Sentenza N. 26 del 1980
Corte Costituzionale
Data generale
13/03/1980
Data deposito/pubblicazione
13/03/1980
Data dell'udienza in cui è stato assunto
06/03/1980
GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO ASTUTI – Dott.
MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA –
Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott. BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN –
Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof. VIRGILIO
ANDRIOLI, Giudici,
primo, secondo e terzo comma, 5 e 6, primo comma, del d.P.R. 11 gennaio
1956, n. 20 (Disposizioni sul trattamento di quiescenza del personale
statale), promosso con ordinanza emessa il 18 aprile 1973 dalla Corte
dei conti – Sezione III giurisdizionale per le pensioni civili – sul
ricorso di Rondoni Giuseppe, iscritta al n. 271 del registro ordinanze
1976 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 132 del
19 maggio 1976.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 maggio 1979 il Giudice relatore
Antonino De Stefano;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio Azzariti,
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. Con ricorso alla Corte dei conti, Sezione III giurisdizionale
per le pensioni civili, depositato il 1 febbraio 1965, il maresciallo
di 1 classe di P.S. Rondoni Giuseppe, cessato dal servizio il 30
dicembre 1963, impugnava il decreto 8 maggio 1964 del Ministro per
l’Interno, consegnatogli il 30 novembre 1964, con il quale gli veniva
liquidato il trattamento di quiescenza sulla base dello stipendio del
coefficiente 271, al IX aumento periodico, nella misura del 77,6% per i
38 anni di servizio effettivo prestato. Lamentava il ricorrente che, in
sede di liquidazione, non si era tenuto conto ch’egli aveva maturato il
decimo aumento periodico di stipendio alla data del suo collocamento a
riposo; che non gli erano stati valutati i benefici coloniali per il
servizio prestato in Tripolitania (metà di anni 5, mesi 4 e giorni
19); che tale omissione gli aveva impedito di raggiungere i 40 anni di
servizio valido per ottenere il massimo della pensione (80 per cento in
luogo del 77,6 per cento liquidatogli).
La Corte dei conti, con decisione interlocutoria 18 aprile 1973,
depositata il 14 aprile 1975, pronunciando sui motivi di gravame, ha
dichiarato che al ricorrente spetta, ai fini di pensione, sia il
riconoscimento del decimo aumento periodico di stipendio, sia il
riconoscimento per metà del servizio prestato in colonia, onde
consegue che il servizio utile a pensione sale a 43 anni. Con lo stesso
provvedimento, però, interpretando la domanda del ricorrente come
richiesta del massimo di pensione spettante, in luogo della misura
massima dell’80 per cento consentita dalla normativa vigente, si è
posta il dubbio se questo limite invalicabile fissato dal legislatore
negli articoli 2, 5 e 6 del d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 20 sia conforme
agli articoli 3, 36, primo comma e 38, primo e secondo comma, della
Costituzione, ed ha sollevato d’ufficio la relativa questione di
legittimità costituzionale, ritenendola rilevante ai fini
dell’accertamento del massimo della base pensionabile.
Ad avviso del giudice a quo le norme denunciate non lasciano
intravedere la causa giuridica della compressione operata dal
legislatore sui termini base pensionabile e serie di servizi utili. Il
limite massimo della serie di servizi è fissato in 40 anni, ma ad esso
non corrisponde, nella base pensionabile, l’ultimo stipendio goduto. Lo
stesso criterio limitativo è esteso alla ritenuta del 6 per cento in
conto entrate Tesoro sulle retribuzioni, in evidente contrasto con i
principi di tutela previdenziale affermati dagli articoli 36 e 38 della
Costituzione.
Nella materia pensionistica la discrezionalità del legislatore non
può spingersi fino a comprimere un diritto, come quello a pensione,
che per sua natura è anelastico “ope Constitutionis”. Le limitazioni
possono essere disposte, ma solo come gradazioni di effetti, nel senso
che al massimo di una serie di servizi (minore o maggiore di anni 40)
deve corrispondere una base pensionabile pari all’ultimo stipendio
goduto in servizio, di guisa che si abbia perfetta coincidenza tra
retribuzione teorica e retribuzione differita; la definizione della
percentuale massima pensionabile dev’essere quindi tenuta presente
anche in sede di ritenuta in conto Tesoro, deve cioè contemplare tutto
il vigente sistema normativo dominato da una limitazione che altera il
principio dell’indennità retributiva nel tempo.
Le norme denunciate contrasterebbero, inoltre, con l’art. 3 della
Costituzione, perché creano sperequazione di trattamento, in analoga
materia, tra dipendenti pubblici con trattamenti previdenziali
amministrati dallo Stato – la cui base pensionabile non può superare
l’80 per cento dello stipendio – e dipendenti pubblici il cui fondo
pensioni è amministrato da apposite Casse (quali ad esempio la Cassa
previdenza per i dipendenti degli enti locali) per i quali la pensione
corrispondente al massimo dell’anzianità di servizio può arrivare ad
eguagliare l’ultima retribuzione percepita in servizio.
Perciò, sospeso il giudizio sul terzo motivo di gravame, la Corte
dei conti ha denunciato l’incostituzionalità, per contrasto con gli
articoli 3, 36, primo comma, e 38, primo e secondo comma, della
Costituzione, degli articoli 2, primo, secondo e terzo comma, 5 e 6,
primo comma, del d.P.R. n. 20 del 1956, nelle parti in cui la base
pensionabile e qualunque altra voce retributiva è presa in
considerazione a fini previdenziali nella misura massima dell’80 per
cento, escludendosi quindi che al dipendente statale possa essere
conferito un trattamento di quiescenza pari all’ultima retribuzione
percepita, con conseguente applicazione al personale in attività di
servizio della ritenuta in conto entrate Tesoro o altra analoga, sulle
voci retributive alla stessa soggette, in ragione dell’80 per cento
invece che per l’intero importo.
Il provvedimento di rimessione, ritualmente comunicato e
notificato, è pervenuto alla Corte costituzionale il 23 marzo 1976, ed
è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 132
del 19 maggio 1976.
2. Nel giudizio dinanzi a questa Corte la parte privata non si è
costituita; ha spiegato invece intervento il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, con deduzioni depositate in Cancelleria il 18 settembre 1975.
L’Avvocatura preliminarmente eccepisce l’irrilevanza della proposta
questione, osservando che la stessa non ha alcuna incidenza sul
giudizio che la Corte dei conti è chiamata a decidere, nel quale il
ricorrente Rondoni ha chiesto il massimo della pensione nella misura
dell’80 per cento del trattamento economico da lui goduto al momento
della cessazione del servizio.
Nel merito conclude per l’infondatezza.
Quanto al denunciato contrasto con l’art. 36 della Costituzione,
della normativa che limita all’80 per cento la base pensionabile,
l’Avvocatura precisa che dal citato precetto costituzionale può trarsi
solo la conseguenza, da un lato, che la misura minima della pensione
deve essere tale da assicurare al pensionato e alla sua famiglia i
mezzi di sostentamento – ciò che nella specie è fuori discussione – e
dall’altro, che il trattamento pensionistico deve essere ispirato a
criterio di proporzionalità rispetto alla quantità e qualità del
lavoro prestato. Da ciò non deriva che, oltre una determinata
anzianità, la pensione debba necessariamente coincidere con il
trattamento goduto alla cessazione del servizio.
Quanto alla pretesa violazione dell’art. 3 della Costituzione,
l’Avvocatura rileva che non può essere operato un raffronto con
trattamenti pensionistici di dipendenti pubblici diversi dallo Stato,
giacché non sussiste parità di situazioni tra discipline che
diversamente dispongono sia con riguardo al trattamento economico di
servizio, sia con riguardo al sistema di contribuzione.
Ciò vale anche per il raffronto, prospettato dal giudice a quo,
col trattamento spettante ai segretari comunali e provinciali, che
fanno parte del personale statale, trattamento che trova
giustificazione nella diversità del sistema contributivo.
3. Alla pubblica udienza l’Avvocatura dello Stato ha insistito
nelle richieste e nelle deduzioni già formulate.
1. Con ordinanza emessa contestualmente alla decisione
interlocutoria di cui in narrativa, la Corte dei conti, Sezione III
giurisdizionale per le pensioni civili, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale, per contrasto con gli articoli 3, 36,
primo comma, e 38, primo e secondo comma, della Costituzione, degli
articoli 2, primo, secondo e terzo comma, 5 e 6, primo comma, del
d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 20, recante disposizioni sul trattamento di
quiescenza del personale statale, “nelle parti in cui la base
pensionabile e qualunque altra voce retributiva è presa in
considerazione a fini previdenziali nella misura massima dell’80 per
cento, escludendosi quindi che al dipendente statale possa essere
conferito un trattamento di quiescenza pari all’ultima retribuzione
percepita”.
2. Va innanzi tutto premesso che il provvedimento con il quale la
Corte dei conti ha deferito la questione, pervenuto a questa Corte il
23 marzo 1976, è stato emesso il 18 aprile 1973, anteriormente, cioè,
all’entrata in vigore (1 giugno 1974) del testo unico delle norme sul
trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato,
approvato con d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, le cui disposizioni,
in virtù del primo comma dell’art. 256, si applicano pure ai casi in
corso di trattazione, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche
per gli effetti anteriori alla data della sua entrata in vigore.
Peraltro, il terzo comma dello stesso art. 256 dispone che la base
pensionabile non possa essere determinata in misura diversa da quella
prevista dalle norme che erano applicabili alla data in cui la base
stessa deve essere riferita; e poiché le norme denunciate, vigenti
all’epoca del collocamento a riposo del ricorrente, attengono appunto
alla determinazione della base pensionabile, su di esse la Corte
ritiene di doversi pronunciare, senza richiedere al giudice a quo di
valutare se alla stregua delle nuove disposizioni la sollevata
questione sia tuttora rilevante.
Occorre poi precisare che il riferimento all’art. 5 del decreto
legislativo n. 20 del 1956 va inteso come riferimento al testo
sostituito dall’art. 3 della legge 11 luglio 1956, n. 734.
3. L’Avvocatura dello Stato ha preliminarmente eccepito che nel
giudizio a quo, secondo risulta dagli atti, il ricorrente aveva, sì,
chiesto il massimo della pensione, ma nella misura, appunto,
dell’ottanta per cento del trattamento economico da lui goduto al
momento della cessazione dal servizio: donde la inammissibilità per
difetto di rilevanza della dedotta questione.
L’eccezione va disattesa. Nel provvedimento di rimessione
esplicitamente si afferma che la domanda del ricorrente va
“interpretata” come richiesta del massimo spettante a tenore di una
normativa che pone un limite invalicabile, la cui conformità ai
parametri costituzionali vien posta in dubbio; e la Corte non può non
prender atto di tale motivato apprezzamento che, per sua costante
giurisprudenza, compete al giudice a quo.
4. Nel merito, la questione non è fondata.
La denunciata normativa prevede che, ai fini della liquidazione dei
trattamenti ordinari di quiescenza del personale statale, si consideri,
quale base pensionabile, l’ottanta per cento dell’ultimo stipendio
integralmente percepito (oltre gli eventuali altri assegni utili a
pensione), e su tale porzione si applichi al personale in attività di
servizio la ritenuta in conto entrate Tesoro. All’atto della cessazione
dal servizio, la pensione normale spettante ai dipendenti che abbiano
almeno venti anni di servizio effettivo, è pari al quarantaquattro per
cento dello stipendio e degli altri assegni utili a pensione; per ogni
anno di servizio utile oltre il ventesimo, la pensione è aumentata
dell’1,80 per cento dello stipendio e degli assegni predetti, fino a
raggiungere il massimo dell’ottanta per cento degli emolumenti stessi,
in corrispondenza ad un massimo di servizio utile di anni quaranta.
Oggetto del dubbio di costituzionalità prospettato dal giudice a
quo, non è il limite massimo dei quaranta anni di servizio utile, per
cui – a differenza degli anni compresi tra i ventuno ed i quaranta –
quelli oltre il quarantesimo, pur normalmente ipotizzabili, non
comportano alcun aumento dell’aliquota; ma l’altro massimo, e cioè il
limite della stessa aliquota dell’ottanta per cento, che preclude al
dipendente in possesso della massima anzianità di servizio presa in
considerazione dal legislatore (la quale, ripetesi, non è sotto tale
profilo messa in discussione), di conseguire una pensione pari
all’ultimo stipendio goduto. In ciò si ravvisa contrasto con i
principi di tutela previdenziale affermati dagli artt. 36 e 38 della
Costituzione.
Ora, dagl’invocati precetti, congiuntamente considerati,
innegabilmente scaturisce, secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte, una particolare protezione per il lavoratore, nel senso che il
suo trattamento di quiescenza – al pari della retribuzione in costanza
di servizio, della quale costituisce sostanzialmente un prolungamento a
fini previdenziali – deve essere proporzionato alla quantità ed alla
qualità del lavoro prestato, e deve in ogni caso assicurare al
lavoratore medesimo ed alla sua famiglia mezzi adeguati alle loro
esigenze di vita, per un’esistenza libera e dignitosa. Proporzionalità
ed adeguatezza, che non devono sussistere soltanto al momento del
collocamento a riposo, ma vanno costantemente assicurate anche nel
prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della
moneta. Ma ciò non comporta automaticamente che, nella fase della
liquidazione, il livello della pensione, in progressiva puntuale
concomitanza con il servizio prestato, debba poter attingere il
traguardo della integrale coincidenza con la retribuzione goduta
all’atto della cessazione dal servizio. obiettivo indubbiamente
ottimale, questo (ovviamente in quei rapporti di lavoro in cui, come in
quelli dell’impiego statale, l’ultima retribuzione non possa essere
quanto meno inferiore a quelle precedenti). Ad esso il legislatore
può, però, con gradualità avvicinarsi (come ha poi operato, sempre
nell’ambito del sistema pensionistico statale, aumentando la base
pensionabile con gli artt. 43 e 53 del citato t.u. n. 1092 del 1973,
nel testo sostituito dagli artt. 15 e 16 della legge 29 aprile 1976, n.
177), nell’esercizio di una discrezionalità, che faccia pur sempre
salvi gl’inderogabili criteri di proporzionalità e di adeguatezza
sopra indicati; e valgono in proposito i principi già affermati da
questa Corte nelle sentenze n.124 del 1968, n.57 del 1973, n.92 del
1975, n. 275 del 1976.
5. Le norme in esame sono state denunciate anche per violazione del
principio d’eguaglianza, in quanto creerebbero una sperequazione in
subiecta materia tra i dipendenti statali, i cui trattamenti di
quiescenza sono direttamente amministrati dallo Stato, e quei
dipendenti pubblici, il cui fondo pensioni è gestito da apposite Casse
amministrate dagl’Istituti di Previdenza nell’ambito del Ministero del
Tesoro: per i primi, infatti, il limite superiore della base
pensionabile non può travalicare, come detto, l’ottanta per cento,
mentre per i secondi è possibile che la pensione eguagli l’ultima
retribuzione percepita in servizio.
Nemmeno sotto questo profilo la questione è fondata.
Come esattamente dedotto dall’Avvocatura dello Stato, non sussiste,
sia riguardo al trattamento economico in attività di servizio, sia
riguardo al sistema contributivo preordinato al trattamento di
quiescenza, quella parità di situazioni che è il presupposto per la
valutazione della legittimità costituzionale, in riferimento all’art.
3 della Costituzione, di una diversità di disciplina. Diversità che
nel caso in esame (a differenza della questione oggetto della sentenza
di questa Corte n. 15 del 1980) va rapportata appunto ad elementi
specifici, quali sopra indicati, dei due sistemi pensionistici. Il che
non impedisce, peraltro, di sottolineare anche in questa occasione
l’esigenza di procedere ad un riordino dell’intera materia, nel segno
di una sostanziale perequazione, onde agguagliarne gl’istituti al
meglio.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 2, primo, secondo e terzo comma, 5 e 6, primo comma, del
d.P.R. 11 gennaio 1956, n. 20 (Disposizioni sul trattamento di
quiescenza del personale statale), come modificato dalla legge 11
luglio 1956, n. 734, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 36, primo
comma, e 38, primo e secondo comma, della Costituzione, dalla Corte dei
conti, Sezione III giurisdizionale per le pensioni civili, con
ordinanza del 18 aprile 1973.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 marzo 1980.
F.to: LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA – GUIDO
ASTUTI – MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA –
GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE –
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere