Sentenza N. 239 del 1975
Corte Costituzionale
Data generale
17/12/1975
Data deposito/pubblicazione
17/12/1975
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/12/1975
DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof.
VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Dott. NICOLA REALE – Prof. PAOLO ROSSI –
Avv. LEONETTO AMADEI – Dott. GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA
– Prof. GUIDO ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE
STEFANO, Giudici,
1926, n. 16 (revoca, nei casi di indegnità politica, della concessione
della cittadinanza italiana conferita ad allogeni in seguito ad
opzione), convertito in legge 24 maggio 1926, n. 898, e del d.l. 2
febbraio 1948, n. 23 (revisione delle opzioni degli alto atesini),
promosso con ricorso del Presidente della Giunta provinciale di
Bolzano, notificato il 19 febbraio 1972, depositato in cancelleria il
29 successivo ed iscritto al n. 13 del registro ricorsi 1972.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 29 ottobre 1975 il Giudice relatore
Paolo Rossi;
uditi l’avv. Giuseppe Guarino, per la Provincia di Bolzano, ed il
sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti, per i
Presidente del Consiglio dei ministri.
Con atto notificato il 19 febbraio 1972 il Presidente della Giunta
provinciale di Bolzano, rappresentato e difeso dal prof. avv. Giuseppe
Guarino, ha proposto ricorso per la dichiarazione di
incostituzionalità dell’articolo unico del r.d.l. 10 gennaio 1926, n.
16 e degli artt. 1 e seguenti del d.l. 2 febbraio 1948, n. 23
(segnatamente gli artt. 2, 3 e 5) per violazione dell’art. 2 dello
Statuto per il Trentino-Alto Adige, degli artt. 2, 26, 50 e 51 della
legge costituzionale n. 1 del 1971 e degli artt. 2 e 6 della
Costituzione.
Le norme impugnate stabiliscono rispettivamente che la concessione
della cittadinanza italiana in seguito ad opzione può essere revocata
in ogni tempo per indegnità politica, e che la revoca della scelta
della cittadinanza germanica, effettuata in base alla legge 21 agosto
1939, n. 1241 ed agli accordi italo-tedeschi del 1939, è subordinata,
anche per coloro che non si siano trasferiti all’estero, a vari
adempimenti formali, essendo inoltre esclusa per una serie di ipotesi
eccezionali.
Osserva la difesa della Provincia che una tutela dei gruppi etnici
minoritari è assicurata in generale dagli artt. 2 e 6 della
Costituzione, secondo cui il singolo è protetto “nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità” e, rispettivamente, “la
Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. L’art.
2 dello Statuto speciale dispone inoltre che “nella Regione è
riconosciuta parità di diritti ai cittadini, qualunque sia il gruppo
linguistico al quale appartengono e sono salvaguardate le rispettive
caratteristiche etniche e culturali”. Tale norma, ad avviso della
ricorrente, non aveva potuto esplicare tutti i suoi effetti sia per la
difficoltà di intendere se avesse voluto tutelare le caratteristiche
etniche dei gruppi in quanto tali, ovvero soltanto assicurare la
parità di trattamento a tutti i cittadini appartenenti ai gruppi; sia
per l’interpretazione invalsa di garantire quella protezione che fosse
desumibile da specifiche disposizioni contenute nello Statuto.
La Provincia di Bolzano osserva che la legge costituzionale n. 1
del 1971 ha introdotto in proposito profonde innovazioni, configurando
il principio di tutela delle minoranze linguistiche quale istituto
autonomo rispetto ai singoli precetti statutari, come risulta dall’art.
51 che prevede l’impugnativa delle leggi dello Stato “per violazione
del principio di tutela delle minoranze linguistiche tedesca e ladina”;
dall’art. 2 che definisce la tutela delle minoranze locali quale
interesse nazionale alla cui osservanza la Regione è vincolata
nell’emanazione della propria legislazione; dall’art. 26 che menziona
distintamente, tra i limiti delle leggi regionali, le caratteristiche
etniche e culturali dei gruppi accanto alla parità dei diritti tra i
cittadini appartenenti ai diversi gruppi; dall’art. 50 che prevede come
causa autonoma di impugnazione della legge regionale e provinciale la
violazione del principio di parità tra i gruppi linguistici.
La ricorrente deduce da quanto precede che il sistema vigente
intende non solo tutelare la parità formale tra i cittadini
appartenenti ai vari gruppi linguistici, ma altresì consentire ai
gruppi minoritari di prosperare e svilupparsi. Da questa conclusione
deriverebbe ulteriormente che le norme impugnate, in quanto
attribuiscono poteri ampiamente discrezionali in materia di
cittadinanza e disciplinano la perdita della stessa sulle basi di
presupposti formali in contrasto con i dati effettivi della convivenza,
incidono direttamente sulla composizione del gruppo etnico minoritario,
e costituirebbero una violazione del principio più volte menzionato.
In particolare l’articolo unico del r.d.l. n. 16 del 1926
contrasterebbe direttamente con l’art. 22 della Costituzione. Gli artt.
2, 3 e 5 del d.l. n. 23 del 1948, configurando come ipotesi di
riacquisto della cittadinanza casi che avrebbero dovuto essere
considerati come improduttivi di effetti per mancato trasferimento
all’estero, o introducendo ipotesi eccezionali di esclusione dal
riacquisto, diversi da quelli previsti dalla legge sulla cittadinanza,
violerebbero il menzionato principio di tutela delle minoranze.
Si e costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
con atto depositato il 9 marzo 1972, chiedendo dichiararsi
inammissibile, o respingersi nel merito, il ricorso della Provincia.
Osserva la difesa dello Stato, riprendendo argomentazioni già
altre volte formulate, che il problema dei rapporti tra preesistente
disciplina legislativa dello Stato e sopravvenuta modifica dello
Statuto speciale, con ampliamento dell’autonomia delle due Province del
Trentino-Alto Adige, può essere affrontato in due modi tra loro
alternativi. O si ritiene che le nuove disposizioni statutarie siano
direttamente ed immediatamente applicabili nei rapporti intersoggettivi
privati, anche in relazione al tenore della loro formulazione, ed
allora si avrebbe caducazione del disposto normativo impugnato dalla
ricorrente, non sussistendo conflitto di leggi ma successione e
abrogazione di norme, con conseguente inammissibilità del ricorso.
Oppure si ritiene che l’entrata in vigore del nuovo Statuto debba aver
luogo garantendo la continuità dell’ordinamento giuridico senza
produrre vere e proprie lacune nella preesistente disciplina
legislativa. Ad avviso della difesa dello Stato l’interpretazione
sistematica e le norme transitorie della legge costituzionale n. 1 del
1971, dimostrano che la seconda soluzione è quella seguita dal
legislatore costituzionale. Conseguentemente il nuovo Statuto regionale
non determinerebbe immediatamente l’illegittimità costituzionale delle
preesistenti leggi dello Stato con esso confliggenti, dovendosi invece
attendere l’emanazione delle necessarie norme di attuazione che
provvedono, entro limiti temporali prefissati, e con le procedure
appositamente previste, ad armonizzare le leggi preesistenti con il
nuovo Statuto.
Più in particolare l’Avvocatura generale rileva l’inammissibilità
della prospettata censura relativa all’art. 22 della Costituzione,
secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale che ammette la
Regione e la Provincia ad impugnare leggi dello Stato soltanto per la
violazione della sfera di competenza costituzionale loro garantita.
Nel merito le norme impugnate non inciderebbero sul principio di
tutela delle minoranze linguistiche in quanto sembrerebbero aver ad
oggetto situazioni soggettive di singoli cittadini, ed inoltre molte di
esse avrebbero da tempo esaurito i loro effetti.
In una memoria successiva la difesa della Provincia ha richiamato
la più recente giurisprudenza della Corte, contraria alle eccezioni
sollevate dall’Avvocatura dello Stato.
Alla pubblica udienza le parti hanno insistito nelle rispettive
conclusioni.
1. – Le questioni proposte dalla Provincia di Bolzano possono
essere così riassunte: a) se contrasti o meno con l’articolo 22 della
Costituzione, che vieta la privazione della cittadinanza per motivi
politici, l’articolo unico del r.d.l. 10 gennaio 1926, n. 16, secondo
cui è revocabile per indegnità politica la concessione della
cittadinanza italiana in seguito ad opzione effettuata a norma dei
trattati di pace conseguenti la prima guerra mondiale; b) se
contrastino o meno con il principio di tutela delle minoranze
linguistiche (nel significato risultante dall’art. 51 della legge
costituzionale n. 1 del 1971, in relazione agli artt. 2, 26 e 50 della
stessa legge, all’art. 2 dello Statuto per il Trentino-Alto Adige e
agli artt. 2 e 6 della Costituzione) gli artt. 1 e seguenti
(segnatamente 2, 3 e 5) del decreto legislativo 2 febbraio 1948, n. 23,
che subordinano a termini di decadenza l’istanza degli alto atesini
diretta ad ottenere la revoca dell’opzione della cittadinanza tedesca
(art. 1) o il riacquisto della cittadinanza italiana per coloro che
avessero acquistata quella germanica (art. 2), ed escludono dal
riacquisto (art. 5 in relazione all’art. 2) coloro che, tra l’altro,
abbiano appartenuto alle SS o alla Gestapo, abbiano ricoperto cariche
in altri organismi della Germania nazista o dimostrato fanatismo od
odiosità antitaliana o siano stati condannati come criminali di guerra
o per collaborazionismo, per il dubbio che le norme impugnate,
derogando al regime generale stabilito dalla legge sulla cittadinanza
del 1912, comprimano il gruppo etnico di lingua tedesca.
L’Avvocatura dello Stato solleva eccezioni d’inammissibilità
osservando che dovrebbe trovare applicazione il principio di
continuità o, alternativamente, ritenersi che il principio di tutela
delle minoranze linguistiche operi immediatamente in tutti i rapporti
giuridici, con caducazione del disposto normativo con esso
confliggente. Le eccezioni sono infondate. Risulta, infatti, che nella
specie la ricorrente non ha denunciato invasione da parte di leggi
statali anteriori di competenze legislative rivendicate oggi come
proprie sulla base della legge costituzionale n. 1 del 1971 (sentenza
n. 86 del 1975). Né il principio giuridico dedotto dall’art. 51 di
detta legge, può dar luogo, attesa la sua formulazione,
all’abrogazione delle norme impugnate, le quali quindi, nel caso in
esame, sono suscettibili di giudizio di legittimità costituzionale.
2. – La prima questione, tuttavia, è per altri motivi
inammissibile. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le
Regioni o le Provincie autonome possono dedurre in ricorso violazioni
di norme costituzionali sempreché si concretino in una lesione della
sfera di competenza costituzionale loro garantita.
L’impugnata norma del 1926 opera in un ambito che trascende gli
interessi della popolazione alto atesina di lingua tedesca, riferendosi
agli allogeni dei territori già facenti parte del Regno
austro-ungarico che avessero ottenuto la cittadinanza italiana in
seguito all’opzione prevista dai trattati di pace conseguenti alla
prima guerra mondiale (cfr. articoli 71 e seguenti legge 26 settembre
1920, n. 1321; art. 7 legge 19 dicembre 1920, n. 1778; art. 47 legge 21
febbraio 1923, n. 281). Il denunciato contrasto con l’art. 22 della
Costituzione non può quindi essere oggi prospettato come censura
autonoma dalla Provincia di Bolzano, e potrebbe venir legittimamente
sollevato, in via incidentale, da parte di un giudice che fosse
chiamato ad applicare il r.d.l. 10 gennaio 1926, n. 16.
3. – Né appare fondata la seconda questione.
L’impugnato d.l. 2 febbraio 1948, n. 23, emanato a seguito di
consultazioni diplomatiche con l’Austria, ed apprezzato dalle autorità
austriache come contenente “norme eque e liberali” nei confronti degli
optanti naturalizzati, ha preso atto della situazione giuridica e di
fatto conseguente alla legge 21 agosto 1939, n. 1241, ed ai successivi
accordi italo-tedeschi, consentendo a coloro che avessero a suo tempo
volontariamente rinunciato alla cittadinanza italiana ed acquistato
quella germanica, di riacquistare la cittadinanza italiana, malgrado le
scelte precedenti.
Il legislatore del 1948 ha tuttavia stabilito che le dichiarazioni
dirette al riacquisto della cittadinanza italiana, dovessero essere
presentate entro termini di decadenza, e che le categorie di persone,
sopra sinteticamente descritte, indicate nell’art. 5 della normativa in
esame, fossero escluse dal riacquisto.
È principalmente contro tali disposizioni che sono dirette le
denunce della ricorrente, assumendosi che il sistema normativo
applicabile al riacquisto della cittadinanza italiana da parte degli
alto atesini derogherebbe ingiustificatamente alla disciplina generale
stabilita dalla legge 13 giugno 1912, n. 555, sulla cittadinanza,
mediante disposizioni speciali che pregiudicano il gruppo minoritario
di lingua tedesca.
Per quanto concerne il regime di coloro che, avendo soltanto optato
per la cittadinanza germanica, non l’abbiano tuttavia acquistata,
l’impugnato d.l. n. 23 del 1948 consente che essi conservino la
cittadinanza italiana sol che dichiarino di revocare l’opzione nei
termini di decadenza stabiliti dall’art. 3. Questo ne determina
variamente la durata, da un minimo di 90 giorni ad un massimo di un
anno con possibilità di remissione in termini, in maniera adeguata
alle varie ipotesi considerate e non diversa dalla predisposizione di
altri termini di decadenza previsti dall’ordinamento giuridico
italiano.
L’art. 5 della normativa denunciata risulta disposizione specifica
e limitatrice dei poteri governativi rispetto all’art. 9 della legge
generale del 1912, secondo cui il Governo può rendere inefficace il
riacquisto della cittadinanza “per gravi motivi e su conforme parere
del Consiglio di Stato”. Nel caso degli alto atesini i motivi sono
assai più circoscritti: occorre che le persone indicate nell’art. 2
del d.l. del 1948 abbiano ricoperto importanti incarichi nella SOD,
nella ADEURST, nella ADO, abbiano fatto parte della Gestapo, siano
stati ufficiali o sottufficiali delle SS; siano stati condannati come
criminali di guerra o per collaborazionismo, si siano resi colpevoli di
atti di crudeltà o di grave persecuzione in danno di cittadini
italiani; abbiano dimostrato faziosità nazista, fanatismo o odiosità
antitaliana nella propaganda per le opzioni tra il 23 giugno 1939 e il
5 maggio 1945 (art. 5 citato d.l. del 1948).
La previsione di ipotesi specifiche in raffronto all’ampio tenore
della legge generale sulla cittadinanza, dimostra che la normativa
impugnata non lede il principio di tutela del gruppo etnico
minoritario. Le norme procedimentali in esame assicurano infatti ogni
garanzia già nella fase amministrativa, prevedendo che il parere in
ordine all’esclusione dal riacquisto sia emesso, dopo apposita
istruttoria in contraddittorio con l’interessato, da una commissione
presieduta da un magistrato e composta, su base paritetica, da membri
facenti parte dei due gruppi linguistici, nel rispetto del principio
costituzionale invocato.
Ferma restando la distinzione tra revoca della concessione della
cittadinanza ed esclusione dal riacquisto di chi, acquistando una
cittadinanza straniera, abbia volontariamente rinunciato a quella
italiana, può ancora aggiungersi che i casi di esclusione previsti per
gli alto atesini rispondono in generale agli stessi criteri che
legittimano la perdita della cittadinanza secondo la legge italiana del
1912 ed i testi normativi corrispondenti di molti paesi europei.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile, in riferimento all’art. 22 della
Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo
unico del r.d.l. 10 gennaio 1926, n. 16 (convertito in legge 24 maggio
1926, n. 898), per difetto di legittimazione a proporla da parte della
Provincia ricorrente;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
del decreto legislativo 2 febbraio 1948, n. 23 (contenente revisione
delle opzioni degli alto atesini), sollevata, con il ricorso in
epigrafe indicato, dalla Provincia di Bolzano, in riferimento agli
artt. 51,2,26 e 50 della legge costituzionale n. 1 del 1971,2 dello
Statuto per il Trentino-Alto Adige, 2 e 6 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 1975.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – NICOLA REALE –
PAOLO ROSSI – LEONETTO AMADEI –
GIULIO GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA –
GUIDO ASTUTI – MICHELE ROSSANO
ANTONIO DE STEFANO.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere