Sentenza N. 284 del 1986
Corte Costituzionale
Data generale
23/12/1986
Data deposito/pubblicazione
23/12/1986
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/12/1986
VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI – Dott. FRANCESCO SAJA –
Prof. GIOVANNI CONSO – Prof. ETTORE GALLO – Prof. GIUSEPPE BORZELLINO
– Dott. FRANCESCO GRECO – Prof. RENATO DELL’ANDRO – Prof. GABRIELE
PESCATORE – Avv. UGO SPAGNOLI – Prof. FRANCESCO PAOLO CASAVOLA – Prof.
ANTONIO BALDASSARRE – Prof. VINCENZO CAIANIELLO, Giudici,
settimo comma, d.P.R. 31 maggio 1974 n. 417 (Norme sullo stato
giuridico del personale docente, direttivo ed ispettivo della scuola
materna, elementare, secondaria ed artistica dello Stato); art. 1,
ultimo comma, legge 8 agosto 1977 n. 583 (Modifiche ed integrazioni
alla legge 4 febbraio 1967 n. 37, concernente il riordinamento della
Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei geometri e
miglioramenti dei trattamenti previdenziali e assistenziali); art. 7
legge 20 dicembre 1954 n. 1181; art. 130 r.d. 27 novembre 1924 n.
2367; artt. 4 e 7 r.d. 11 febbraio 1929 n. 274, promossi con le
seguenti ordinanze, tutte emesse dal Consiglio nazionale dei geometri;
1) 20 giugno 1978 sul ricorso proposto da Schettini Michele (n. 633 del
reg. ord. 1978), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 52 dell’anno 1979; 2) 1 febbraio 1979, sul ricorso proposto da
Ferranti Secondo (n. 491 del reg. ord. 1979), in Gazzetta Ufficiale n.
237 dell’anno 1979; 3) 14 giugno 1979, sul ricorso proposto da Rossi
Rocco (n. 782 del reg. ord. 1979), in Gazzetta Ufficiale n. 8 dell’anno
1980; 4) 26 luglio 1979, sul ricorso proposto da Bruscantini Corrado
(n. 140 del reg. ord. 1980), in Gazzetta Ufficiale n. 131 dell’anno
1980; 5) 18 dicembre 1979, sui ricorsi proposti da Lionetti Raffaele e
Titaro Andrea (nn. 342 e 343 del reg. ord. 1980), in Gazzetta Ufficiale
n. 180 dell’anno 1980; 6) 18 novembre 1981 sul ricorso proposto da
Biscione Donato Rocco (n. 466 del reg. ord. 1982), in Gazzetta
Ufficiale n. 303 dell’anno 1982; 7) 1 marzo 1983, sui ricorsi proposti
da Latini Franco, Ercole Gianni e Calvosa Terenzio (nn. 479, 480 e 481
del reg. ord. 1983) in Gazzetta Ufficiale n. 308 dell’anno 1983; 8) 3
maggio 1983 sui ricorsi proposti da Caputi Raffaele ed altro, Cozza
Giuseppe ed altro, Falvella Giuseppe ed altro, Sabbatella Raffaele ed
altro, Gay Luciano ed altro, Lagala Canio ed altro (n. da 446 a 451 del
reg. ord. 1984) in Gazzetta Ufficiale n. 280 dell’anno 1984; ed inoltre
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, secondo
comma, d.l.lgt. 23 novembre 1944 n. 382 (Norme sui Consigli degli
ordini e collegi e sulle Commissioni centrali professionali), promosso
con l’ordinanza della Corte costituzionale in data 30 settembre 1983
(n. 907 reg. ord. 1983), in Gazzetta Ufficiale n. 60 del 1984.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 28 ottobre 1986 il Giudice relatore
Francesco Saja;
udito l’Avvocato dello Stato Paolo D’Amico per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
1. – Con ricorso del 25 novembre 1978 il geometra Rossi Rocco
impugnava davanti al Consiglio nazionale dei geometri il provvedimento
di cancellazione dall’albo professionale, adottato nei suoi confronti
dal Collegio provinciale di Frosinone con deliberazione del precedente
28 ottobre; in questa si osservava che il medesimo era insegnante
presso una scuola media statale della detta città e che il preside
della stessa scuola lo aveva, sempre secondo la deliberazione ora
citata, illegittimamente autorizzato all’esercizio della professione.
Nel corso del procedimento il Consiglio nazionale con ordinanza del
14 giugno 1979 (reg. ord. n. 782 del 1979) sollevava questione di
legittimità costituzionale dell’art. 92, sesto comma, d.P.R. 31
maggio 1974 n. 417, che consente al personale docente della scuola di
Stato, previa autorizzazione del direttore didattico o del preside,
l’esercizio di libere professioni non pregiudizievoli all’assolvimento
di tutte le attività inerenti alla funzione docente e compatibili con
l’orario di insegnamento e di servizio.
Al collegio rimettente sembrava che tale norma contrastasse
anzitutto col principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), stante
l’ingiustificato favore riservato agli insegnanti rispetto agli altri
impiegati dello Stato, ai quali l’art. 60 del testo unico approvato con
d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 vietava tra l’altro di “esercitare il
commercio, l’industria e alcuna professione”. Tale disciplina più
favorevole pareva poter altresì ledere il principio di dedizione
esclusiva del pubblico dipendente agli interessi della collettività
(art. 98 Cost.).
2. – La stessa questione veniva sollevata dal medesimo Consiglio
nazionale con ordinanza del 20 giugno 1978 (reg. ord. n. 633 del 1978),
in cui oggetto dell’impugnativa erano gli artt. 130 r.d. 27 novembre
1924 n. 2367, contenente tra l’altro il regolamento sullo stato dei
professori degli istituti medi di istruzione, e 7 legge 20 dicembre
1954 n. 1181, contenente la delega al governo per l’emanazione delle
norme relative allo statuto degli impiegati civili e degli altri
dipendenti dello Stato. Il primo di questi due articoli dispone che
l’esercizio delle professioni libere da parte di qualsiasi professore
di ruolo è subordinato ad una denuncia, per via gerarchica, al
ministero; il secondo (lett. b) mantiene la detta facoltà “nei limiti
delle norme in vigore”.
In questa ordinanza si faceva riferimento anche al principio di
buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
La stessa questione veniva sollevata ancora dal Consiglio con
ordinanze del 26 luglio 1979 (n. 140/1980),18 dicembre 1979 (n. 342 e
343/1980),18 novembre 1981 (n. 466/1982), 1 marzo 1983 (n. 479, 480,
481/1983), 3 maggio 1983 (n. 446, 447, 448, 449, 450, 451 del 1983)
emesse nei procedimenti riguardanti rispettivamente i geometri Corrado
Bruscantini, Raffaele Lionetti, Andrea Titaro, Donato Rocco Biscione,
Franco Latini, Gianni Ercoli, Terenzio Calvosa, Raffaele Caputi,
Giuseppe Cozza, Giuseppe Favella, Raffaele Sabatella, Luciano Gay,
Canio Lagala. In alcuni di questi provvedimenti il Consiglio poneva a
raffronto gli impugnati artt. 130 r.d. 2367/1924, 7 l. 1181/1954, 92
d.P.R. 417/1974, anche con l’art. 8, terzo comma, l. 20 marzo 1975 n.
70, secondo cui in materia di incompatibilità e di cumulo degli
impieghi del personale degli enti pubblici si applicano le disposizioni
stabilite per gli impiegati civili dello Stato, nonché con l’art. 241,
terzo comma, testo unico della legge comunale e provinciale approvato
con r.d. 3 marzo 1934 n. 383, recante analoga disposizione per i
segretari comunali ed i dipendenti degli enti locali.
3. – La Presidenza del Consiglio dei ministri interveniva.
Nel merito essa, premesso che la materia doveva ritenersi
attualmente regolata dal solo art. 92 d.P.R. 417/1974, da considerare
perciò come unico oggetto delle impugnative, sosteneva che la
facoltà, spettante agli insegnanti di scuola pubblica, di esercitare,
previa autorizzazione, una libera professione doveva ritenersi
giustificata, e quindi compatibile con gli artt. 3, 97 e 98 Cost.,
dall’opportunità di perseguire le finalità didattiche attraverso
l’apporto di cognizioni pratiche.
4. – Nel corso del giudizio concernente le dette questioni, questa
Corte sollevava davanti a se stessa questione di legittimità
costituzionale dell’art. 14, secondo comma, d.l. lgt. 23 novembre 1944
n. 382 (reg. ord. n. 907 del 1983).
Dubitava la Corte che detta norma, nella parte in cui statuisce che
la Commissione centrale (ora Consiglio nazionale) dei geometri, di cui
agli artt. 10-17 del medesimo d.l. lgt., esercita le attribuzioni
giurisdizionali stabilite dal relativo ordinamento professionale,
potesse contrastare con l’art. 108 Cost. ossia col principio di
indipendenza della giurisdizione, attesa la composizione e le modalità
di funzionamento del collegio giudicante.
5. – Con deliberazione del 5 giugno 1978 il Consiglio del Collegio
provinciale dei geometri di Macerata respingeva la domanda di
iscrizione all’albo presentata da Secondo Ferranti, in precedenza
dipendente del Genio Civile di Ancona e del Comune di Tolentino, e in
quanto tale già fruente di una forma di previdenza obbligatoria. Il
Consiglio motivava la sua decisione osservando che ai sensi dell’art.
1, ultimo comma, l. 8 agosto 1977 n. 583 i professionisti già titolari
di forme di previdenza obbligatoria erano esonerati dall’obbligo di
iscriversi alla Cassa previdenziale del rispettivo ordine professionale
e quindi di versare i relativi contributi; ciò, insieme ad altre
posizioni di vantaggio derivanti dalla sua qualità di pensionato,
avrebbe posto il Ferranti in situazione di ingiustificato favore,
d’onde la necessità di rigettare la sua domanda di iscrizione
all’albo.
Avendo il medesimo proposto ricorso al Consiglio nazionale, questo
con ordinanza del 1 febbraio 1979 (reg. ord. n. 491 del 1979)
sollevava questione di legittimità costituzionale del cit. art. 1,
ultimo comma, l. n. 583 del 1977.
Il Consiglio osservava che tale norma, disponendo l’esonero di cui
sopra, poneva un’ingiustificata disparità di trattamento quanto
all’obbligo di contribuzione previdenziale nell’ambito dei geometri
iscritti all’albo, così sembrando contrastare col principio di
eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.
La Federazione nazionale dell’ordine dei medici depositava una
memoria di costituzione nella causa n. 907 del 1983, memoria tuttavia
inammissibile per essere stata depositata tardivamente e per
l’estraneità del detto ente al giudizio a quo.
1. – Le ordinanze in epigrafe sottopongono alla Corte tre questioni
di legittimità costituzionale, la prima delle quali ha carattere
pregiudiziale, mentre le altre due si riferiscono, sebbene sotto
profili diversi, alla normativa concernente l’iscrizione nel medesimo
albo professionale dei geometri: pertanto i relativi giudizi, in
dipendenza degli indicati nessi di pregiudizialità e di connessione,
vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. – La questione pregiudiziale, sollevata da questa stessa Corte,
muove dal presupposto della natura giurisdizionale delle attribuzioni
del Consiglio nazionale dei geometri quando decide sui ricorsi avverso
i provvedimenti amministrativi dei collegi provinciali in materia
disciplinare e di iscrizione nell’albo. Tale natura giuridica è
comune, per generale consenso, a tutti gli analoghi Consigli nazionali
previsti dalle normative che, anteriormente all’entrata in vigore della
Costituzione, hanno ordinato in enti autonomi alcune professioni, ossia
quelle indicate negli artt. 1 e 18 d.l. lgt. 23 novembre 1944 n. 382 e
successive modificazioni. Essa viene desunta principalmente dal fatto
che avverso le decisioni dei Consigli, inerenti alle attribuzioni
suddette (materia disciplinare e iscrizione all’albo), è direttamente
previsto il ricorso per cassazione, il quale nel nostro sistema è
diretto al controllo su provvedimenti di natura giurisdizionale (in
questo senso è anche la giurisprudenza di questa Corte: cfr. le sentt.
nn. 110/1967; 114/1970; 27/1972 e 175/1980).
Invece, per gli ordinamenti professionali posteriori alla
Costituzione, il legislatore ordinario non ha potuto adottare la
medesima disciplina, a causa del divieto, posto dall’art. 102 della
Carta fondamentale, di istituire nuove giurisdizioni, non solo
straordinarie, ma anche speciali: sicché ha previsto l’impugnazione
dei relativi provvedimenti con le forme dell’ordinario processo civile
(tribunale, corte di appello, cassazione), pure se talvolta con qualche
deviazione dal modello tradizionale, sulla quale non sarebbe qui utile
intrattenersi.
3. – Attualmente sussistono quindi due diversi tipi di
procedimenti, sopravvivendo il primo in forza della VI disposizione
transitoria della Costituzione, secondo cui gli organi di giurisdizione
speciale già esistenti nel nostro ordinamento continuano ad essere
operanti, ma sono soggetti, nel termine (non perentorio) di cinque
anni, a revisione da parte del legislatore ordinario: il quale dovrà
in quella sede valutare se sia conveniente sopprimerli, con l’eventuale
trasformazione in sezioni specializzate dei tribunali ordinari, ovvero
mantenerli con le opportune modificazioni, intuitivamente ispirate,
anche sul piano della legislazione ordinaria, a quei criteri
maggiormente garantistici che sono propri della più recente esperienza
giuridica.
Effettuata o no la revisione (nella fattispecie è mancato
qualsiasi intervento legislativo), la sopravvivenza delle giurisdizioni
speciali è pur sempre subordinata alla condizione che la relativa
disciplina non contrasti con i canoni costituzionali in materia: tra i
quali va annoverato quello sancito dall’art. 108 Cost., che impone
anche rispetto ai giudici speciali il fondamentale requisito
dell’indipendenza. In tali sensi è il costante orientamento della
Corte, la quale ha dichiarato non conformi al dettato costituzionale,
per mancanza del suddetto requisito, le giurisdizioni dei consigli
comunali in materia di contenzioso elettorale, dei consigli di
prefettura, delle giunte provinciali amministrative, delle sezioni del
contenzioso elettorale che sostituivano i consigli elettorali comunali
e provinciali, del c.d. ministro-giudice, dell’intendente di finanza,
nonché del comandante di porto (cfr. sent. n. 93/1965; n. 55/1966; n.
30/1967; n. 49/1968; n. 133/1963; n. 60/1969; nn. 121/1970 e
164/1976).
4. – In quest’ottica si pone coerentemente l’ordinanza di
rimessione, la quale dubita dell’indipendenza del Consiglio nazionale
suindicato, “attesa la composizione e le modalità di funzionamento del
collegio giudicante” ed appunto perciò solleva la questione di
legittimità costituzionale in discussione con riferimento al cit. art.
108 della Costituzione.
In relazione all’oggetto della proposta questione e quindi
all’ambito di questo giudizio di costituzionalità, la Corte deve
soffermarsi sui due profili sopra indicati per quell’approfondito esame
che non poteva certamente essere compiuto nel momento della pronuncia
del provvedimento di rimessione, perché in quella sede era consentito
accertare soltanto che la questione non fosse manifestamente infondata,
ossia che non sussistesse nemmeno un dubbio di legittimità
costituzionale.
Prima di affrontare lo specifico esame, si può peraltro brevemente
ricordare che l’indipendenza del giudice consiste nell’autonoma
potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero
indirette provenienti dall’autorità di governo o da qualsiasi altro
soggetto. Essa concerne non solo l’ordine giudiziario nel suo complesso
(art. 104 Cost.) ma anche i singoli organi, ordinari (art. 107) e
speciali (art. 108), al fine di assicurare che l’attività
giurisdizionale, nelle varie articolazioni, come la sua intrinseca
essenza esige, sia esercitata senza inammissibili influenze esterne.
Anche se concettualmente distinta, l’indipendenza ha ricorrenti e
stretti legami con l’imparzialità, ed anzi i due termini vengono
talvolta promiscuamente usati, quasi che esprimano la medesima nozione
giuridica: ma è da notare che non sempre il difetto di imparzialità
consegue alla mancanza di indipendenza, potendo avere relazione causale
con alcune situazioni che stanno a base degli istituti dell’astensione
e della ricusazione, diretti ad assicurare l’imparzialità del giudice,
senza che di norma venga in discussione il requisito dell’indipendenza.
5. – Ciò posto, e iniziando dal primo profilo prospettato
nell’ordinanza di rimessione, ossia dalla composizione del collegio,
osserva la Corte che il Consiglio in questione è formato da undici
membri, eletti, tra gli appartenenti alla stessa categoria
professionale, dagli organi locali, i cui componenti sono a loro volta
scelti da tutti gli iscritti secondo l’appartenenza al rispettivo albo
provinciale. I componenti del Consiglio nazionale e quelli dei Consigli
provinciali durano in carica, i primi, tre e, i secondi, due anni, e
sono liberamente rieleggibili senza alcun limite.
Il criterio accolto, ossia quello elettivo, risulta indubbiamente
conforme ai canoni costituzionali ed è sufficiente osservare in
proposito che il medesimo principio ispiratore è recepito dalla Carta
fondamentale nell’art. 106, secondo comma: ovviamente qui non interessa
la sfera di applicazione della ora indicata norma costituzionale,
notevolmente circoscritta, per ragioni non riferibili alla presente
fattispecie; rileva soltanto, invece, che il criterio stesso, per
riconoscimento espresso del Costituente, ben si concilia nella sua
intrinseca portata con il requisito dell’indipendenza.
Né si potrebbe argomentare in senso contrario dalla possibilità
di rielezione, richiamando le decisioni di questa Corte (sent. n.
49/1968 e n. 25/1976), le quali, nei casi allora esaminati, hanno
ritenuto pregiudicata l’indipendenza dei collegi giudicanti in quanto
la legge prevedeva la rinnovazione del mandato. La ratio di tali
pronunce risiede, invero, nel fatto che la titolarità del potere di
rinnovazione spettava all’autorità amministrativa, rispetto alla quale
era configurabile un rapporto di soggezione, in quanto il timore di
perdere la carica poteva porre in pericolo l’indipendenza del giudice,
inducendolo a decisioni gradite alla stessa pubblica amministrazione (e
analoga considerazione, mutatis mutandis, è da fare per la sent. n.
11/1968 concernente l’Ordine dei giornalisti). Nel caso in esame, per
contro, la rielezione dipende da tutti i Consigli provinciali e quindi
in definitiva, anche se mediatamente, dall’intera categoria
professionale, sicché il componente rieleggibile non è condizionato
nell’esercizio delle sue funzioni da alcun altro soggetto, o gruppo di
soggetti, ma deve necessariamente ispirare la sua condotta ai canoni di
effettiva giustizia e di obbiettiva correttezza, così da procurarsi,
come esige il principio democratico, la stima e la considerazione della
maggioranza degli elettori. Giova ancora sottolineare come il limite
temporale del mandato dei consiglieri nazionali e di quelli provinciali
sia diverso, in quanto i primi durano in carica tre anni e gli altri
soltanto due: con la conseguenza che di norma questi ultimi, una volta
scaduta la loro carica, non possono rinnovare il mandato ai componenti
del Consiglio nazionale alla cui scelta hanno già concorso. Comunque,
l’illimitata e incondizionata rieleggibilità, attualmente possibile
sia rispetto ai Consigli locali che al Consiglio nazionale, potrebbe
cagionare in qualche situazione-limite una certa vischiosità: la
quale, ancorché non indicativa di violazione costituzionale in quanto
non incidente sul requisito dell’indipendenza, potrebbe tuttavia
indirettamente rifluire sulla limpidezza e trasparenza che gli organi
giurisdizionali debbono sempre possedere in massimo grado. Il rimedio
è però indubbiamente riservato al legislatore, il quale, procedendo
alla prescritta e tanto ritardata revisione, dovrebbe valutare
l’esigenza di modificare adeguatamente la normativa in discorso,
introducendo per la rielezione un’appropriata disciplina limitativa,
che escluda il rischio sopra rilevato.
5a. – Sul requisito dell’indipendenza non può neppure influire la
circostanza che i componenti del Consiglio siano appartenenti
all’ordine di professionisti nei confronti dei quali lo stesso organo
deve esercitare le sue funzioni. Il tratto caratteristico della c.d.
giurisdizione professionale è dato anzi da una vasta partecipazione
(che numericamente può assumere diverse varianti) dei soggetti
appartenenti alla categoria interessata. Partecipazione
tradizionalmente giustificata dalla specifica idoneità riconosciuta ai
medesimi professionisti nella materia disciplinare, attinente in
sostanza alle regole di deontologia professionale, nonché nella
materia relativa all’appartenenza all’ordine (la c.d. tenuta
dell’albo), da sempre collegata alla prima anche per l’incidenza dei
provvedimenti disciplinari che importino la sospensione o la
cancellazione dall’albo medesimo (quest’ultima, variamente definita nei
diversi ordinamenti professionali). Relativamente a detta appartenenza,
giova ricordare che il singolo, per communis opinio, è titolare di una
posizione di diritto soggettivo perfetto, anche costituzionalmente
protetta (art. 4 Cost.), spettando al Consiglio il mero accertamento
dei requisiti stabiliti dalla legge: ed anche rispetto alla c.d. buona
condotta, il potere del Consiglio rimane nell’ambito ora precisato, in
quanto si tratta pur sempre di accertare delle circostanze secondo le
comuni regole probatorie, fornendo un’adeguata motivazione, la cui
mancanza o insufficienza importa il vizio di cui all’art. 360 n. 5
cod. proc. civ.
Da ultimo, è interessante rilevare come nel nostro ordinamento
costituzionale esista un istituto intrinsecamente affine, giacché il
Consiglio Superiore della Magistratura, composto per due terzi da
magistrati, provvede attraverso la sua Sezione disciplinare (organo a
cui questa Corte ha riconosciuto natura giurisdizionale con la sent. n.
12/1971), all’irrogazione delle sanzioni disciplinari ai magistrati
(art. 105 Cost.): da tale previsione normativa consegue infatti un
ulteriore, sicuro elemento per dedurre come l’appartenenza alla
medesima categoria professionale non basti a pregiudicare
l’indipendenza del giudice.
5b. – Alla fattispecie esaminata non è certo riferibile la
giurisprudenza di questa Corte relativa alle norme sulla potestà
giurisdizionale dei consigli comunali in materia di contenzioso
elettorale (sent. n. 93/1965), norme dichiarate costituzionalmente
illegittime perché i giudizi da esse previsti coinvolgevano sempre
l’interesse personale dei consiglieri che componevano il collegio, e
precisamente (come si esprime la cit. sent. n. 93/1965) “l’interesse di
alcuni, se di costoro personalmente è contestata l’elezione; della
maggioranza, se è in gioco la sorte della maggioranza; di tutti, se si
denunciano irregolarità delle operazioni elettorali”.
Nella materia qui considerata, per contro, il Consiglio non giudica
in cause che siano proprie dei suoi membri, bensì in controversie
relative a soggetti estranei all’organo giurisdizionale, alla stessa
maniera di quanto si verifica per tutti gli organi giudiziari.
In proposito merita essere ricordato che la giurisdizione
professionale è conosciuta anche dagli ordinamenti di altri Stati e
che, in particolare, la Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata
ad esaminare il medesimo problema (pur se, naturalmente, rispetto a una
fonte normativa diversa e cioè all’art. 6, par. 1, della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, ratificata in Italia con l. 4 agosto 1955 n. 848), ha
riconosciuto, rispetto ad alcune decisioni del Consiglio nazionale dei
medici belgi, la sussistenza del requisito dell’indipendenza degli
organi della giurisdizione professionale (sent. 23 giugno 1981, nel
caso Le Compte, Van Leuven, De Meyere e sent. 10 febbraio 1983, nel
caso Albert e Le Compte). Di tali decisioni va altresì ricordata
l’importante notazione, indubbiamente da condividere, che i membri dei
collegi professionali partecipano al giudizio non già come
rappresentanti dell’ordine professionale, e quindi in una posizione
incompatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale, bensì a
titolo personale e perciò in una posizione di “terzietà”,
analogamente a tutte le magistrature.
6. – Sotto il secondo profilo prospettato dall’ordinanza di
rimessione – quello del funzionamento dell’organo – rileva la Corte che
il giudizio si svolge dinanzi al Consiglio nazionale secondo il modello
del processo civile, con l’intervento, a garanzia dell’osservanza della
legge, del massimo esponente dell’ufficio del Pubblico Ministero, ossia
del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione: il quale rimane
però sempre distinto, com’è indispensabile, dall’organo giudicante,
tanto che questa Corte, occupandosi dell’analoga disciplina del
Consiglio nazionale forense, ha ritenuto illegittima la sua
partecipazione in camera di consiglio al momento della deliberazione
della decisione (cfr. sent. n. 27 del 1972), provocando da parte del
legislatore (1. 8 agosto 1977 n. 532) l’esclusione di tale
partecipazione in tutti i giudizi civili nei quali, a differenza di
quelli penali, era stata mantenuta.
Sulla legittimità costituzionale della normativa non incide
sicuramente il fatto che al Consiglio spettino anche delle funzioni
amministrative.
In proposito non è pertinente la giurisprudenza di questa Corte,
che ha ritenuto l’illegittimità di alcune giurisdizioni speciali a
causa della coesistenza nello stesso organo di funzioni giurisdizionali
e amministrative (cfr. sentt. n. 60/1969; 121/1970; 128/1974). Invero,
secondo detta giurisprudenza, non è la semplice coesistenza delle due
funzioni che menoma l’indipendenza del giudice (come la Corte ha
espressamente ribadito nella sent. 73/1970), bensì il fatto che, nelle
ipotesi considerate dalle decisioni suddette, le funzioni
amministrative erano affidate all’organo giurisdizionale in una
posizione gerarchicamente sottordinata, sicché era immanente il
rischio che il potere dell’organo superiore potesse indirettamente
estendersi anche alle funzioni giurisdizionali e potesse così in
definitiva pregiudicare altresì l’indipendenza del giudice.
Nella fattispecie, al contrario, le funzioni amministrative sono
esercitate dal Consiglio senza che sussista un rapporto di
subordinazione verso alcun altro soggetto e quindi in piena autonomia:
con la evidente conseguenza che la loro coesistenza con quelle
giurisdizionali non importa il rischio sopra menzionato e pertanto non
incide sull’indipendenza del Consiglio stesso.
A conferma di ciò, non si può omettere il riferimento al
Consiglio di Stato e alla Corte dei conti i quali, per dettato
costituzionale, hanno nel contempo funzioni giurisdizionali e di altra
natura (artt. 100 e 103 Cost.). Peraltro anche gli organi della
giurisdizione ordinaria, accanto alle funzioni tipiche, ne hanno altre
di natura amministrativa (organizzazione degli uffici, vigilanza e
controllo sul personale di cancelleria e subalterno, vigilanza sugli
ufficiali dello stato civile, ecc.) senza che queste diminuiscano la
loro indipendenza.
7. – Un cenno merita infine la circostanza che l’organo giudicante
in esame costituisce un collegio a composizione variabile, in quanto
per la validità delle pronunce non è prescritta la partecipazione
alla discussione e decisione di un numero fisso di componenti, ma è
sufficiente quella della maggioranza di essi (art. 16, d.l. lgt. n.
382/1944, relativo anche agli altri Consigli nazionali da tale decreto
previsti, salva l’eccezione dell’art. 22, il quale per il Consiglio
nazionale forense stabilisce che è sufficiente un quarto dei membri).
È da escludere, invero, che tale modalità di funzionamento, pur se
non frequente nei collegi giurisdizionali, possa incidere sul requisito
dell’indipendenza, e ciò perché la variabilità numerica, comunque la
si consideri, non ha affatto l’idoneità a pregiudicare l’autonomo
esercizio della giurisdizione, rimanendo inalterata la libertà di
giudizio dei membri intervenuti. Basterebbe in proposito ricordare
l’ordinamento di questa Corte, disponendo l’art. 16, secondo comma, l.
11 marzo 1953 n. 87 che essa ” funziona con l’intervento di almeno
undici giudici”.
Sebbene l’esempio addotto sia di per sé talmente significativo da
impedire la persistenza di qualsiasi dubbio, è utile pure ricordare
gli uffici di presidenza della Camera dei Deputati e del Senato della
Repubblica, ai quali, quando decidono le controversie di impiego del
personale, è stata riconosciuta la natura giurisdizionale (cfr. Cass.
civ., Sez. un., 23 aprile 1986 n. 2861): invero anche per la validità
delle loro deliberazioni è sufficiente la maggioranza dei componenti
(reg. Camera: art. 46; reg. Senato: art. 107). Inoltre si può
menzionare l’art. 7 d. lgs. 6 maggio 1948 n. 655, il quale stabilisce
che la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti operante in
Sicilia giudica con almeno tre membri.
Pertanto, è da ritenere che in proposito non sia configurabile
un’incidenza costituzionalmente viziante, anche se ciò non impedisce
di rilevare l’esigenza di una più rigorosa disciplina del
funzionamento delle giurisdizioni speciali professionali, le quali,
essendo profondamente diverse dagli organi a composizione variabile
sopra richiamati, richiedono maggiori cautele. È perciò legittimo
l’auspicio che il legislatore non ritardi ulteriormente, in sede di
revisione, una più rassicurante disciplina generale delle
giurisdizioni predette.
8. – Esaurito così l’esame della questione pregiudiziale, rileva
la Corte che non sono fondate neppure le altre due, relative
all’iscrizione all’albo dei geometri, sollevate dal Consiglio nazionale
della categoria.
La prima di esse concerne, in effetti, soltanto l’art. 92, sesto
comma, d.P.R. 31 maggio 1974 n. 417 (le altre indicazioni di varie
disposizioni contenute nell’ordinanza di rimessione non hanno ragione
d’essere, giacché quella ora citata è ormai la sola norma che
disciplina la materia). Esso consente al personale docente, previa
autorizzazione del direttore didattico o del preside, “l’esercizio di
libere professioni che non siano di pregiudizio all’assolvimento di
tutte le attività inerenti alla funzione docente e siano compatibili
con l’orario di insegnamento e di servizio”.
Della legittimità costituzionale di detta norma l’ordinanza di
rimessione dubita sul rilievo che essa contrasterebbe: a) con l’art. 3
Cost. per la disparità di trattamento rispetto agli altri dipendenti
pubblici, ai quali non è consentito l’esercizio di libere professioni;
b) con gli artt. 97 e 98, primo comma, Cost. perché essa sarebbe
idonea a turbare il regolare svolgimento dell’attività didattica e
contrasterebbe quindi con gli interessi affidati alla pubblica
amministrazione.
La censura non può essere condivisa.
Il legislatore ha attribuito al personale docente la facoltà di
esercitare la libera professione sul presupposto dell’influenza
positiva che all’attività didattica può derivare dalla pratica
professionale: questa, invero, arricchendo il patrimonio culturale del
docente con l’esperienza concreta, può consentire, anche in relazione
al continuo progresso delle varie discipline, un insegnamento non
limitato ad un’astratta problematica, ma aderente al continuo divenire
della realtà. Peraltro essa è prevista entro precisi limiti, in
quanto la norma impugnata non consente l’esercizio professionale se nei
singoli casi esso possa risultare pregiudizievole alla funzione
didattica o all’orario di insegnamento e di servizio.
Data la rilevata ratio della disciplina normativa, il principio di
eguaglianza non sembra correttamente invocato. Detto principio esige
infatti parità di trattamento per situazioni eguali ovvero analoghe
(e, per converso, una disciplina differenziata per situazioni non
riconducibili a sostanziale identità); mentre la posizione del
personale docente presenta – per la ricordata utilità dell’esperienza
pratica nell’insegnamento – caratteri di specialità rispetto a quella
degli altri pubblici funzionari, indicata dal giudice a quo come
termine di comparazione.
Parimenti non regge il richiamo agli artt. 97 e 98 Cost., che
possono essere considerati congiuntamente, in quanto, pur se essi sono
stati indicati come distinti parametri costituzionali, l’impugnativa
del giudice a quo ha un unico contenuto. Infatti, come già precisato,
la facoltà di esercitare la libera professione è stata contenuta dal
legislatore entro precisi limiti, giacché essa non è consentita se
possa comunque incidere negativamente sull’espletamento dell’attività
didattica e, in particolare, sull’osservanza dei doveri concernenti
l’orario di insegnamento e di servizio.
9. – Con l’ordinanza n. 491/1979 il Consiglio censura infine l’art.
1, ult. comma, l. 8 agosto 1977 n. 583, che esclude l’obbligo
dell’iscrizione alla Cassa di previdenza e assistenza per quei
professionisti i quali godono di forme di previdenza obbligatoria in
dipendenza di un lavoro subordinato o comunque di una diversa
attività. Il giudice a quo ritiene che la riportata disposizione
contrasti con l’art. 3 Cost. in quanto l’iscrizione alla Cassa è
obbligatoria in via generale per tutti i geometri, mentre è esclusa –
soltanto per i professionisti da essa considerati (l’ordinanza di
rimessione indica nella sua denuncia – anche varie altre norme, che
però non hanno chiaramente alcuna attinenza con la mossa censura, onde
si terrà conto, anche nel dispositivo, soltanto della norma suddetta).
Giova premettere all’esame della questione che la successiva legge
20 ottobre 1982 n. 773, che pur ha modificato la disciplina in esame,
non incide sul punto centrale dell’impugnativa, in quanto ha lasciato
immutata l’esclusione dall’obbligo suddetto, pur ammettendo la
facoltà, in precedenza esclusa, di iscrizione da parte del
professionista il quale sia già tutelato da altra forma previdenziale
(art. 22, secondo comma). La censura rimane quindi inalterata nei suoi
termini essenziali e va conseguentemente esaminata nel merito.
La Corte si è già occupata di una questione di contenuto opposto,
ossia del duplice regime di assicurazione stabilito dalla legge per gli
esercenti la professione forense, che siano contemporaneamente docenti
(universitari): ed è pervenuta alla conclusione della legittimità
costituzionale della relativa disciplina, in considerazione del potere
di scelta spettante al legislatore ordinario nell’ambito del
fondamentale precetto dell’art. 38 Cost., anche in relazione alla
disponibilità dei relativi mezzi economici (sent. n. 133/1984). In
detta decisione la Corte prese in esame anche la normativa riguardante
i geometri, la quale non impone tale duplicità ed era stata indicata
dal giudice rimettente come tertium compurationis ed avvertì
espressamente che ogni sistema previdenziale presenta una propria
autonomia, in relazione alle peculiarità della categoria a cui si
riferisce, e non è quindi suscettibile di estensione al di fuori del
suo particolare ambito.
Ciò posto, la censura non può trovare accoglimento perché
investe il merito della scelta operata dal legislatore, il quale, nei
limiti della sua specifica potestà discrezionale, ha ritenuto
opportuno introdurre un regime previdenziale differenziato,
collegandolo all’eterogenea posizione dei soggetti interessati. ossia,
da un lato, quello dei professionisti non protetti da alcuna forma
previdenziale e, dall’altro, di coloro che sono già tutelati. Né la
diversa disciplina può considerarsi viziata da irrazionalità,
giacché, come questa Corte ha ritenuto con la ricordata sentenza, una
(seconda) partecipazione ad altro sistema di previdenza può bensì
risultare giustificata secondo una più accentuata concezione
solidaristica, correlata alle esigenze proprie di una determinata
categoria di lavoratori autonomi. Ma altrettanto legittimamente può
non sussistere, se il legislatore ritiene che nella singola fattispecie
gli specifici fini da perseguire e i relativi mezzi economici non
richiedano di imporre la partecipazione ad una molteplicità di sistemi
previdenziali, con il conseguente onere di una pluralità di
contributi.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 14, secondo comma, d.l. lgt. 23 novembre 1944 n. 382,
sollevata da questa Corte in riferimento all’art. 108 Cost. con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 92, sesto e settimo comma, d.P.R. 31 maggio 1974 n. 417,
sollevata dal Consiglio nazionale dei geometri in riferimento agli
artt. 3, 97 e 98 Cost. con le ordinanze indicate in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1, ultimo comma, l. 8 agosto 1977 n. 583, sollevata dal detto
Consiglio nazionale in riferimento all’art. 3 Cost. con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 1986.
F.to: ANTONIO LA PERGOLA – VIRGILIO
ANDRIOLI – GIUSEPPE FERRARI –
FRANCESCO SAJA – GIOVANNI CONSO –
ETTORE GALLO – GIUSEPPE BORZELLINO –
FRANCESCO GRECO – RENATO DELL’ANDRO –
GABRIELE PESCATORE – UGO SPAGNOLI –
FRANCESCO PAOLO CASAVOLA – ANTONIO
BALDASSARRE – VINCENZO CAIANIELLO.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere