Sentenza N. 25 del 1967
Corte Costituzionale
Data generale
09/03/1967
Data deposito/pubblicazione
09/03/1967
Data dell'udienza in cui è stato assunto
28/02/1967
ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER – Prof. GIOVANNI CASSANDRO –
Prof. BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO MANCA – Prof. ALDO SANDULLI –
Prof. GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO
MORTATI – Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott.
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott.
LUIGI OGGIONI, Giudici,
della legge 30 settembre 1920, n. 1349, nel testo modificato dall’art.
5 del R.D. L. 11 gennaio 1923, n. 138 (conciliazione amministrativa per
le contravvenzioni in materia di pubblicità dei prezzi), promossi con
le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa l’8 settembre 1965 dal Pretore di Cortina
d’Ampezzo nel procedimento penale a carico di Rezzadore Leonzio,
iscritta al n. 195 del Registro ordinanze 1965 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 297 del 27 novembre 1965;
2) ordinanza emessa il 23 febbraio 1966 dal Pretore di Fermo nel
procedimento penale a carico di D’Aprile Vittoria, iscritta al n. 68
del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 118 del 14 maggio 1966.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 14 dicembre 1966 la relazione del
Giudice Biagio Petrocelli;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nel corso del procedimento penale contro Rezzadore Leonzio,
imputato del reato previsto dall’art. 9 della legge 30 settembre 1920,
n. 1349 (modificato dall’art. 4 del R.D. L. 11 gennaio 1923, n. 138),
per aver esposto in vendita generi alimentari senza indicarne il
prezzo, il Pretore di Cortina d’Ampezzo, con ordinanza dell’8 settembre
1965, ha sollevato d’ufficio questione di legittimità costituzionale
dell’art. 13 di detta legge, nel testo modificato dall’art. 5 del
suddetto R.D. L., in riferimento agli artt. 112, 25, secondo comma, 3 e
102 della Costituzione.
Nell’ordinanza si manifesta il dubbio sulla legittimità
costituzionale della norma impugnata. Questa (secondo la
interpretazione che il Pretore assume essere data generalmente dalla
prassi) attribuirebbe al Prefetto il potere di accogliere o respingere
la domanda di conciliazione amministrativa. Ne conseguirebbe:
1) una disparità di trattamento tra i casi come quello in esame e
quelli in cui ai contravventori è senz’altro consentito di estinguere
il reato mediante il pagamento di una somma fissa (art. 162 del Codice
penale ecc.);
2) la possibilità che in situazioni identiche la conciliazione
possa essere accordata o no;
3) il potere al Prefetto di disporre discrezionalmente dell’azione
penale, ovvero di concorrere discrezionalmente alla formazione della
fattispecie sostanziale da cui dipendono l’inizio o il proseguimento
dell’azione, in modo che l’esserci o non esserci reato dipenderebbe da
una determinazione discrezionale di organi amministrativi, con la
conseguente violazione del principio della riserva assoluta di legge in
materia penale e del principio della obbligatorietà dell’azione
penale.
Si assume inoltre che, secondo la norma impugnata, il Prefetto
potrebbe stabilire discrezionalmente la somma da pagare senza alcun
limite né minimo né massimo.
E infine l’amplissimo potere discrezionale concesso al Prefetto
importerebbe che la conciliazione sia accordata, nei vari casi, a
condizioni diverse, ovvero di fatto impedita, allorché le condizioni
economiche del richiedente siano tali da rendere impossibile il
pagamento di una somma troppo gravosa.
Analoga questione è stata promossa, con ordinanza del 23 febbraio
1966 dal Pretore di Fermo, nel procedimento penale a carico di D’Aprile
Vittoria, circa la legittimità costituzionale dell’art. 5 del R.D. L.
1923 n. 138, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, in quanto
“la conciliazione amministrativa, per i reati similari e di pari
gravità”, è resa possibile col pagamento di somme diverse ed entro
limiti discrezionali. L’ordinanza fa riferimento anche all’art. 25
della Costituzione nella parte in cui stabilisce che nessuno può
essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
In rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri si è
costituita, nel primo giudizio, l’Avvocatura generale dello Stato con
atto di intervento e deduzioni del 20 ottobre 1965.
L’Avvocatura esclude la fondatezza della questione in base alle
argomentazioni seguenti. Se è vero che in determinati casi la
conciliazione amministrativa è affidata alla valutazione della
pubblica Amministrazione, che può ammettere oppur no il contravventore
alla conciliazione, non è esatto che questo sia un principio generale.
La prassi cui accenna il Pretore non è dimostrata, e sarebbe in ogni
caso illegittima. Né può aver valore il fatto che nel decreto di
conciliazione il Prefetto abbia usata la formula “considerato che non
esistono motivi per respingere l’istanza”. Nemmeno è esatto che il
Prefetto, nel determinare la somma per la conciliazione, non sia legato
da alcun limite, né minimo né massimo. La norma tace su questo punto,
ma, nel silenzio, vale la disciplina prevista dal Codice penale per
l’oblazione. Inoltre, se l’azione penale non è promossa a seguito di
conciliazione amministrativa, ciò non lede l’art. 112 della
Costituzione. Infine si rileva che l’attività del Prefetto non
configura esercizio di giurisdizione, né offende la riserva di legge
di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione.
I due giudizi, data l’identità dell’oggetto, possono definirsi con
unica sentenza.
La questione non ha fondamento. Non sussiste il primo dei
presupposti da cui muove l’ordinanza del Pretore di Cortina d’Ampezzo,
cioè che la norma impugnata attribuirebbe al prefetto il potere
discrezionale di accogliere o respingere la domanda di conciliazione
amministrativa. La interpretazione che il Pretore assume essere data in
tal senso dalla prassi non trova riscontro alcuno nel testo della
norma; né può aver valore il fatto che il decreto prefettizio abbia
adoperato la formula: “considerato che non sussistono motivi per
respingere l’istanza”. D’altra parte la potestà che si vorrebbe
attribuita al Prefetto nemmeno è deducibile, come si assume, da un
preteso “collegamento sistematico” fra la norma impugnata e quelle
altre norme dell’ordinamento (art. 14 legge 7 gennaio 1929, n. 4; art.
41 T.U. delle leggi sulla pesca, ecc.) dalle quali, per i casi in esse
regolati, una potestà siffatta è esplicitamente preveduta. E ciò
perché non sussiste alcun elemento che valga a costituire un legame
idoneo, dal punto di vista logico e giuridico, a far estendere ad altre
norme, come principio generale valido per tutte, una disposizione che
si presenta invece, per speciali esigenze, come propria e particolare
di qualcuna, e sulla cui legittimità questa Corte non è attualmente
chiamata a giudicare. Riconosciuta la inesistenza del preteso potere
discrezionale del Prefetto di accogliere o respingere la domanda,
rimane assorbita ogni considerazione circa gli effetti, di diritto
sostanziale e processuale, che secondo l’ordinanza ne sarebbero seguiti
(esistenza o inesistenza del reato subordinata alla decisione
amministrativa di accoglimento o di rigetto; disuguaglianza
nell’assoggettamento o meno dei cittadini alla giurisdizione penale;
disparità di trattamento fra i casi regolati dalla norma in questione
e quelli che rientrano nella disciplina dell’art. 162 del Codice
penale, ecc.), e circa i principi costituzionali di cui si è
denunziata la violazione (artt. 112, 25, 3, 102 della Costituzione).
Egualmente infondato si ravvisa l’altro presupposto da cui muove
l’ordinanza, cioè che al Prefetto spetterebbe il potere di stabilire
discrezionalmente la somma da pagare “senza alcun limite, né minimo
né massimo”. Nella norma impugnata il primo e il secondo comma, l’uno
che determina il minimo e il massimo della pena pecuniaria, l’altro
che, immediatamente dopo, stabilisce la possibilità della
conciliazione amministrativa in base al pagamento della somma che, “a
titolo di pena pecuniaria”, sarà fissata dal Prefetto, si presentano
uniti in una correlazione testuale e logica così evidente da escludere
che il secondo comma assuma tale funzione autonoma da autorizzare il
Prefetto a prescindere dai limiti di penalità fissati dal primo. Un
tal potere, d’altra parte, non soltanto si presenterebbe senza alcuna
ragionevole spiegazione, ma l’ammetterlo importerebbe accogliere
l’assurdo di una legge che all’autorità giurisdizionale, la quale
dichiara l’illecito e le sue conseguenze con tutte le garanzie e le
forme di un regolare procedimento, avrebbe imposto il limite minimo e
massimo della pena da irrogare, mentre al Prefetto, a conclusione della
sua sommaria delibazione amministrativa, avrebbe lasciata piena
libertà di fissare la pena pecuniaria senza alcun limite né minimo
né massimo.
Nemmeno infine ha fondamento il terzo punto della questione, cioè
che il potere discrezionale del Prefetto di determinare la somma per la
conciliazione importa che questa venga di fatto accordata a condizioni
diverse in situazioni identiche (ordinanza del Pretore di Cortina
d’Ampezzo), ovvero che il pagamento di somme diverse entro limiti
discrezionali si traduce di fatto in trattamenti differenziali dei
contravventori (ordinanza del Pretore di Fermo): e ciò con la
violazione del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della
Costituzione. In tal modo la censura scende dalla norma al particolare
della sua applicazione concreta, con le valutazioni e decisioni singole
che essa necessariamente comporta, e che non possono riguardare il
giudizio di legittimità costituzionale. Questo inderogabile processo
di individuazione trova la sua peculiare manifestazione nel diritto
penale, dove l’ordinamento, tranne casi eccezionali di penalità fisse,
non può realizzare una adeguata corrispondenza della sanzione al fatto
illecito se non mediante la concreta valutazione del singolo caso, e
con quella determinazione di pena che volta per volta, con regolata
discrezionalità, ne vien fatta dal giudice. Si assume che con ciò, in
definitiva, casi in certo modo identici vengono a subire un trattamento
diverso. Ma, anche a non voler obbiettare che nessuna situazione
concreta può dirsi propriamente identica ad un’altra, bisogna
riconoscere che trattasi di inconvenienti che si può e si deve tendere
a ridurre al minimo, ma che non possono essere eliminati, per la natura
stessa del procedimento di applicazione delle norme.
Non è il caso di soffermarsi, da ultimo, sul fugace accenno del
Pretore di Fermo all’art. 25 della Costituzione e al divieto di
sottrarre il cittadino al giudice naturale precostituito per legge, in
quanto, a giudizio della Corte, un tale profilo non presenta alcuna
possibilità di essere riferito al caso in esame.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 13 della legge 30 settembre 1920, n. 1349, nel testo
modificato dall’art. 5 del R.D.L. 11 gennaio 1923, n. 138
(conciliazione amministrativa per le contravvenzioni in materia di
pubblicità dei prezzi), sollevata dal Pretore di Cortina d’Ampezzo con
ordinanza dell’8 settembre 1965 in riferimento agli articoli 112, 25,
secondo comma, 3 e 102 della Costituzione e dal Pretore di Fermo con
ordinanza del 23 febbraio 1966 in riferimento agli artt. 3 e 25, primo
comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 1967.
GASPARE AMBROSINI – ANTONINO PAPALDO
– NICOLA JAEGER – GIOVANNI CASSANDRO
– BIAGIO PETROCELLI – ANTONIO MANCA –
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI.