13, secondo e terzo comma, del
d.l. 20 febbraio 1968, n. 59, convertito nella legge 18 marzo 1968,
n.224.
Le tre ordinanze della Corte di appello di Roma, di identico
contenuto, sollevano la medesima questione di costituzionalità,
denunziando inoltre gli artt. 15, 16 e 34 del d.l. 19 dicembre 1969, n.
947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n. 23.
L’ordinanza della Corte di cassazione contiene esauriente
motivazione circa la rilevanza della questione di legittimità ai fini
della decisione della causa. Deve riconoscersi la rilevanza della
medesima questione anche rispetto all’art. 16 del successivo d.l. 19
dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n. 23,
che nei suoi due commi riproduce le disposizioni dell’art. 13, secondo
e terzo comma, del precedente decreto legge, abrogate con l’art. 34
dello stesso decreto. Appare invece non rilevante la questione per
quanto concerne le disposizioni dell’art. 15 e dell’art. 34, che non
debbono essere applicate per la decisione delle cause di merito
pendenti davanti alla Corte di appello di Roma.
Avendo per oggetto la medesima questione, i giudizi possono essere
riuniti e definiti con unica sentenza.
4. – Ai fini della decisione sembra anzitutto opportuno ricordare
che sui rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento interno
questa Corte ha già avuto occasione di enunciare i seguenti principi
(sentenza 27 dicembre 1973, n. 183):
a) l’attribuzione di potestà normativa agli organi delle Comunità
europee, con la corrispondente limitazione di quella propria dei
singoli Stati membri, ha, quanto all’Italia, sicuro fondamento
nell’art. 11 della Costituzione, che legittima le limitazioni dei
poteri dello Stato a favore delle Comunità in ordine all’esercizio
delle funzioni legislativa, esecutiva e giurisdizionale;
b) i regolamenti emanati dai competenti organi delle Comunità
europee (Consiglio e Commissione), ai sensi dell’art. 189 del Trattato
di Roma, appartengono all’ordinamento proprio delle Comunità: il
diritto di queste e il diritto interno dei singoli Stati membri possono
configurarsi come sistemi giuridici autonomi e distinti, ancorché
coordinati secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita
dai trattati istitutivi delle Comunità e successivi;
c) esigenze fondamentali di eguaglianza e di certezza giuridica
postulano che le norme comunitarie, – non qualificabili come fonte di
diritto internazionale, né di diritto straniero, né di diritto
interno dei singoli Stati -, debbano avere piena efficacia obbligatoria
e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità
di leggi di recezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di
legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque
contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione uguale ed
uniforme nei confronti di tutti i destinatari;
d) risponde altresì alla logica del sistema comunitario che i
regolamenti delle Comunità, – sempreché abbiano completezza di
contenuto dispositivo, quale caratterizza di regola le norme
intersoggettive -, come fonte immediata di diritti ed obblighi sia per
gli Stati sia per i loro cittadini in quanto soggetti delle Comunità,
non debbano essere oggetto di provvedimenti statali a carattere
riproduttivo, integrativo o esecutivo, che possono comunque differirne
o condizionarne l’entrata in vigore, e tanto meno sostituirsi ad essi,
derogarvi o abrogarli, anche parzialmente. ciò, beninteso, salva la
necessità per gli Stati membri di emanare norme esecutive di
organizzazione e concernenti modalità di applicazione, richieste dagli
stessi regolamenti comunitari o comunque indispensabili, ovvero di
provvedere alla copertura finanziaria di nuove o maggiori spese
mediante variazioni di bilancio; fermo rimanendo peraltro che
l’eventuale adempimento di simili obblighi da parte dello Stato non
potrebbe costituire condizione o motivo di sospensione
dell’applicabilità della normativa comunitaria.
5. – Posti questi principi, che la Corte conferma, si deve
preliminarmente rilevare che i regolamenti comunitari n. 120/67 e
473/67 recano entrambi la clausola finale “il presente regolamento è
obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile in
ciascuno degli Stati membri”; e che, in particolare, le disposizioni
del primo come del secondo, che impongono la cauzione per
l’importazione dei cereali e determinano la misura in cui essa deve
essere incamerata, hanno, come già riconosciuto anche dalla Corte di
cassazione, evidente completezza di contenuto dispositivo. Non
sussisteva dunque motivo alcuno per recepire e riprodurre dette
disposizioni del regolamento C.e.e. n. 120/67 nei decreti legge 20
febbraio 1968, n. 59, e 19 dicembre 1969, n. 947, né quelle del
regolamento C.e.e. n. 473/67 nel regolamento ministeriale 28 maggio
1968. L’emanazione delle corrispondenti norme italiane, non dettata
né giustificabile dalla esigenza di dare alle norme comunitarie
attuazione nello Stato, ma dovuta – come ha notato la Corte di
cassazione – al disconoscimento dell’efficacia immediata e diretta
delle norme comunitarie in Italia, contrasta con i principi sanciti dal
Trattato di Roma, la cui piena legittimità costituzionale è già
stata da questa Corte riconosciuta con la ricordata decisione n. 183
del 1973.
6. – Di fronte a questo contrasto, che indubbiamente sussiste non
solo nell’ipotesi di norme interne successive incompatibili con quelle
emanate dai competenti organi delle Comunità europee, ma anche
nell’ipotesi di norme interne, legislative o regolamentari, di
contenuto puramente riproduttivo, si pone il problema della loro
eventuale disapplicazione, prospettato e risolto negativamente dalla
Corte di cassazione, e qui riproposto, sia pure in via alternativa, e
con diverse impostazioni e motivazioni, da entrambe le parti costituite
in giudizio.
Per quanto concerne le norme interne successive, emanate con legge
o con atti aventi valore di legge ordinaria, questa Corte ritiene che
il vigente ordinamento non conferisca al giudice italiano il potere di
disapplicarle, nel presupposto d’una generale prevalenza del diritto
comunitario sul diritto dello Stato. Certamente non può accogliersi la
soluzione, prospettata e respinta dalla Corte di cassazione, di una
declaratoria di nullità della legge successiva interna, dovendosi
escludere che il trasferimento agli organi delle Comunità del potere
di emanare norme giuridiche, sulla base d’un preciso criterio di
ripartizione di competenze per determinate materie, “per l’assolvimento
dei loro compiti e alle condizioni contemplate dai trattati” (cfr. art.
189 del Trattato di Roma), comporti come conseguenza una radicale
privazione di efficacia della volontà sovrana degli organi legislativi
degli Stati membri, pur manifestata nelle materie riservate dai
trattati alla normazione comunitaria; tale trasferimento fa sorgere,
invece, il diverso problema della legittimità costituzionale dei
singoli atti legislativi.
Non sembra nemmeno possibile configurare la possibilità della
disapplicazione come effetto di una scelta tra norma comunitaria e
norma interna, consentita di volta in volta al giudice italiano sulla
base di una valutazione della rispettiva resistenza. In tale ipotesi,
dovrebbe riconoscersi al giudice italiano non già la facoltà di
scegliere tra più norme applicabili, bensì quella di individuare la
sola norma validamente applicabile, ciò che equivarrebbe ad ammettere
il suo’ potere di accertare e dichiarare una incompetenza assoluta del
nostro legislatore, sia pur limitatamente a determinate materie, potere
che nel vigente ordinamento sicuramente non gli è attribuito.
Ne consegue che di fronte alla situazione determinata dalla
emanazione di norme legislative italiane, le quali abbiano recepito e
trasformato in legge interna regolamenti comunitari direttamente
applicabili, il giudice è tenuto a sollevare la questione della loro
legittimità costituzionale.
7. – Anche per quanto concerne le norme regolamentari interne,
riproduttive di norme comunitarie, il riconoscimento della diretta ed
immediata efficacia dei regolamenti C.e.e., allorché fra questi e le
norme interne si frapponga una legge dello Stato non autorizza il
giudice a disapplicare tali norme, in virtù dei principi sanciti dagli
artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, che concernono
i rapporti tra leggi e provvedimenti amministrativi appartenenti
all’ordinamento interno. Come ha osservato la Corte di cassazione,
nella specie la norma regolamentare dell’art. 3, lett. b, del decreto
ministeriale 28 maggio 1968, che ha riprodotto e sostituito l’art. 8,
n. 3 lett. b, del regolamento C.e.e n. 473/67 è stata emanata in base
alla disposizione dell’art. 13, secondo comma, del d.l. n. 59 del 1968,
e la sua disapplicazione, che da ciò tragga motivo, significherebbe
disapplicare la norma primaria che ne costituisce la fonte normativa.
Pertanto, solo a seguito della dichiarazione di incostituzionalità
dell’art. 13, secondo comma, del d.l. n. 59 del 1968, – nei limiti che
saranno precisati qui appresso -, potrà il giudice disapplicare la
disposizione regolamentare interna dianzi ricordata.
8. – Dopo queste considerazioni, che eliminano ogni dubbio circa la
rilevanza della dedotta questione di legittimità costituzionale,
appare forse superflua l’indicazione dei motivi per cui essa deve
riconoscersi pienamente fondata. Per vero, la successiva emanazione di
norme legislative interne, anche se aventi lo stesso contenuto
sostanziale dei regolamenti comunitari, comporta non soltanto la
possibilità di differirne, in tutto o in parte, l’applicazione, in
aperto contrasto con l’articolo 189, secondo comma, del Trattato di
Roma, ma anche una ben più grave conseguenza, in quanto la
trasformazione del diritto comunitario in diritto interno ne sottrae
l’interpretazione in via definitiva alla Corte di giustizia delle
Comunità, con palese violazione del regime stabilito dall’art. 177
dello stesso Trattato quale necessaria e fondamentale garanzia di
uniformità di applicazione in tutti gli Stati membri.
Entrambi questi effetti si sono verificati nel caso di specie.
L’art. 29 del d.l. 20 febbraio 1968, n. 59, e l’art. 36 del d.l. 19
dicembre 1969, n. 947, pur prevedendo che alcuni articoli (diversi da
quelli qui denunciati) avessero effetto dalla data di applicazione dei
regolamenti comunitari ivi indicati, contengono l’ordine di entrata in
vigore il giorno successivo a quello della loro pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
D’altra parte, i giudici di merito hanno ritenuto che la
espressione “prelievo fissato in anticipo”, contenuta nell’art. 8, n. 3
lett. b, del regolamento C.e.e. n. 473/67, e riprodotta nell’art.3,
lett. b del decreto ministeriale 28 maggio 1968, dovesse essere
interpretata in senso difforme dall’interpretazione già fornita in
terminis dalla Corte di giustizia delle Comunità con sentenze 10 marzo
1971 in cause 38/70 e 58/70; e ciò precisamente con la motivazione che
dovevano essere applicate non le norme dei regolamenti comunitari, ma
le successive norme nazionali regolanti la materia, e che pertanto non
v’era nemmeno ragione di chiedere o seguire la pronuncia della Corte di
giustizia a’sensi dell’art. 177 del Trattato di Roma.
È dunque evidente il contrasto con i principi enunciati dagli
artt. 189 e 177 del Trattato istitutivo della C.e.e., che comporta
violazione dell’art. 11 della nostra Costituzione, in base al quale
l’Italia ha aderito alla Comunità consentendo, in condizioni di
parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità richieste per
la sua istituzione e per il conseguimento dei suoi fini di
integrazione, solidarietà e comune sviluppo economico e sociale degli
Stati europei, e quindi anche di pace e giustizia fra le Nazioni. La
violazione dello specifico disposto dell’art. 11 rende superfluo
accertare se sussista anche violazione del principio enunciato nel
primo comma dell’art. 10.
9. – Occorre qui precisare che la declaratoria di illegittimità
della disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 13 del d.l. n.
59 del 1968, e ripetuta nel secondo comma dell’art. 16 del successivo
d.l. n. 947 del 1969, deve essere limitata alla parte in cui essa è
stata assunta a fondamento dell’emanazione di norme regolamentari
interne non indispensabili per l’applicazione in Italia dei regolamenti
C.e.e. Infatti, le disposizioni con le quali è stata autorizzata la
emanazione del decreto ministeriale 28 maggio 1968, e del successivo
decreto ministeriale 8 aprile 1971 (che lo ha sostituito ed abrogato),
non sono illegittime in toto, perché lo Stato ben poteva e doveva,
mediante legge o regolamento, dettare le norme esecutive che fossero
necessarie per l’applicazione in Italia dei regolamenti comunitari in
questione. Tali sono, ad esempio, quelle concernenti le modalità di
deposito delle cauzioni presso le tesorerie provinciali, le aziende di
credito abilitate a prestare le fideiussioni bancarie sostitutive,
ovvero gli organi ministeriali competenti a ricevere le cauzioni, ed a
disporre la loro restituzione o l’eventuale incameramento.
L’illegittimità costituzionale dell’art. 13, terzo comma, del d.l.
n. 59 del 1968, e dell’art. 16, secondo comma del d.l. n. 947 del 1969
(che ha sostituito l’abrogato art. 13 del precedente decreto, senza
peraltro travolgere il decreto ministeriale 28 maggio 1968, abrogato
solo dall’art. 6 del successivo decreto ministeriale 8 aprile 1971),
deve pertanto essere dichiarata solo nei limiti in cui il legislatore
ha reso possibile al Governo di emanare norme non strettamente
necessarie per l’applicazione dei regolamenti comunitari da parte delle
autorità amministrative e degli operatori nel nostro Paese.
Spetterà poi all’autorità giudiziaria di accertare quali norme
regolamentari interne abbiano contenuto riproduttivo, e debbano quindi
essere disapplicate ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n.
2248, all. E, in quanto illegittimamente autorizzate, e quali invece
continuino ad avere piena validità ed efficacia, in quanto
effettivamente necessarie per l’applicazione dei regolamenti C.e.e.
10. – La parte privata, nelle sue difese, ha sottolineato gli
inconvenienti connessi alla necessità di sollevare la questione di
costituzionalità delle norme legislative interne che riproducano o
contrastino con quelle dei regolamenti comunitari direttamente
applicabili, sia perché le decisioni di questa Corte non determinano
cessazione di efficacia delle norme illegittime ex tunc, sia perché,
potendosi adire questa Corte solo nel corso delle liti via via
insorgenti, risulta tardiva quella certezza giuridica che è
indispensabile per l’amministrazione come per gli operatori. E pertanto
ha chiesto che, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, sia dichiarata, come conseguenza dell’adottata decisione, la
illegittimità costituzionale derivata di una serie di disposizioni
legislative, contenute anche in altri provvedimenti, aventi carattere
riproduttivo sostitutivo, ovvero derogativo o abrogativo, di
disposizioni dei regolamenti comunitari.
Gli effetti delle decisioni di questa Corte sono stabiliti
dall’art. 136, primo comma, della Costituzione, e sarebbe quindi fuori
luogo discuterne. D’altra parte, la richiesta di una declaratoria di
illegittimità costituzionale derivata non può essere accolta, sia
perché tale pronunzia non deriverebbe dalla declaratoria di
illegittimità delle disposizioni oggi impugnate ma troverebbe
spiegazione solo nell’identità dei vizi di legittimità, sia perché
essa comporterebbe da parte di questa Corte un analitico ed integrale
esame comparativo dei regolamenti comunitari e dei successivi
provvedimenti interni, che presentano una normativa complessa e
variamente articolata, di interpretazione spesso dubbia e non sorretta
da decisioni della Corte di giustizia delle Comunità. Una
declaratoria ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953 appare
pertanto inammissibile, dal momento che essa dovrebbe essere
giustificata, con analitica motivazione, per ciascuna delle
disposizioni denunciate.
Questa Corte, può, piuttosto, auspicare che il Parlamento e il
Governo italiano provvedano, per quanto possibile, ad eliminare i
provvedimenti interni che riproducono norme dei regolamenti comunitari
direttamente applicabili, o con essi contrastano, ed evitino per
l’avvenire di procedere all’emanazione di provvedimenti non
strettamente necessari per l’applicazione dei regolamenti stessi.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, secondo
comma, del decreto legge 20 febbraio 1968, n. 59, convertito nella
legge 18 marzo 1968, n. 224, e dell’art. 16, primo comma, del decreto
legge 19 dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio
1970, n. 23;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, terzo comma,
del decreto legge 20 febbraio 1968, n. 59, convertito nella legge 18
marzo 1968, n. 224, e dell’art. 16, secondo comma, del decreto legge
19 dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n.
23, limitatamente alla parte in cui hanno reso possibile al Governo di
emanare norme regolamentari non necessarie per l’applicazione dei
regolamenti C.e.e. 13 giugno 1967, n. 120, e 21 agosto 1967, n. 473;
dichiara inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 15 e 34 del decreto legge 19
dicembre 1969, n. 947, convertito nella legge 11 febbraio 1970, n. 23.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 1975.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE – PAOLO ROSSI –
LEONETTO AMADEI – GIULIO GIONFRIDA –
EDOARDO VOLTERRA – GUIDO ASTUTI –
MICHELE ROSSANO – ANTONINO DE
STEFANO.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere