Sentenza N. 27 del 1981
Corte Costituzionale
Data generale
13/02/1981
Data deposito/pubblicazione
13/02/1981
Data dell'udienza in cui è stato assunto
10/02/1981
GIULIO GIONFRIDA – Prof. EDOARDO VOLTERRA – Dott. MICHELE ROSSANO –
Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA – Prof. GUGLIELMO
ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO
PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof.
VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
primo, legge cost. 11 marzo 1953, n. 1, della richiesta di referendum
popolare per l’abrogazione degli articoli 6; 7 comma secondo,
limitatamente alle parole: “e disciplinare la caccia, tenute presenti
le consuetudini e le tradizioni locali”; 8; 9; 10; 11, comma secondo
(“È fatta eccezione per le seguenti specie, oggetto di caccia, e per
i periodi sotto specificati: 1) specie cacciabili dal 18 agosto fino
al 31 dicembre: quaglia (Coturnix coturnix); tortora (Streptopelia
turtur); calandro (Anthus campestris); prispolone (Anthus trivialis);
merlo (Turdus merula); 2) specie cacciabili dal 18 agosto alla fine di
febbraio: germano reale (Anas platyrhynchos); folaga (Fuliea atra);
gallinella d’acqua (Gallinula chloropus); 3) specie cacciabili dal 18
agosto fino al 31 marzo: passero (Passer Italiae); passera mattugia
(Passer montanus); passera oltremontana (Passer domesticus); storno
(Sturnus vulgaris); poreiglione (Rallus aquaticus); alzavola (Anas
crecca); canapiglia (Anas strepera); fischione (Anas penelope); codone
(Anas acuta); marzaiola (Anas querquedula); mestolone (Anas clypeata);
moriglione (Aythya ferina); moretta (Aythya fuligula); beccaccino
(Capella gallinago); colombaccio (Columba palumbus); frullino
(Lymocryptes minimus); chiurlo (Numenius arquata); pittima minore
(Limosa lapponica); pettegola (Tringa totanus); donnola (Mustela
nivalis); volpe (Vulpes vulpes); piviere (Charadrius apricarius);
combattente (Philomachus pugnax); 4) specie cacciabili dalla terza
domenica di settembre al 31 dicembre: mammiferi: coniglio selvatico
(Oryctolagus cuniculus); lopre comune (Lepus europaeus); lepre sarda
(Lepus capensis); lepre bianca (Lepus timidus); camoseio (Rupricapra
rupicapra rupicapra); capriolo (Capreolus capreolus); cervo (Cervus
elaphus hippelaphus); daino (Dama dama); muflone (Ovis musimon), con
esclusione della popolazione sarda; uccelli: pernice bianca (Lagopus
mutus); fagiano di monte (Lyrurus tetrix); gallo cedrone (Tetrao
urogallus); coturnice (Alectoris graeca); pernice sarda (Alectoris
barbara); pernice rossa (Alectoris rufa); starna (Perdix perdix);
fagiano (Phasianus colchicus); fringuello (Fringilla coelebs); pispola
(Anthus pratensis); peppola (Fringilla montifringilla); frosone
(Coccothraustes coccothraustes); strillozzo (Emberiza calandra);
colino della virginia; verdone (Chloris chloris); fanello (Carduelis
cannabina); spioncello (Anthus spinoletta); 5) specie cacciabile dalla
terza domenica di settembre alla fine di febbraio: beccaccia
(Scolopax rusticola); 6) specie cacciabili dalla terza domeniea di
settembre fino al 31 marzo: cappellaccia (Galerida cristata);
tottavilla (Lullala arborea); allodola (Alauda arvensis); cesena
(Turdus Pilaris); tordo bottaccio (Turdus philomelos); tordo sassello
(Turdus iliacus); taccola (Coloeus monedula); corvo (Corvus
frugilegus); cornacchia nera (Corvus corone); pavoncella (Vanellus
vanellus); 7) specie cacciabile dal 1 novembre al 31 gennaio:
cinghiale.”) e comma terzo (“Possono essere disposte variazioni
dell’elenco delle specie cacciabili, con decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, sentito l’Istituto nazionale di biologia della
selvaggina ed il comitato di cui all’articolo 4).”); 12; 13, comma
secondo, limitatamente alle parole: “ai giardini zoologici o” nonché
alle parole “o di specie tradizionalmente destinate all’allevamento e
al commercio per fini ornamentali o amatoriali”, e comma terzo,
limitatamente alle parole: “o per eventuali deroghe al precedente
comma, particolarmente per fini scientifici e sperimentali,”; 14; 15;
16; 17; 18; 19; 20, comma primo, lettera 1), limitatamente alle
parole: “, salvo che per i fini di cui all’articolo 18 o nelle zone di
ripopolamento e cattura e nei centri di produzione della selvaggina, o
nelle oasi di protezione per sottrarli a sicura distruzione o morte,
purché, in tale ultimo caso, se ne dia avviso entro 24 ore all’organo
venatorio più vicino, che adotterà le decisioni del caso”, lettera
n), limitatamente alle parole: “, salvo che si tratti della civetta
(Athene noctua) da utilizzare quale zimbello per la caccia agli
alaudidi, nei limiti e nei modi stabiliti dalle leggi regionali”,
lettera q), limitatamente alle parole: “, esclusi quelli di
allevamento,”, lettera r), limitatamente alle parole: “non proveniente
da allevamenti,”, lettera t), limitatamente alle parole: “fatta
eccezione per gli storni, i passeri e le allodole nel periodo in cui
ne è consentita la caccia”; 21; 22; 25; 27, comma primo,
limitatamente alle parole: “venatorie e”, comma quarto, limitatamente
alle parole: “dipendenti degli enti delegati ai sensi dell’articolo
5” e comma quinto (“Agli agenti venatori dipendenti degli enti delegati
è vietata la caccia nell’ambito del territorio, in cui esercitano le
funzioni, salvo che per particolari motivi e previa autorizzazione
degli organi dai quali dipendono.”); 28, comma secondo, limitatamente
alle parole: “e del richiamo vivo” e comma terzo, limitatamente alle
parole: “e di ripopolamento”; 29; 30; 31, comma primo, lettera a),
limitatamente alle parole: “e la sospensione della concessione della
licenza fino a tre anni”, alle parole: “senza avere conseguito la
licenza medesima”, nonché alle parole: “e la esclusione definitiva
della concessione della licenza”; 33 e 36, della legge 27 dicembre
1977, n.968, recante: “Principi generali e disposizioni per la
protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia” (n.
16 reg. ref.).
Vista l’ordinanza in data 2 dicembre 1980 con la quale l’Ufficio
centrale per il referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato
legittima la suddetta richiesta;
udito nella camera di consiglio del 14 gennaio 1981 il Giudice
relatore Giuseppe Ferrari;
uditi l’avv. Sergio Panunzio per il comitato promotore e l’avvocato
dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
1. – Con ordinanza del 2 dicembre 1980, pervenuta a questa Corte
il 6 successivo, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito
presso la Corte di cassazione, ha dichiarato legittima la richiesta di
referendum popolare presentata il 26 giugno 1980 dai signori Rippa
Giuseppe, Cherubini Laura, Passeri Maria Grazia e Pergameno Silvio,
per l’abrogazione – totale o parziale – di venticinque articoli della
lege 27 dicembre 1977, n. 968, recante “Principi generali e
disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e disciplina
della caccia”.
2. – Ricevuta comunicazione dell’ordinanza, il Presidente di
questa Corte ha fissato per la conseguente deliberazione il giorno 14
gennaio 1981, dandone comunicazione ai presentatori della richiesta ed
al Presidente del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 33,
secondo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352. Nel termine
prescritto dall’art. 33, terzo comma, della menzionata legge n. 352
del 1970, hanno depositato memorie, oltre che l’Avvocatura dello
Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri,
il Comitato promotore del referendum e la promotrice e presentatrice
Grosso Maria Teresa, anche la regione Friuli – Venezia Giulia.
Hanno inoltre presentato una memoria unica l’Unione nazionale
delle associazioni venatorie italiane, l’Unione nazionale Enalcaccia,
pesca e tiro, l’Arcicaccia, la Federazione italiana della caccia,
l’Associazione nazionale uccellatori e uccellinai, l’Associazione
nazionale Libercaccia, l’Ente produttori selvaggina.
3. – Secondo l’Avvocatura dello Stato, la richiesta di referendum
sopra riportata dovrebbe essere dichiarata inammissibile. A1 riguardo
nella memoria si osserva che, poiché dall’eventuale esito positivo
del referendum deriverebbe la generalizzazione del divieto di caccia,
risulterebbe conseguentemente svuotata di contenuto la materia
“caccia” e, quindi, violata la sfera di autonomia normativa garantita
dall’articolo 117 Cost. al legislatore regionale.
4. – Secondo il Comitato promotore e la promotrice e presentatrice
Grosso Maria Teresa, invece, la richiesta referendaria sarebbe
ammissibile sotto ogni profilo.
La legge di cui si propone la parziale abrogazione non sarebbe,
infatti, sussumibile in alcuna delle categorie contemplate dall’art.
75 della Costituzione. Premesso, poi, che il divieto assoluto di
caccia non implicherebbe violazione di alcuna convenzione o direttiva
della C.E.E., si sostiene in particolare che neppure potrebbero
invocarsi i limiti enucleati, in ordine all’ammissibilità delle
richieste referendarie, dalla sentenza di questa Corte n. 16 del 1978.
Non quello conseguente alla “eterogeneità delle domande”, essendo
esse nella specie sicuramente caratterizzate da una “matrice
razionalmente unitaria”; non il limite concernente le leggi “a
contenuto costituzionalmente vincolato”, essendo quella dettata dalla
legge n. 968 solo una delle possibili discipline che il legislatore
avrebbe potuto adottare ex articolo 117 Cost. Né – si sostiene – il
diritto di caccia può considerarsi costituzionalmente protetto,
essendo certo che l’art. 117 Cost. non stabilisce affatto una garanzia
costituzionale della permanente liceità delle attività medesime. Per
altro verso, poiché l’art. 117 non pone una disciplina sostanziale
delle materie ivi indicate, ma fissa solo una distribuzione delle
competenze legislative fra Stato e Regioni, neppure potrebbe ritenersi
che il divieto assoluto di caccia si risolverebbe in una limitazione
della competenza legislativa concorrente delle regioni a statuto
ordinario, che la conserverebbero, oltre che in ordine alla disciplina
del regime conseguente al divieto, anche per quanto concerne i
numerosi altri aspetti della protezione della fauna.
Tantomeno – si osserva ancora – il divieto generale di caccia
inciderebbe sulla competenza legislativa primaria delle regioni a
statuto speciale o darebbe luogo ad una violazione del principio di
uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. Le stesse memorie contestano,
quindi, gli assunti che le leggi cornice non possano essere meramente
abrogate, ma solo sostituite con una legge diversa, e che l’ipotizzato
divieto generalizzato di caccia conseguente all’esito positivo del
richiesto referendum abrogativo costituirebbe un’invasione della sfera
di competenza legislativa propria del legislatore regionale, posto che
lo stabilire un regime di divieto generalizzato di caccia sportiva
sicuramente appartiene all’ambito della normativa di principio, in
quanto tale rientrante nella sfera di competenza che l’art. 117 Cost.
attribuisce al legislatore statale. Ma – si conclude – la risposta
positiva del corpo elettorale al quesito referendario neppure
sortirebbe un effetto assimilabile “tout court ad una disciplina
positiva contenente un indiscriminato, assoluto ed inderogabile
divieto di caccia”, in relazione ai contenuti delle norme residue
della legge n. 968 del 1977 e di quelle di altri atti normativi, né
precluderebbe al legislatore statale – e, pur in armonia coi nuovi
principi, al legislatore regionale – “di ritornare sull’argomento”,
anche se, ovviamente, nel rispetto del senso generale della pronuncia
popolare, che solo l’attuale disciplina avrebbe inteso sopprimere.
5. – Quanto, da ultimo, alle due memorie depositate,
rispettivamente, dalla regione Friuli – Venezia Giulia e dalle varie
associazioni più sopra menzionate – entrambe a sostegno
dell’inammissibilità della richiesta – , devesi solo dare atto che la
Corte, dopo avere udito i due difensori nella fase liminale della
Camera di consiglio, ha pronunciato ordinanza, dichiarando che i
presentatori delle due suddette memorie non possono, ai sensi
dell’art. 33, terzo comma, della legge n. 352 del 1970, considerarsi
“parti” nel presente giudizio.
6. – Nella Camera di consiglio del 14 gennaio 1981 sono stati
pertanto uditi l’Avv. Sergio Panunzio per il Comitato promotore del
referendum ed il Sostituto avvocato generale dello Stato Giorgio
Azzariti per il Presidente del Consiglio dei ministri, i quali hanno
ulteriormente illustrato i motivi già esposti nelle rispettive
memorie.
1. – Nella sentenza n. 16 del 1978 questa Corte ha testualmente
affermato “l’esigenza che il quesito da porre agli elettori venga
formulato in termini semplici e chiari”; ha poi ribadito che, “pur se
trascurate ed ignorate dal legislatore”, sono tuttavia “necessarie
garanzie di semplicità, di univocità, di completezza dei quesiti”;
ha motivato tali assunti, facendo richiamo alla necessità che “i
quesiti posti agli elettori siano tali da esaltare e non da coartare
la loro possibilità di scelta”, soggiungendo poi che, altrimenti, si
inciderebbe “di fatto sulla libertà del voto stesso (in violazione
degli articoli 1 e 48 Cost.)” e che “il popolo stesso dev’essere
garantito, in questa sede, nell’esercizio del suo potere sovrano”.
Con le surriportate enunciazioni, il problema della formulazione
dei quesiti veniva così impostato, anche se furono lasciate nello
sfondo, perché ininfluenti in quei giudizi, le ulteriori implicazioni
e precisazioni, che sono deducibili mediante un più ampio svolgimento
del tema.
Il referendum nel suo significato, prima ancora che nella sua
disciplina, nella sua collocazione e valore nel sistema, consiste in
una scelta. E l’elemento, questo della scelta, essenziale e
fondamentale per la determinazione del concetto tecnico di referendum,
come lo è nelle consultazioni popolari in genere e, quindi, anzitutto
nelle elezioni. Ma il concetto di scelta, a sua volta, è intimamente
legato a quello di possibilità, con la conseguenza che, se non c’è
possibilità, non c’è scelta e, se non c’è scelta, come non vi sono
elezioni, così non c’è referendum. Ora, la possibilità di scelta,
cioè il proprium dell’istituto referendario viene meno, quando la
libertà di voto dell’elettore venga coartata. Ed essa è coartata,
non già solo, ovviamente, nel caso limite della violenza fisica, come
in quelli, meno irreali, più subdoli e multiformi di violenza morale,
ma altresì nei casi di formulazione, né semplice, né chiara. La
formulazione può non essere semplice e può non essere chiara per
l’eterogeneità delle domande o per la contraddizione fra la richiesta
di abrogazione di una disciplina e la mancata richiesta di abrogazione
di altre disposizioni dettate nel medesimo contesto normativo e
indissolubilmente legate a quelle che, invece, si vorrebbero
sopprimere. Nelle consultazioni popolari, e perciò anche in quelle
referendarie, in cui non è concepibile una risposta articolata, la
nettezza della scelta postula la nettezza del quesito, la sua
semplicità, cioè essenzialità, la sua chiarezza, cioè la sua
inconfondibilità.
2. – Quest’esigenza di semplicità, di chiarezza, di non
contraddittorietà non è solo nella logica dell’istituto.
Certo, risulterebbe infruttuosa la ricerca di un dibattito su tal
punto negli atti dell’Assemblea Costituente, sembrando ai costituenti
inimmaginabile che potesse mai sorgere alcun dubbio proprio
sull’elemento della possibilità di scelta, in cui il fenomeno
referendario si sintetizza. Tuttavia può considerarsi un cenno in tal
senso il riferimento, che in quella sede venne fatto, ai “problemi che
possono essere facilmente compresi” ed all’utilità, in tali casi,
dell’intervento popolare.
Inoltre, può dirsi che l’esigenza in parola non sia ignorata
dalla legge di attuazione dei referendum (n. 352 del 1970): in fondo,
la norma (art. 32, quarto ed ultimo comma) che prescrive per un verso
la concentrazione delle richieste referendarie con uniformità o
analogia di materia, e per altro verso prescrive di tenere, invece,
distinte quelle che non presentano tali caratteri, mira a soddisfare
la chiarezza dei quesiti; al conseguimento dello stesso scopo mira
altresì quell’altra norma (art. 30, capoverso), la quale statuisce
che, se una richiesta di referendum deliberata da un consiglio
regionale è approvata da altri consigli regionali, ma con
modificazioni, queste devono procedere come proposte distinte da
quella. È senz’altro esplicita sul punto la recentissima legge 13
maggio 1980, n. 34 della regione Emilia – Romagna sulla disciplina del
referendum abrogativo (art. 2, secondo comma), la quale non solo
afferma che l’oggetto del quesito deve essere “formulato in termini
semplici e chiari”, ma ribadisce che l’indicazione dell’oggetto può
venire omessa, “allorquando le altre indicazioni di per sé soddisfino
le esigenze di chiarezza e univocità del quesito”.
Non può pertanto non ammettersi che nelle consultazioni
referendarie la partecipazione sarebbe fittizia, solo nominale,
meramente rituale, quando il quesito risultasse contraddittorio,
ingenerando perciò nell’elettore una irresolutezza superabile solo
con una opzione che contraddirebbe alla stessa logica referendaria.
E quando il quesito non risulti contrassegnato dalla semplicità,
chiarezza e coerenza, è illusorio credere che la campagna
referendaria valga a rendere veramente e pienamente semplice quello
che è complesso, chiaro quello che è oscuro, coerente quello che è
contraddittorio. Infatti, allora, la possibilità di scelta degli
elettori può apparire fittizia, non essendo in realtà ad essi data
altra possibilità di scelta, che o esprimere un voto non genuino, o
scegliere di non scegliere.
3. – Alla luce delle suesposte considerazioni, la richiesta di
referendum per l’abrogazione parziale della legge 27 dicembre 1977, n.
968 deve essere dichiarata inammissibile.
Conseguentemente, non va esaminata la complessa problematica
giuridico – costituzionale ampiamente illustrata dal comitato
promotore e dall’avvocatura dello Stato, sia nelle memorie, sia nella
discussione orale. Rimane così assorbita anche la questione se in una
Costituzione rigida, che prevede un apposito procedimento legislativo
aggravato per la propria revisione, e che ha conferito valore
costituzionale alla autonomia regionale, un referendum abrogativo di
leggi statali ordinarie possa cancellare una delle materie attribuite
alla competenza legislativa regionale, o svuotarla del suo contenuto
per la asserita evoluzione semantica del vocabolo che la esprime.
4. – La legge in parola si compone di 37 articoli, distribuiti in
11 titoli. Il quesito consiste nella richiesta di abrogazione totale
di 3 titoli su 11 e, in tutto o in parte, di 25 articoli su 37. In
particolare, i titoli da eliminare sarebbero il III, il VI ed il IX.
Il titolo III ha per dichiarato oggetto l'”esercizio della caccia” e
si compone degli articoli 8, 9 e 10. L’articolo 8, quello che
maggiormente rileva, e che ha l’identica epigrafe del titolo, dispone
testualmente che “l’esercizio della caccia è consentito” (primo
comma); che “la caccia può essere esercitata da chi … sia munito
della relativa licenza e di un’assicurazione per la responsabilità
civile verso terzi” (sesto comma); che “per l’esercizio venatorio è
altresì necessario essere muniti di un tesserino” (ultimo comma). Gli
altri due articoli (9 e 10) precisano, rispettivamente, quali sono i
“mezzi di caccia” consentiti e cosa debba intendersi per “caccia
controllata”. Il titolo VI, riguardante “licenza di caccia – esami”,
consta, invece, di due soli articoli, di cui l’uno (art. 21) statuisce
che “la licenza di porto d’armi per uso di caccia” (primo comma) “può
essere rilasciata dopo il conseguimento della abilitazione
all’esercizio venatorio a seguito di esame” (secondo comma), e l’altro
(art. 22) disciplina le modalità per lo svolgimento di detto esame,
nonché la durata della licenza ed il rinnovo della stessa. Il titolo
IX, infine, di cui sono oggetto le “associazioni venatorie”, si
compone anche esso di due soli articoli (29 e 30), che hanno per
epigrafe, rispettivamente, “riconoscimento ed iscrizioni” e “compiti
delle associazioni venatorie riconosciute”. Specificamente, l’art. 29,
dopo avere enunciato che “le associazioni venatorie sono libere” (primo
comma), indica i requisiti per il loro riconoscimento (secondo
comma), mentre l’art. 30 elenca i compiti delle associazioni
riconosciute, tra cui quelli di “organizzare i cacciatori” e di
“promuovere e diffondere tra i cacciatori una coscienza venatoria”.
5. – Se il quesito fosse stato contenuto nella richiesta di
abrogazione dei suddetti titoli ed articoli, con l’aggiunta, tutt’al
più, del secondo comma dell’art. 11, esso non avrebbe dato motivo a
dubbii sulla propria coerenza. Risulterebbe, infatti, chiaro, che, in
seguito all’eventuale risultato positivo del referendum, scomparirebbe
la vigente disciplina della caccia e scomparirebbero la licenza di
caccia, la (polizza di) assicurazione, il tesserino, l’abilitazione
all’esercizio venatorio ed il relativo esame, le associazioni
venatorie ed i loro compiti.
Senonché, indulgendosi al metodo della elaboratezza, che non si
addice ed, anzi, contraddice all’istituto generale della abrogazione,
si è preferito compiere tale falcidia negli altri articoli, negli
altri commi – persino di singole parole – , da fare apparire
giuridicamente significanti le parti residue. Ma proprio per questo il
quesito può cominciare ad apparire nebuloso, quando licenza,
tesserino, polizza di assicurazione ricompaiono attraverso l’art. 28,
primo comma, che non è compreso, infatti, nelle sovrabbondanti
mutilazioni di cui la legge è stata fatta oggetto. Se la caccia è
vietata, il suo esercizio è illecito e risulta contraddittorio il
fatto che ai cacciatori di frodo si chieda dagli agenti di vigilanza
l’esibizione della licenza, del tesserino, della polizza di
assicurazione.
Il quesito perde sempre più chiarezza e, correlativamente,
divengono sempre meno compiutamente ed immediatamente intelliggibili
il genuino e compiuto senso e l’effettiva portata della proposta
abrogativa di fronte alla formulazione di questa a riguardo dell’art.
31. In detto articolo, e precisamente nel primo dei due commi di cui
esso si compone, il legislatore ha stabilito le sanzioni, in caso di
violazione della normativa sulla caccia, enunciandole ordinamente in
distinti accapo, contrassegnati con le lettere dell’alfabeto da a) ad
n), ognuno dei quali corrisponde ad una distinta ipotesi di
violazione amministrativa.
Ebbene, viene proposta l’abrogazione parziale esclusivamente
dell’ipotesi sub a), la quale prevede la “sospensione della
concessione della licenza fino a tre anni”, e non anche delle altre,
che perciò rimarrebbero in vigore. Ma così è facile smarrirsi in un
sistema, in cui, anche dopo che la caccia sia stata vietata, ricompare
la licenza, sia pure per disporne la sospensione, come nelle ipotesi
sub b), c) ed e), ovvero la revoca, come nelle ipotesi sub d) ed f),
ovvero ancora la esclusione definitiva della sua concessione, come
nella già menzionata ipotesi sub f); ricompare la polizza di
assicurazione, come nelle ipotesi sub b) ed i); ricompare il
tesserino, come nelle ipotesi sub g), h) ed i). Il disorientamento non
può non crescere, quando dal raffronto tra richieste e mancate
richieste di abrogazione risulta che, pur dopo che la caccia sia
divenuta illecita, le regioni “sono autorizzate ad istituire una tassa
di concessione regionale … per il rilascio dell’abilitazione”
all’esercizio venatorio (art. 24, primo comma ), e che la suddetta
“tassa di rinnovo non è dovuta, qualora non si eserciti la caccia
durante l’anno” (art. 24, terzo comma).
6. – Non si pongono in questione la coerenza e chiarezza del
quesito referendario negli intenti del comitato promotore, ancorché
in una delle due memorie presentate a questa Corte si ammetta che la
proposta abrogativa può già aver dato luogo a differenti
interpretazioni sul suo vero significato, sia pure per colpa di certe
prospettazioni di alcuni sostenitori del referedum e per il modo in
cui il dibattito si è svolto nella pubblica opinione.
Il problema che qui rileva è pur sempre quello della semplicità,
chiarezza, inconfondibilità, non contraddittorietà del quesito, che
non è legato alla quantità, e neppure alla superfluità, dei tagli
operati alla legge abroganda. Infatti, una proposta abrogativa, che
risulti esuberante rispetto alla stringatezza che è propria
dell’istituto dell’abrogazione e della relativa formula, incorre in
censura di incoerenza, non già per il numero delle mutilazioni
apportate al testo normativo, ma per l’incoerenza, che dall’insieme
delle mutilazioni deriva al quesito referendario.
Nella specie, la formulazione, oltre a quanto in precedenza già
rilevato sul punto, risulta costituita di altri rimaneggiamenti
ancora, che possono far dubitare dell’uniformità dei criteri seguiti
nelle copiose amputazioni di vario grado apportate alla legge, e che
perciò, se chiarezza e coerenza vanno valutate e misurate sulla
realtà, accrescono ed aggravano la contraddittorietà del quesito. A
titolo meramente esemplificativo: le associazioni “venatorie”
conservano tale aggettivo negli artt. 4, primo comma, e 5, secondo
comma, in quanto non investiti dall’abrogazione, mentre ne vengono
mutilate nell’art. 27, primo comma, perché qui l’aggettivo è fatto
oggetto di richiesta abrogativa; in quest’ultimo articolo, gli agenti
venatori rimangono “dipendenti dagli enti delegati” nel primo comma,
ma non lo sono più nel quarto comma, perché l’abrogazione di tale
locuzione non viene chiesta anche nel primo comma, ma solo nel
quarto; si travolge, mediante la proposta di abrogazione dell’art. 16,
la potestà delle regioni di prevedere e regolamentare gli
“appostamenti fissi”, ma si lascia in vigore l’ultima parte dell’art.
24, secondo cui “gli appostamenti fissi … sono soggetti a tasse
regionali”.
E così dalla combinata lettura delle abrogazioni chieste e di
quelle non chieste, anche di un identico vocabolo o locuzione, persino
in uno stesso articolo, non può dirsi che il quesito emerga con gli
ineludibili caratteri della chiarezza, semplicità e coerenza. Basti
da ultimo considerare che, proprio in conseguenza della
contraddittorietà nascente dal quesito, sembrerebbe, essendosi omesso
di comprendere nella richiesta abrogativa anche l’ipotesi sub g)
dell’art. 20 della legge, che la caccia a rastrello, purché con non
più di tre persone, sia consentita, pur dopo il generale divieto
dell’esercizio venatorio. E pertanto alla motivazione che precede non
può non conseguire la dichiarazione di inammissibilità della
richiesta referendaria in epigrafe.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile la richiesta di referendum popolare per
l’abrogazione parziale della legge 27 dicembre 1977, n. 968, iscritta
al n. 16 Reg. ref. nei termini indicati in epigrafe, dichiarata
legittima con ordinanza del 2 dicembre 1980 dall’Ufficio centrale per
il referendum, costituito presso la Corte di cassazione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 febbraio 1981.
F.to: LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA –
MICHELE ROSSANO – ANTONINO DE STEFANO
– LEOPOLDO ELIA – GUGLIELMO
ROEHRSSEN – ORONZO REALE – ALBERTO
MALAGUGINI – LIVIO PALADIN – ARNALDO
MACCARONE – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI – GIUSEPPE FERRARI.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere