Sentenza N. 236 del 1976
Corte Costituzionale
Data generale
06/12/1976
Data deposito/pubblicazione
06/12/1976
Data dell'udienza in cui è stato assunto
25/11/1976
OGGIONI – Avv. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Dott. NICOLA REALE –
Avv. LEONETTO AMADEI – Dott. GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA
– Prof. GUIDO ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE
STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA, Giudici,
del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 20
dicembre 1975 dalla Corte di cassazione – sezione I penale –
sull’istanza di Micolitti Sergio, iscritta al n. 119 del registro
ordinanze 1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 58 del 3 marzo 1976.
Visto l’atto di costituzione di Micolitti Sergio;
udito nell’udienza pubblica del 27 ottobre 1976 il Giudice relatore
Nicola Reale;
udito l’Avv. Pasquale Petrolillo, per il Micolitti.
1. – Caluori Mario, funzionario del Ministero dell’industria e
commercio, veniva rinviato a giudizio davanti alla Corte d’assise di
Roma onde rispondere del reato di cui agli artt. 81 cpv. c.p. e 261,
comma primo, c.p. per avere nella sua qualità, e violando i doveri
inerenti alle proprie funzioni, rivelato a Pinto Aldo e ad altre
persone non autorizzate a prenderne conoscenza, il contenuto di
documenti, che doveva restare segreto nell’interesse politico ed in
quello della sicurezza dello Stato italiano, nonché del reato di
corruzione ai sensi dell’articolo 319 cpv. del codice penale.
Con il Caluori erano rinviati a giudizio, oltre al Pinto e a tal
Chiarinelli, anche altre persone tra le quali Micolitti Sergio,
imputato del reato di cui agli artt. 81 cpv. c.p. e 261, comma primo,
c.p., per avere in concorso con altri, rivelato a terze persone il
contenuto di quegli stessi documenti segreti, la cui conoscenza il
Pinto aveva ottenuto dal Caluori.
Con sentenza del 22 settembre 1955 la suddetta Corte d’assise
affermava la responsabilità dei soli Caluori, Pinto e Chiarinelli,
assolvendo invece il Micolitti per insufficienza di prove.
La Corte d’assise di appello di Roma, con sentenza 6 novembre 1956,
in riforma della pronuncia di primo grado, modificava, nei confronti di
tutti, la imputazione di cui all’art. 261, comma primo, in quella meno
grave di cui all’art. 262 c.p. (rivelazione di notizie di cui sia stata
vietata la divulgazione), affermando la responsabilità del Caluori e
del Pinto in ordine a tale reato ed assolvendo da esso, per
insufficienza di prove, il Micolitti.
Successivamente la stessa Corte d’assise di appello, giudicando in
sede di rinvio dalla Corte di cassazione che, adita dal p.m., aveva
annullato la sentenza 6 novembre 1956, con sentenza in data 9 dicembre
1959, manteneva ferma nei confronti del Caluori e del Pinto la
qualificazione giuridica del fatto ritenuta in sede di appello e
pertanto dichiarava i suddetti responsabili del delitto di cui all’art.
262 del codice penale.
Divenuta definitiva la condanna del Caluori, questi presentava, in
data 4 gennaio 1962 istanza per revisione e la Corte di cassazione, con
sentenza del 14 dicembre 1962, annullava senza rinvio entrambe le
sentenze 6 novembre 1956 e 9 dicembre 1959, assolvendo il Caluori dalle
imputazioni ascrittegli “perché i fatti non sussistono”.
Su analoga istanza di revisione proposta dal Pinto, la stessa
Corte, con sentenza 3 giugno 1963, assolveva con la medesima formula
piena anche quest’ultimo.
Con istanza 20 dicembre 1972 il Micolitti che, come già accennato,
era stato assolto dalla imputazione di cui all’articolo 262 c.p. per
insufficienza di prove, chiedeva alla Corte di cassazione che fosse, a
norma dell’art. 203 c.p.p., dichiarato a suo favore l’effetto estensivo
di tali pronunce ed, in subordine, che, ove si ritenesse di ostacolo la
propria condizione di “assolto per insufficienza di prove”, venisse
sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 553 e
554 c.p.p. nella parte in cui essi limitano l’ammissibilità della
revisione a favore dei soli condannati.
2. – La Corte di cassazione con l’ordinanza in epigrafe – premesso
che le istanze di revisione accolte con le predette sentenze, ai sensi
dell’art. 554 n. 3 c.p.p., attribuendo valore decisivo all’acquisizione
di un documento – ignorato durante le fasi del giudizio – da cui
risultava che il Pinto era autorizzato a prendere conoscenza di notizie
a torto ritenute segrete e che il Caluori era tenuto a dargliene e
premesso ancora che il Micolitti aveva denunziato la coesistenza, nello
stesso giudizio, di due decisioni contraddittorie (e, cioè, quella per
la quale i fatti ascritti al Caluori erano stati dichiarati inesistenti
ai fini dell’assoluzione piena dello stesso, e quella per la quale i
medesimi fatti erano stati ritenuti sussistenti, come presupposto
dell’assoluzione di esso Micolitti per insufficienza di prove) –
considerava innegabile il denunziato contrasto logico.
Osservava, peraltro, che alla rimozione di tale ostacolo era di
impedimento, sia pure attraverso l’effetto estensivo del giudizio di
revisione già definito e invocato dal Micolitti ai sensi dell’art. 203
c.p.p., la norma di cui all’art. 553 c.p.p., che limita in ogni caso
l’ammissibilità del giudizio di revisione alle sentenze di condanna.
In conseguenza, dopo aver osservato che tali norme determinano
un’irrazionale disparità di trattamento in danno degli assolti per
insufficienza di prove, riteneva rilevante e pertanto dichiarava non
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata dal Micolitti in relazione all’art. 3 Costituzione.
3. – Ritualmente comunicata, notificata e pubblicata, nei sensi di
legge, l’ordinanza de qua, si costituiva in giudizio il Micolitti,
rappresentato e difeso dall’avv. Petrolillo, chiedendo, con memoria
depositata il 6 febbraio 1976, che le norme denunziate fossero
dichiarate costituzionalmente illegittime. Tali conclusioni erano poi
ribadite all’udienza del 27 ottobre 1976.
1. – Come si è più ampiamente esposto in narrativa, al termine di
un procedimento penale a carico di un funzionario dello Stato e di
altri soggetti, con sentenze divenute irrevocabili, il detto
funzionario e due coimputati risultarono condannati per i delitti di
cui agli artt. 262 e 319 del codice penale mentre altri coimputati per
correità negli stessi reati risultarono invece assolti per
insufficienza di prove. Ma con sentenza 14 dicembre 1962 la Corte di
cassazione, in accoglimento della istanza di revisione proposta
dall’imputato principale, che era stato condannato, annullava senza
rinvio le dette sentenze assolvendolo da entrambe le imputazioni per
insussistenza dei fatti addebitatigli. Analoga pronunzia emetteva
successivamente nei confronti di altro condannato.
La Corte di cassazione veniva, infine, adita da uno degli assolti
per insufficienza di prove dalla imputazione di correità nel delitto
di cui all’art. 262 c.p. perché fosse dichiarato in suo favore
l’effetto estensivo ex art. 203 c.p.p. delle precedenti pronunce, le
quali, in sede di revisione, avevano accertato l’insussistenza degli
stessi fatti che invece erano stati posti a base della sentenza di
assoluzione per insufficienza di prove nei di lui confronti.
Si desume dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione che il
dubbio di legittimità costituzionale delle norme denunziate (artt. 553
e 554 c.p.p.), le quali non prevedono che possa essere richiesta la
revisione delle sentenze di assoluzione per insufficienza di prove, è
prospettato limitatamente alla produzione dell’effetto estensivo di cui
all’art. 203 c.p.p. e deve quindi ritenersi, anche se quest’ultima
norma non è richiamata nel dispositivo, che sostanzialmente sia stato
denunziato il combinato disposto degli artt. 203, 553 e 554 c.p.p.
nella parte in cui non consente che la sentenza emessa in favore di un
condannato in sede di revisione spieghi effetto estensivo nei confronti
del coimputato concorrente nello stesso reato ed assolto da esso per
insufficienza di prove.
2. – Così precisata e delimitata, la questione appare fondata.
È indubbio, infatti, che il proscioglimento per insufficienza di
prove (che fa parte del diritto vigente, ancorché la legge 3 aprile
1974, n. 108, contenente delega al Governo per la emanazione del nuovo
codice di procedura penale, preveda nell’art. 2, n. 11 l’abolizione
della formula) comporta per l’imputato – quantunque assolto – una serie
di conseguenze a lui sfavorevoli sia sul piano etico (per le ombre che
da essa si proiettano sulla sua figura morale, specie se si tratti di
reati di particolare gravità o che siano specialmente riprovati dalla
pubblica opinione) sia sul piano strettamente giuridico: conseguenze
tutte che ovviamente possono comportare un serio ostacolo al pieno
reinserimento dell’imputato nella vita sociale.
Nell’ambito strettamente legislativo va menzionato l’articolo 601
c.p.p. che presuppone esplicitamente la esistenza “di incapacità
perpetue derivanti da sentenza di proscioglimento per insufficienza di
prove” e che non risulta espressamente abrogato pur essendo ormai in
gran parte svuotato di contenuto dopo la dichiarazione di
incostituzionalità degli artt. 164-176 testo unico delle leggi di p.s.
di cui al r.d. 18 giugno 1931, n. 773 e relativi alla ammonizione, e la
caducazione di altre norme quali, ad es., l’art. 10, n. 3 Reg.
giudiziario 30 dicembre 1923, n. 2786 e gli artt. 81 e 82 Reg. 7
aprile 1925, n. 405 per il personale ferroviario. Vanno ricordati,
altresì, gli artt. 604 e 606 dello stesso codice p.p. i quali
includono le sentenze di assoluzione per insufficienza di prove fra
quelle che debbono essere iscritte nel casellario giudiziale e
menzionate nei certificati rilasciati ad autorità ed aziende pubbliche
(tranne che siano state pronunciate per contravvenzioni punibili con la
sola ammenda) e considerano le sentenze di assoluzione con formula
dubitativa, al pari di quelle di condanna, anche se non divenute
irrevocabili, quale presupposto per la iscrizione nel predetto
casellario delle sentenze di proscioglimento per una causa di
estinzione del reato o per difetto di una condizione di procedibilità.
Né meno rilevante appare l’art. 64 delle disposizioni di attuazione
c.p.p. secondo cui “se le leggi, i decreti o le convenzioni
internazionali fanno derivare una incapacità giuridica da sentenze di
proscioglimento, tale effetto si intende limitato alle sentenze di
proscioglimento per insufficienza di prove”.
Con riferimento poi alle disposizioni contenute in leggi speciali
possono ricordarsi, tra le più significative, ancorché applicabili
anche ad altre ipotesi di proscioglimento, l’art. 97 del d.P.R. 10
gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), per
il quale l’impiegato prosciolto o assolto per insufficienza di prove
può essere sottoposto a procedimento disciplinare, e, in termini
ancora più tassativi, l’art. 29 del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511,
sulle guarentigie della magistratura nonché l’art. 44 della legge 27
novembre 1933, n. 1578 (contenente norme sull’ordinamento della
professione di avvocato e di procuratore) i quali prevedono, in tali
casi, come obbligatorio, l’inizio dell’azione disciplinare. È da
notare ancora che l’art. 97 del già citato d.P.R. n. 3 del 1957
prevede, altresì, che la sospensione cautelare disposta in dipendenza
del procedimento penale sia mantenuta dopo l’inizio del procedimento
disciplinare.
Né va taciuto, come si è anche osservato in dottrina, che
ulteriori effetti sfavorevoli della sentenza di assoluzione per
insufficienza di prove derivano all’imputato, pur in mancanza di
espressi riferimenti legislativi, ma secondo prassi correnti
(discutibili o meno che esse siano), nei settori più svariati. Così,
ad esempio, nella valutazione che in sede di applicazione della pena il
giudice deve compiere ai fini della determinazione della capacità a
delinquere del colpevole (art. 133 cpv. n. 2 c.p.) e, in sede di
applicazione delle misure di sicurezza, della sua pericolosità sociale
(art. 203 c.p.) come pure ai fini dell’accertamento della qualità di
persona pericolosa per la sicurezza pubblica o per la pubblica
moralità, richiesta per l’applicazione della legge 27 dicembre 1956,
n. 1423.
Attesa l’esistenza dei vari effetti pregiudizievoli
sopramenzionati, e la cui affinità con quelli derivanti dalla sentenza
di condanna non può razionalmente essere negata, appare evidente che
la disciplina vigente, quale risulta dagli artt. 203, 553 e 554 c.p.p.,
non consentendo che la decisione emessa in sede di revisione in favore
di un condannato possa giovare, ricorrendo gli estremi del detto art.
203, a chi, imputato di concorso nello stesso reato ne sia stato
assolto per insufficienza di prove, violi il principio di uguaglianza
di cui all’art. 3 Cost. non essendo basata su presupposti logici e
giuridici che valgano a giustificarne la adozione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto
degli artt. 203, 553 e 554 del codice di procedura penale, nella parte
in cui non consente che la sentenza emessa in sede di revisione in
favore di un condannato possa spiegare l’effetto estensivo nei
confronti di chi, imputato di concorso nello stesso reato, ne sia stato
assolto per insufficienza di prove.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 novembre 1976.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
ANGELO DE MARCO – ERCOLE ROCCHETTI –
ENZO CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – NICOLA REALE – LEONETTO
AMADEI – GIULIO GIONFRIDA – EDOARDO
VOLTERRA – GUIDO ASTUTI – MICHELE
ROSSANO – ANTONINO DE STEFANO –
LEOPOLDO ELIA.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere