Sentenza N. 275 del 1976
Corte Costituzionale
Data generale
29/12/1976
Data deposito/pubblicazione
29/12/1976
Data dell'udienza in cui è stato assunto
22/12/1976
OGGIONI – Avv. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULI –
Dott. NICOLA REALE – Avv. LEONETTO AMADEI – Prof. EDOARDO VOLTERRA –
Prof. GUIDO ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO – Prof. ANTONINO DE STEFANO
– Prof. LEOPOLDO ELIA, Giudici,
comma secondo, del testo unico delle norme sul trattamento di
quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato,, approvato con
d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, promosso con ordinanza emessa l’11
dicembre 1974 dalla Corte dei conti – Sezione III – sul ricorso di
Bianchi Luigi, iscritta al n. 270 del registro ordinanze 1976 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 132 del 19
maggio 1976.
Visto l’atto di costituzione di Bianchi Luigi;
udito nell’udienza pubblica del 9 dicembre 1976 il Giudice relatore
Antonino De Stefano;
udito l’avv. Giovanni Capanna, per il Bianchi.
Bianchi Luigi, dopo aver prestato servizio per 24 anni nel Corpo
della Guardia di finanza, in cui raggiungeva il grado di maresciallo
capo, passava, a seguito di concorso riservato, nell’impiego civile,
come applicato dell’Ufficio del Registro, e dopo altri cinque anni di
attività veniva, a domanda, collocato a riposo con decorrenza 1 marzo
1957.
Con decorrenza 25 maggio 1959, il Ministero delle finanze liquidava
all’interessato la pensione diretta calcolata sulla base del solo
servizio militare prestato e del grado in esso raggiunto, poiché tale
trattamento risultava più favorevole di quello liquidabile per effetto
della riunione del servizio militare e di quello civile, stante la
modesta qualifica (10 archivista) in quest’ultimo conseguita.
Contro tale decreto e contro un successivo provvedimento di
riliquidazione della pensione il Bianchi ricorreva alla Corte dei
conti, lamentando che nessuna maggiorazione gli era stata riconosciuta
per il servizio civile svolto, e denunciando l’incostituzionalità, in
riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, degli artt. 1 e 2
della legge 11 aprile 1938, n. 420 e 11 della legge 29 aprile 1949, n.
221, a termine dei quali era stata liquidata la sua pensione.
Con ordinanza 11 dicembre 1974, la Corte dei conti, Sezione III
giurisdizionale, dopo aver rilevato che le norme anzidette erano state
abrogate e sostanzialmente riprodotte negli artt. 112 e 118, comma
secondo, del nuovo testo unico delle norme sul trattamento di
quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato – approvato con
d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 – ha sollevato d’ufficio la questione
di legittimità costituzionale di tali articoli, ora applicabili alla
fattispecie, in quanto prevedono la possibilità che, in alcuni casi di
riunione di servizi (come quello in esame), una parte di servizio resti
improduttivo di pensione, pur essendo il servizio complessivo inferiore
al limite massimo (40 anni) valutabile per la pensione.
Si osserva nell’ordinanza che le norme denunciate, pur disponendo
la liquidazione di “un unico trattamento di quiescenza sulla base della
totalità dei servizi prestati e secondo le norme applicabili in
relazione alla definitiva cessazione dal servizio” (art. 112), e che il
trattamento di quiescenza liquidato sulla base della riunione dei
servizi “non può, comunque, essere inferiore a quello che sarebbe
spettato in relazione al servizio precedente” (art. 118, comma
secondo), possono in pratica non produrre alcun miglioramento sul
trattamento pensionistico, così come avvenuto nel caso di specie, in
cui il ricorrente, sulla base della totalità dei servizi (29 anni),
avrebbe avuto diritto ad una pensione inferiore a quella liquidatagli
con la valutazione del solo servizio militare (24 anni).
Da ciò l’incostituzionalità delle indicate norme, sia per
contrasto con l’art. 3 della Costituzione, poiché in applicazione
delle stesse può essere assicurato trattamento uguale a situazioni di
fatto diseguali; sia per contrasto con l’art. 36 della Costituzione,
che enuncia il principio della proporzione tra retribuzione (immediata
o differita) e quantità e qualità del lavoro svolto, potendosi
verificare che il servizio civile, prestato dopo quello militare.
rimanga improduttivo di pensione.
L’istituto della riunione dei servizi, che nella grande maggioranza
dei casi costituisce un beneficio e rappresenta un diritto per i
dipendenti pubblici, si risolve, così, in un danno nella ipotesi
considerata dei sottufficiali che passano all’impiego civile.
Né varrebbe obiettare che il sottufficiale, passando all’impiego
civile, viene implicitamente ad accettarne anche le conseguenze
negative previste dalla legge, perché così argomentando si
disconoscerebbe quel vizio fondamentale che inficia tutte le
accettazioni di condizioni più o meno sfavorevoli che il lavoratore,
come contraente economicamente più debole, si trova sempre costretto
ad accettare, pur di ottenere il posto di lavoro.
L’ordinanza di rinvio, dopo le notificazioni e comunicazioni di
rito, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
132 del 19 maggio 1976.
Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocato generale dello Stato,
con deduzioni depositate in cancelleria il 10 giugno 1976 e quindi
fuori termine, perché oltre i 20 giorni dalla pubblicazione
dell’ordinanza nella Gazzetta Ufficiale; e si è costituito Bianchi
Luigi, rappresentato e difeso dall’avvocato Giovanni Capanna, il quale,
nell’atto depositato in cancelleria il 7 giugno 1976, conclude per
l’incostituzionalità delle norme impugnate.
1. – L’ordinanza solleva questione di legittimità costituzionale
degli artt. 112 e 118, comma secondo, del testo unico delle norme sul
trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato,
approvato con il d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, “in quanto prevedono
che, in alcuni casi di riunione di servizi, il secondo periodo resti
improduttivo di pensione”. Per l’art. 112, il dipendente che abbia
prestato, presso la stessa o presso diverse amministrazioni statali,
servizi per i quali è previsto il trattamento di quiescenza a carico
del bilancio dello Stato, ha diritto alla riunione dei servizi stessi,
ai fini del conseguimento di un unico trattamento di quiescenza, sulla
base della totalità dei servizi prestati e secondo le norme
applicabili in relazione alla definitiva cessazione dal servizio
(tenendosi conto perciò dello stipendio percepito alla data di tale
cessazione). A mente del comma secondo del successivo art. 118, il
trattamento di quiescenza suddetto non può, comunque, essere inferiore
a quello che sarebbe spettato in relazione al servizio precedente.
Il giudice a quo osserva che in quest’ultima ipotesi il secondo
periodo di servizio non spiega alcun effetto ai fini del trattamento di
quiescenza, anche se la totalità dei servizi non abbia raggiunto
l’anzianità (40 anni), che di regola permette al dipendente civile
dello Stato di conseguire il massimo del trattamento di riposo.
Donde l’asserito contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione.
2. – La questione è fondata.
Va innanzi tutto ricordato che la precedente disciplina, dettata
dalla legge 11 aprile 1938, n. 420, configurava la unitarietà del
trattamento di riposo nella ipotesi di pluralità di servizi alle
dipendenze dello Stato, siccome principio di carattere generale,
sancito in correlazione con il divieto di cumulo tra pensioni e
stipendi a carico dello Stato. Secondo l’art. 1, infatti, i titolari di
pensioni a carico dello Stato, riassunti in servizio statale e
provvisti di retribuzione pensionabile, perdevano il godimento della
pensione, e all’atto del definitivo collocamento a riposo liquidavano
un nuovo trattamento di quiescenza sulla base della totalità dei
servizi prestati e con le norme relative all’ultimo impiego. In ogni
caso, si precisava, il nuovo trattamento non poteva essere inferiore a
quello precedentemente goduto.
In prosieguo di tempo vi fu – come questa Corte osservava nella
sentenza n. 105 del 1963 – una mitigazione della regola generale della
incumulabilità assoluta di pensioni ordinarie e stipendi,
consentendosi, con l’art. 14 della legge 12 aprile 1949, n. 149,
modificato dall’art. 14 della legge 8 aprile 1952, n. 212, il cumulo di
una pensione ordinaria con uno stipendio, ma solo per la parte del
trattamento pensionistico non eccedente le lire 60 mila. Restava,
peraltro, fermo il principio, per effetto del richiamo alla legge n.
420 del 1938, operato dal secondo comma del citato art. 14 della legge
n. 149 del 1949, della liquidazione, all’atto della cessazione
dall’ultimo impiego, di un trattamento di quiescenza unitario sulla
base della totalità dei servizi prestati. E l’art. 11 della legge 29
aprile 1949, n. 221, conseguentemente disponeva che “per coloro i
quali fruiscono di una pensione sostituita ad altra che per avvenuta
cessazione dal servizio fu o poteva essere liquidata, sarà presa a
base del calcolo della nuova pensione quella liquidazione da cui
risulti il trattamento più favorevole”.
Con la legge 5 dicembre 1964, n. 1268, di delega al Governo per la
emanazione di norme sul trattamento economico del personale in
attività di servizio ed in quiescenza delle Amministrazioni statali,
si pervenne, invece, ad un opposto orientamento. Tra i criteri
direttivi stabiliti da tale legge vi era, infatti, all’art. 3, comma
settimo, lett. c), “la modifica della disciplina del cumulo di un
trattamento di quiescenza non privilegiato con un trattamento di
attività, nel senso di conservare integra la pensione in godimento”.
Si accordava altresì agli interessati la facoltà di optare per la
ricongiunzione ai fini della pensione dei due servizi, precisandosi
che, ove non fosse esercitata tale facoltà, il nuovo eventuale
trattamento di quiescenza sarebbe stato liquidato sulla base del
servizio effettivamente prestato nel nuovo impiego. La cumulabilità di
pensione e stipendio, e la conseguente possibilità di due distinti
trattamenti di quiescenza a carico dello Stato, diveniva, dunque, la
regola: cui si derogava o per libera scelta degl’interessati o,
obbligatoriamente, nei casi in cui il nuovo servizio costituisse
“derivazione, continuazione o rinnovo” del precedente rapporto.
In attuazione di siffatti criteri, il legislatore delegato emanava
il d.P.R. 5 giugno 1965, n. 758, recante “nuove norme sul cumulo di
pensioni e stipendi a carico dello Stato e di enti pubblici”. L’art. 1
sanciva il principio del cumulo, disponendo, al secondo comma, che,
all’atto della cessazione del nuovo rapporto, fosse liquidato il
trattamento di quiescenza in base al servizio prestato nel rapporto
stesso; e che tale trattamento fosse cumulabile con la pensione o
assegno già conseguiti in dipendenza del primo rapporto d’impiego.
L’art. 2 disciplinava la facoltà di optare per la ricongiunzione del
nuovo con il precedente servizio, ai fini del trattamento di
quiescenza. L’art. 4 vietava, invece, il cumulo nella ipotesi indicata
dalla legge di delega, puntualizzandone i casi nel secondo comma; e fra
essi figurava, alla lett. c), la “immissione nell’impiego civile di
sottufficiale o graduato, in applicazione delle particolari
disposizioni concernenti riserva di posti in favore di dette categorie
di militari” (fattispecie presa appunto in considerazione nel giudizio
a quo). In casi siffatti, il trattamento di quiescenza, al termine del
nuovo servizio, doveva essere liquidato “sulla base della totalità dei
servizi prestati e secondo le norme relative all’ultimo impiego”, fermo
rimanendo che tale trattamento non potesse essere comunque inferiore a
quello che sarebbe spettato in dipendenza del precedente servizio (art.
2, comma terzo, richiamato dall’ultimo comma dell’art. 4).
Le norme del d.P.R. n. 758 del 1965 sono state di poi trasfuse nel
dinanzi citato testo unico n. 1092 del 1973, sotto il Titolo IX (cumulo
di pensioni e stipendi): e precisamente, gli artt. 1 e 2 negli artt.
130 e 131, mentre il divieto di cumulo di cui all’art. 4 trova
pressoché testuale rispondenza nell’art. 133. Per effetto del
combinato disposto dell’ultimo comma dell’art. 133 e del quarto comma
dell’art. 131, all’atto della osservazione del nuovo rapporto spetta il
trattamento di quiescenza da liquidarsi sulla base della totalità dei
servizi prestati, versandosi nella ipotesi di una obbligatoria riunione
di servizi. Donde l’applicazione degli artt. 112 e 118, secondo comma,
dello stesso testo unico, denunciati con l’ordinanza in epigrafe.
3. – Nella grande maggioranza dei casi la riunione del nuovo con il
precedente servizio costituisce – come giustamente osserva il giudice a
quo – un notevole beneficio, tanto che l’art. 112 del testo unico la
qualifica come “un diritto” dei pensionati, ed il successivo art. 131
offre al personale, cui sia consentito il cumulo, la facoltà di
optare, invece, per tale riunione, presentando domanda ai sensi
dell’art. 151.
Invero, il passaggio del dipendente statale da una carriera
all’altra implica quasi sempre un miglioramento del trattamento
economico, e quindi una pensione più favorevole, visto che questa, per
il menzionato art. 112, viene liquidata in base allo stipendio goduto
alla data della cessazione definitiva.
Ciò non toglie che in talune, sia pure non frequenti, ipotesi la
riunione possa condurre, al contrario, ad un trattamento definitivo di
quiescenza meno favorevole di quello che sarebbe spettato sulla base
del solo primo rapporto: come può accadere – secondo quanto prospetta
l’ordinanza – nel caso di passaggio di sottufficiali all’impiego
civile. Né a tale inconveniente offre congruo riparo il secondo comma
dell’art. 118, disponendo, come si è detto, che il trattamento di
quiescenza non può essere inferiore a quello che sarebbe spettato in
relazione al servizio precedente. In tale guisa, infatti, si impedisce
possa concretarsi la paradossale situazione in cui verserebbe il
sottufficiale che, dopo aver prestato l’ulteriore servizio civile, si
vedesse addirittura soggetto ad una riduzione della pensione che
avrebbe potuto liquidare in ragione del solo servizio militare; ma non
si evita il verificarsi di un’assoluta irrilevanza, in ordine al
conclusivo trattamento di quiescenza, dello stesso servizio civile, pur
ex se pensionabile e come tale assoggettato alla ritenuta di legge. Né
va sottaciuto che siffatta irrilevanza consegue ad una riunione, non
voluta dall’interessato a seguito di libera opzione, ma imposta per
effetto del divieto di cumulo sancito dalla lett. c) del comma secondo
dell’art. 133 dello stesso testo unico.
Ben vero che – secondo quanto ritenuto da questa Corte con le
sentenze n. 105 del 1963 e n. 155 del 1969 – il divieto del cumulo tra
pensione e stipendio, o la riduzione del trattamento di pensione in
concorso con un trattamento di attività, non appaiono
costituzionalmente illegittimi, atteso che la funzione previdenziale
della pensione non si esplica, o almeno viene notevolmente ridotta,
quando il lavoratore si trovi ancora in godimento di un trattamento di
attività. Ma da ciò non può farsi discendere come rigorosa ed
imprescindibile conseguenza che il trattamento di quiescenza debba
essere unico per tutto il servizio utile, pur se comporti la mancata
valutazione di parte di esso, che normalmente sarebbe invece
computabile. Né va al riguardo trascurato che uno dei presupposti
essenziali della liquidazione del trattamento di quiescenza dei
dipendenti statali è costituito appunto dalla durata complessiva del
servizio prestato che, per i civili, è normalmente utilizzabile fino
ad un massimo di quaranta anni, e che, entro tale limite, è di regola
decisivo ai fini della misura della pensione.
Una volta riconosciuto, per costante giurisprudenza di questa
Corte, che la pensione deve essere considerata una forma di
retribuzione differita, direttamente legata alla natura ed agli aspetti
del lavoro prestato (sentenza n. 176 del 1975), e che la
discrezionalità del legislatore ordinario deve in ogni caso rispettare
il criterio della proporzionalità rispetto alla qualità e quantità
del lavoro prestato durante il servizio attivo (sentenze n. 124 del
1968 e n. 57 del 1973), il combinato disposto delle norme impugnate
deve ritenersi in contrasto con il principio della proporzionalità tra
prestazione di lavoro e retribuzione, sancita dall’art. 36 della
Costituzione, nella parte in cui non prevede, per il caso di cui
all’art. 133, comma secondo, lett. c) dello stesso testo unico, la
corresponsione, in aggiunta al maggiore trattamento di quiescenza che
sarebbe spettato sulla base del solo servizio precedente, di un
trattamento supplementare di quiescenza per il periodo successivo, da
liquidarsi secondo le vigenti disposizioni, limitatamente a quella
parte di detto servizio che, sommato al precedente, non oltrepassi il
limite massimo pensionabile.
Nell’anzidetta pronuncia d’incostituzionalità delle denunciate
norme, resta assorbito l’ulteriore profilo di illegittimità,
prospettato dall’ordinanza, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto
degli artt. 112 e 118, comma secondo, del testo unico delle norme sul
trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato,
approvato con il d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui
non prevede, per il caso di cui all’art. 133, comma secondo, lett. c)
dello stesso testo unico, la corresponsione, in aggiunta al maggiore
trattamento di quiescenza che sarebbe spettato sulla base del solo
servizio precedente, di un trattamento supplementare di quiescenza per
il successivo periodo di servizio, da liquidarsi secondo le vigenti
disposizioni, limitatamente a quella parte di detto servizio che,
sommato al precedente, non oltrepassi il limite massimo pensionabile.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 dicembre 1976.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
ANGELO DE MARCO – ERCOLE ROCCHETTI –
ENZO CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE – LEONETTO AMADEI – EDOARDO
VOLTERRA – GUIDO ASTUTI – MICHELE
ROSSANO – ANTONINO DE STEFANO –
LEOPOLDO ELIA.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere