Sentenza N. 25 del 1965
Corte Costituzionale
Data generale
14/04/1965
Data deposito/pubblicazione
14/04/1965
Data dell'udienza in cui è stato assunto
06/04/1965
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO – Prof. ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER
– Prof. GIOVANNI CASSANDRO – Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO
MANCA – Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE
FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott.
GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO
PAOLO BONIFACIO, Giudici,
del Codice di proceduta penale promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 3 dicembre 1963 dal Tribunale di Palermo nel
procedimento penale a carico di Ardizzone Girolamo, iscritta al n. 77
del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, n. 144 del 13 giugno 1964;
2) ordinanza emessa il 30 novembre 1963 dal Tribunale di Palermo
nel procedimento penale a carico di Ardizzone Girolamo ed altri,
iscritta al n. 17 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 54 del 29 febbraio 1964.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 20 gennaio 1965 la relazione del
Giudice Giuseppe Verzì;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel corso del procedimento penale a carico del direttore del
quotidiano “Il giornale di Sicilia” Ardizzone Girolamo, imputato del
reato previsto e punito dagli artt. 684 del Codice penale e 164, n. 3,
del Codice di procedura penale per avere pubblicato gli atti di un
dibattimento penale tenuto a porte chiuse, la difesa ha sollevato la
questione di legittimità costituzionale delle norme contenute nei
suindicati articoli in riferimento all’art. 21 della Costituzione, che
garantisce la libertà di stampa.
Con ordinanza del 3 dicembre 1963, il Tribunale di Palermo,
affermando che le suddette norme del Codice penale e di procedura
penale non dettano alcun principio che condizioni il provvedimento del
giudice, sicché dalle stesse non possono ricavarsi i limiti prescritti
dalla legge al principio generale della pubblicità delle udienze; che,
d’altra parte, il limite relativo alle manifestazioni contrarie al buon
costume non è il substrato dell’art. 164, n. 3, del Codice di
procedura penale; che conseguentemente un divieto, che non abbia tale
contenuto, si pone in contrasto con il diritto di cronaca riconosciuto
anche per i fatti giudiziari, ha ritenuto la non manifesta infondatezza
e la rilevanza della questione, ed ha disposto la sospensione del
procedimento e la trasmissione degli atti a questa Corte.
L’ordinanza regolarmente notificata e comunicata è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiate della Repubblica, n. 144 del 13
giugno 1964.
Nel presente giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, la quale, con atto di intervento del 27 dicembre 1963, chiede
che si dichiari la infondatezza della questione. Premesso che il
divieto di cui si discute non è posto a tutela del segreto
istruttorio, ma piuttosto a tutela di quegli stessi interessi, che
giustificano la esclusione della pubblicità del dibattimento,
l’Avvocatura passa ad esaminare le varie ipotesi contemplate dall’art.
423 del Codice di procedura penale, nelle quali il presidente del
collegio (od il pretore) può disporre che il dibattimento od alcuni
atti di esso abbiano luogo a porte chiuse; e rileva che il divieto di
pubblicazione non può essere esteso a tutte, indistintamente, le dette
ipotesi. Una corretta interpretazione delle norme di legge dovrebbe
portare alla conclusione che, allorché il dibattito sia tenuto a porte
chiuse per ragioni di igiene in tempi di epidemia, oppure per
manifestazioni da parte del pubblico che possano turbare la serenità
del dibattimento, il divieto di pubblicazione non trova
giustificazione.
Considera poi che potrebbe mettersi in dubbio che la diffusione di
notizie relative a procedimenti giudiziari costituisca manifestazione
di pensiero, dal momento che molti atti di polizia giudiziaria, le
requisitorie, le sentenze sono il risultato delle rappresentazioni di
fatti e di opinioni proprie della polizia giudiziaria o della
magistratura. Comunque, esaminando le altre ipotesi indicate nell’art.
423 del Codice di procedura penale, la legittimità di esse si
riscontrerebbe nella efficienza di altri interessi costituzionalmente
garantiti, idonei a neutralizzare il diritto alla libera manifestazione
del pensiero, tutelato dall’art. 21. Ed infatti, hanno rilevanza
costituzionale l’interesse alla imparzialità della pronunzia
giudiziaria, l’interesse alla riservatezza personale, l’ordine
pubblico, inteso nel senso di ordine legale su cui poggia la convivenza
sociale, e la stessa morale, qualora si ritenga che abbiano identità
di contenuto la morale di cui all’art. 423 suindicato ed il buon
costume garantito dalla Costituzione. Per i rimanenti casi, infine,
sempre secondo l’Avvocatura dello Stato, la costituzionalità della
norma troverebbe fondamento nella nozione di “altruità della notizia”
intesa in senso giuridico, nel senso cioè che la notizia non può
essere diffusa senza il consenso del soggetto al quale essa appartiene:
e le notizie relative ai procedimenti giudiziari sarebbero da
considerare giuridicamente altrui.
Con altra ordinanza pronunziata in data 30 novembre 1963 nel
procedimento penale contro Ardizzone Girolamo ed altri, lo stesso
Tribunale di Palermo ha sollevato, su istanza della difesa, la medesima
questione di legittimità costituzionale degli artt. 684 del Codice
penale e 164, n. 3, del Codice di procedura penale in riferimento
all’art. 21 della Costituzione. Si osserva in detta ordinanza che
l’art. 21 della Costituzione pone un solo limite alla libertà di
stampa, e cioè le manifestazioni contrarie al buon costume, fra le
quali non può essere inclusa nessuna delle ipotesi che autorizzano a
procedere al dibattimento penale a porte chiuse.
L’ordinanza è stata notificata, comunicata e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 54 del 29 febbraio 1964. Non vi
è stata costituzione di parti.
1. – Le due cause possono essere riunite e decise con unica
sentenza dal momento che le ordinanze di rimessione propongono un’unica
ed identica questione di legittimità costituzionale: quella della
libertà di stampa, che sarebbe violata dalla impugnata norma di cui
all’art. 164, n. 3, del Codice di procedura penale, in quanto sancisce
il divieto di pubblicazione a mezzo della stampa del contenuto di
documenti e di ogni atto orale o scritto relativi alla istruzione o al
giudizio, se il dibattimento è tenuto a porte chiuse. L’ordinanza del
3 dicembre 1963, pur accennando incidentalmente alla mancanza di un
“principio che condizioni il provvedimento del giudice, sicché non
possono ricavarsi i limiti prescritti dalla legge al principio generale
della pubblicità delle udienze” non sviluppa tale concetto, e non lo
pone in relazione ad un precetto costituzionale, sicché deve
escludersi che essa abbia inteso sollevare questioni di legittimità
degli artt. 423 e 425 del Codice di procedura penale, che disciplinano
i casi di eccezione al principio generale della pubblicità delle
udienze.
2. – La pubblicità del dibattimento è garanzia di giustizia, come
mezzo per allontanare qualsiasi sospetto di parzialità; ed anche le
norme che disciplinano i casi nei quali, a tutela di svariati
interessi, è necessario derogare al principio della pubblicità,
debbono attenere al retto funzionamento della giustizia, bene supremo
dello Stato, garantito anch’esso dalla Costituzione. Ma vano espediente
sarebbe quello di escludere la presenza del pubblico dal dibattimento,
qualora fosse consentito di portare a conoscenza di una larga cerchia
di persone, a mezzo della stampa, il contenuto di quegli atti o
documenti che nel processo abbiano assunto carattere riservato. Onde,
il divieto sancito dall’art. 164, n. 3, del Codice di procedura penale
va posto sempre in rapporto diretto con le stesse particolari esigenze
di giustizia e valutato in funzione di esse.
3. – Le due ordinanze di rimessione partono dalla premessa che la
cronaca giudiziaria, siccome espressione della libertà di stampa,
troverebbe un solo limite nelle manifestazioni contrarie al buon
costume, che è il limite espressamente previsto dall’art. 21 della
Costituzione. Ma ciò non è esatto perché altri limiti sussistono. Ed
anche le libertà cosiddette privilegiate, non possono sottrarsi ai
principi generali dell’ordinamento giuridico, i quali impongono limiti
naturali alla espansione di qualsiasi diritto.
Già questa Corte ha avuto occasione di affermare che “la tutela
costituzionale dei diritti ha sempre un limite insuperabile
nell’esigenza che, attraverso l’esercizio di essi non vengano
sacrificati beni ugualmente garantiti dalla Costituzione” (sentenza n.
19 dell’anno 1962).
Né con ciò un bene viene sacrificato ad un altro, quando invece
viene regolata, nella armonica tutela di diversi fondamentali
interessi, la coesistenza di essi in un ben ordinato sistema di
convivenza sociale. Anche nel caso in esame il limite posto dalla norma
impugnata non lede il principio della libertà di stampa, ma ne
sottopone l’esercizio ad una condizione derivante dalla necessità di
tutelare un altro bene pubblico, non meno importante, quale è la
giustizia.
4. – L’art. 164, n. 3, limita la libertà di stampa in tutti i casi
in cui il dibattimento viene celebrato a porte chiuse, con un generico
riferimento agli artt. 423 e 425 del Codice di procedura penale. Ma non
tiene conto della circostanza che, in alcune delle ipotesi previste da
tali articoli, ed attinenti soltanto alla presenza fisica del pubblico
nelle aule di udienza, il principio della pubblicità del dibattimento
viene sacrificato a tutela di interessi, che nulla hanno a che vedere
con gli interessi della giustizia, e che non possono ricevere alcun
pregiudizio dalla divulgazione a mezzo della stampa di notizie
processuali.
Nel caso in cui il dibattimento si tenga a porte chiuse “per
ragioni di pubblica igiene, in tempo di diffusione di morbi epidemici o
di altre malattie contagiose” e nel caso in cui la pubblicità del
dibattimento possa “eccitare riprovevole curiosità” il collegamento
fra le due tutele non trova alcuna giustificazione e la norma impugnata
si pone in contrasto col precetto dell’art. 21 della Costituzione.
In particolare, poi, per quel che riguarda la seconda delle
suindicate ipotesi, va rilevato che la “riprovevole curiosità” a
cagione della natura dei fatti o della qualità delle persone attiene
al dibattimento considerato in sé stesso e nel suo ordinario
svolgimento, ond’è che la tutela dell’interesse in tal modo protetto
non può andare oltre il dibattimento stesso ed intaccare la libertà
di stampa, nel cui settore – per altro – il concetto di curiosità
assume aspetti e valori ben diversi.
5. – La serenità del dibattimento, volta a garantire l’interesse
alla imparzialità della pronuncia ed alla indipendenza del giudice,
viene legittimamente tutelata non soltanto escludendo la presenza del
pubblico dal dibattimento, ma anche vietando la divulgazione a mezzo
della stampa di notizie ad esso inerenti. Infatti, non si può
disconoscere che qualora le manifestazioni del pubblico possano turbare
la serenità del dibattimento, il pericolo di nocumento sussiste anche
successivamente per effetto della divulgazione a mezzo della stampa.
Tuttavia non trova adeguata giustificazione il perdurare del divieto
“fino a che siano trascorsi i termini stabiliti dalle norme sugli
archivi di Stato”, in quanto la serenità del dibattimento non corre
più alcun pericolo, allorché – esauriti i vari gradi di giurisdizione
– il processo si sia concluso. Né si può ipotizzare – come ritiene
l’Avvocatura generale dello Stato – alcun pericolo per altri eventuali
processi futuri, diversi da quello per il quale il dibattimento è
stato celebrato a porte chiuse, in quanto, per ciascuno dei nuovi
processi, subentrano nuove situazioni autonomamente tutelate. Ond’è
che la norma impugnata va dichiarata illegittima limitatamente alla
parte relativa al tempo in cui ha vigore il divieto di pubblicazione.
6. – Per quanto riguarda le altre ipotesi previste dagli artt. 423
e 425 del Codice di procedura penale, la legittimità del divieto di
pubblicazione sancita dall’art. 164, n. 3, dello stesso Codice si
rinviene nella tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti:
la sicurezza dello Stato, riferita alla tutela della esistenza, della
integrità, della unità, della indipendenza, della pace e della difesa
militare e civile dello Stato; l’ordine pubblico, inteso nel senso di
ordine legale, su cui poggia la convivenza sociale (sentenza n. 2
dell’anno 1956); la morale che va collegata al concetto di buon
costume, limite espressamente dichiarato dall’art. 21; la tutela dei
minori, per i quali la pubblicità dei fatti di causa può apportare
conseguenze veramente gravi, sia in relazione allo sviluppo spirituale,
sia in relazione alla loro vita materiale. In tutti questi casi,
sussistono interessi costituzionalmente garantiti, che appaiono
perfettamente idonei a legittimare la limitazione del diritto di
manifestare liberamente il proprio pensiero.
LA CORTE COSTITUZIONALE
decidendo sulle due cause riunite,
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 164, n. 3, del
Codice di procedura penale in riferimento all’art. 21 della
Costituzione limitatamente alle ipotesi di dibattimento celebrato a
porte chiuse perché la pubblicità “può eccitare riprovevole
curiosità” e per “ragioni di pubblica igiene”;
dichiara la illegittimità costituzionale del medesimo art. 164 –
ai sensi e nei limiti di cui in motivazione – nella parte “fino a che
siano trascorsi i termini stabiliti dalle norme sugli archivi di Stato”
riferita alla ipotesi di cui all’art. 423 del Codice di procedura
penale “quando avvengono da parte del pubblico manifestazioni, che
possono turbare la serenità del dibattimento”;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dello stesso art. 164, n. 3, del Codice di procedura penale, sollevata
dalle ordinanze del Tribunale di Palermo del 30 novembre e del 3
dicembre 1963, in riferimento all’art. 21 della Costituzione, per
quanto riguarda le altre ipotesi di dibattimento tenuto a porte chiuse
previste dagli artt. 423 e 425 del Codice di procedura penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 aprile 1965.
GASPARE AMBROSINI – GIUSEPPE CASTELLI
AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA
JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO – BIAGIO
PETROCELLI – ANTONIO MANCA – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA – MICHELE
FRAGALI – COSTANTINO MORTATI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCFSCO PAOLO BONIFACIO.