Sentenza N. 29 del 1977
Corte Costituzionale
Data generale
18/01/1977
Data deposito/pubblicazione
18/01/1977
Data dell'udienza in cui è stato assunto
04/01/1977
OGGIONI – Avv. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI
– Dott. NICOLA REALE – Avv. LEONETTO AMADEI – Dott. GIULIO GIONFRIDA –
Prof. EDOARDO VOLTERRA – Prof. GUIDO ASTUTI – Dott. MICHELE ROSSANO –
Prof. ANTONINO DE STEFANO – Prof. LEOPOLDO ELIA, Giudici,
codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 28 gennaio
1975 dal pretore di Ancona, nel procedimento penale a carico di Ricci
Vittorio ed altri, iscritta al n. 299 del registro ordinanze 1975 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 235 del 3
settembre 1975.
Udito nella camera di consiglio dell’11 novembre 1976 il Giudice
relatore Antonino De Stefano.
Con ordinanza emessa il 28 gennaio 1975 nel procedimento penale a
carico di Ricci Vittorio, Galati Umberto e Tessadori Francesco,
imputati del reato previsto e punito dall’art. 67 cod. pen., il pretore
di Ancona ha sollevato d’ufficio questione di legittimità
costituzionale degli artt. 8 e 141 cod. proc. pen., in quanto
concernenti la disciplina degli scritti anonimi nel vigente sistema
processuale penale, per contrasto con gli artt. 2, 24 e 25 della
Costituzione.
Nell’ordinanza il giudice a quo premette che intende proporre un
problema di legittimità già esaminato da questa Corte (sent. n. 300
del 1974), sia pure in relazione a diversd parametri costituzionali
(artt. 3, 24 e 109), in quanto, mentre dal divieto dell’art. 141 di
fare qualsiasi uso processuale degli scritti anonimi si desume che essi
non possano essere utilizzati quali validi stimoli per l’esercizio
dell’azione penale, la Cassazione ha, invece, costantemente affermato
che il pubblico ministero deve disporre accertamenti in seguito alla
ricezione di denunce anonime, e che il giudice può validamente
usufruire delle prove scaturenti da indagini originate da tali denunce.
Il riesame sarebbe quindi giustificato, oltreché dal contrasto tra gli
orientamenti giurisprudenziali della Corte di cassazione e dei giudici
di merito, anche dai diversi profili d’incostituzionalità.
A suo avviso, le norme denunciate contrasterebbero anzitutto con
l’art. 2 della Costituzione, atteso che la conservazione dell’art. 141,
con la conseguente utilizzabilità delle denunce anonime,
confliggerebbe con quel processo di responsabilizzazione personale, che
rientra tra i fini perseguiti dal citato precetto costituzionale nel
suo richiamo all’adempimento dei doveri di solidarietà sociale.
Altro profilo d’incostituzionalità è dedotto in riferimento al
secondo comma dell’art. 24 della Costituzione, per la sostanziale
diversità che viene a crearsi nei processi originati da scritti
anonimi, tra accusatore e accusato. Il diritto alla difesa, infatti,
non può non ricomprendere anche quello di non essere falsamente
accusato. Né giova rilevare che il diritto di difesa di chi è
falsamente accusato si esplica anche con la sanzionabilità penale
della condotta di chi formula accuse false (art. 368 cod. pen.),
poiché tale sanzione ha scarso valore nei confronti degli accusatori
anonimi.
L’esperienza dimostra che con l’utilizzazione degli scritti anonimi
si apre la strada anche alla moltiplicazione di accuse false, dettate
da odi personali, difficilmente punibili per la difficoltà di
individuarne gli autori.
Sarebbe, infine, violato l’art. 25 della Costituzione, secondo cui
nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale. Aderendosi,
infatti, alla tesi della Cassazione, che riconosce agli scritti anonimi
il potere di attivare gli organi giudiziari per accertare la fondatezza
dell’accusa, pur lasciando liberi tali organi sull’apprezzamento del
valore di dette denunce, si può verificare il caso di indagini svolte
al fine dichiarato di valutarne l’attendibilità, ma con il risultato
concreto dello svolgimento di attività istruttorie da parte di organi
incompetenti per materia o per territorio, specie per i reati di
competenza del pretore, nella cui attività è molto difficile, in
pratica, far distinzione tra atti compiuti come pubblico ministero e
atti compiuti come giudice.
Nel giudizio dinanzi a questa Corte nessuno si è costituito.
1. – Con l’ordinanza in epigrafe viene sollevata questione di
legittimità costituzionale dell’art. 141 cod. proc. pen., il quale,
ai fini della eliminazione degli scritti anonimi, prescrive che “non
possono essere uniti agli atti del procedimento, né può farsene alcun
uso processuale, salvo che costituiscano corpo del reato, ovvero
provengano comunque dall’imputato”; nonché dell’art. 8 dello stesso
codice, che, nel disciplinare le formalità della denuncia, rinvia, per
le delazioni anonime, al menzionato art. 141.
Ad avviso del giudice a quo, le impugnate norme, in quanto –
secondo l’interpretazione datane dalla prevalente giurisprudenza –
circoscrivono il divieto all’uso degli scritti anonimi nell’ambito
processuale, ma non lo estendono anche alla loro utilizzazione quali
validi stimoli per l’esercizio dell’azione penale, violerebbero i
seguenti articoli della Costituzione: l’art. 2, nella parte in cui
richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale;
l’art. 24, che al secondo comma qualifica la difesa come diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento; l’art. 25, che al
primo comma sancisce il diritto di non essere distolto dal giudice
naturale precostituito per legge.
2. – Questa Corte, con sentenza n. 300 del 1974, ha già dichiarato
non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 141
e 231 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 109
della Costituzione; e con successiva sentenza n. 95 del 1975 ha
dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dello stesso art. 231, “in quanto non esclude che il
pretore possa disporre indagini sul contenuto di una delazione anonima
che addebita un reato a pensona individuata”, sollevata in riferimento
agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione.
La questione adesso all’esame della Corte, sollevata sotto profili
diversi dai precedenti, è del pari infondata, per le ragioni qui di
seguito esposte.
3. – L’ordinanza assume che l’art. 141, nel consentire, secondo
l’accolta interpretazione, la indiretta utilizzabilità delle denunce
anonime nel campo della giustizia penale, concreterebbe “una grossa
eccezione al dovere di solidarietà civica”, il cui adempimento viene
richiesto e controllato dall’ordinamento. Ne conseguirebbe un contrasto
con quella responsabilizzazione personale, che rientra tra i fini
perseguiti dall’art. 2 della Costituzione, in quanto “il delatore
anonimo appare carente di quella fondamentale virtù civica, che
consiste nell’assumersi le responsabilità delle proprie azioni”. Ora,
non v’ha dubbio che la richiamata norma costituzionale abbia
solennemente posto a base dell’ordinamento, accanto al riconoscimento
ed alla garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, l’esigenza
dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale. Ma deve convenirsi, come già affermato da questa
Corte nella sentenza n. 12 del 1972, che “a parte ogni considerazione
circa il carattere direttamente precettivo dell’art. 2 allorché
richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà… non può competere
ad altri che non sia il legislatore lo stabilire i modi ed i limiti
dell’adempimento stesso”.
È pacifico che nell’attuale sistema non incomba sul cittadino un
generale “dovere” di denunciare qualsiasi reato del quale venga a
conoscenza: tolti i casi in cui la denuncia è obbligatoria ed è
punita la sua omissione (art. 364 cod. pen.), ogni persona che abbia
notizia di un reato perseguibile d’ufficio, “può”, non “deve”, farne
denuncia (art. 7 cod. proc. pen.). Se, avvalendosi di questa facoltà,
presenti la denuncia per iscritto, deve firmarla (art. 8, comma terzo,
cod. proc. pen.). L’inosservanza di tale prescrizione comporta
l’applicazione dell’art. 141, ma non configura, di per sé, un reato a
carico dell’autore della denuncia anonima, salvo che questi non sia
responsabile, per la falsità della denuncia medesima, di simulazione
di reato (art. 367 cod. pen.), di calunnia (art. 368 cod. pen.) o di
autocalunnia (art. 369 cod. pen.). La facoltà di denuncia concreta,
dunque, una funzione socialmente utile; e nel suo palese e responsabile
esercizio il denunciante si rende portatore ed interprete
dell’interesse della collettività acché i reati non restino impuniti.
Ma non può, allo stato della legislazione, configurarsi per questo nei
suoi confronti un inderogabile dovere di solidarietà sociale, del
quale sia richiesto in ogni caso l’adempimento.
Innegabile che, come fatto di costume, lo scritto anonimo dimostri
inequivocabilmente la pavidità del suo autore, talvolta umanamente
comprensibile per la possibilità di rappresaglie e vendette, se
denunzi un fatto vero, e la sua ripugnante viltà morale, se inventi un
fatto od una circostanza falsi o calunniosi; ed è sommamente
auspicabile che il costume si evolva e migliori, innalzandosi il
livello di educazione civile e di coraggiosa lealtà dei cittadini. È
al legislatore, però, che compete valutare nell’an e nel quando la
possibilità di anticipare, agevolare ed orientare l’evoluzione del
costume, scegliendo i tempi, i modi ed il ritmo del processo di
responsabilizzazione personale e sociale.
La Corte esclude, pertanto, che le denunciate norme contrastino,
sotto il dedotto profilo, con l’art. 2 della Costituzione.
4. – Altro profilo d’incostituzionalità è ravvisato,
dall’ordinanza di rimessione, nella disparità che verrebbe a
determinarsi tra l’ignoto accusatore e l’accusato: ne resterebbe
violato il secondo comma dell’art. 24 della Costituzione che, collegato
con l’art. 3 della stessa Carta, sancisce l’assoluta parità tra accusa
e difesa in ogni fase giurisdizionale, specie nel campo penale. Il
diritto di difesa comprende anche quello di non essere falsamente
accusato: ma ammettendo la utilizzabilità nel processo penale degli
scritti anonimi, si apre la strada alla moltiplicazione di accuse
false, dettate solo da odi personali, e assai difficilmente
sanzionabili, per la difficoltà di individuare i loro autori.
In proposito è sufficiente ribadire quanto già diffusamente
affermato nella menzionata sentenza n. 300 del 1974. E cioè, che la
denuncia anonima, anche se, a seguito di essa, siano state avviate
indagini di polizia, rimane pur sempre rigorosamente al di fuori di
qualsiasi stato e grado del procedimento, presidiato dal diritto
inviolabile della difesa, perché assolutamente priva di efficacia sul
piano probatorio o indiziario, in ordine tanto all’asserito reato,
quanto all’autore che lo avrebbe commesso.
Essa, men che provocare l’inizio del processo, può dar luogo
soltanto, ove non meriti di essere cestinata, ad accertamenti volti ad
acquisire elementi di prova seri o concreti, sulla cui sola base potrà
in prosieguo essere promossa l’azione penale. Poiché, dunque, la
delazione anonima è radicalmente inidonea a provocare l’apertura di un
procedimento, il diritto a difendersi del soggetto indicato come autore
del fatto sorgerà solo se, in conseguenza delle indagini di polizia e
per esclusivo effetto delle loro risultanze, egli verrà ad assumere la
posizione di indiziato.
In mancanza, perciò, di una legittima notitia criminis e di un
indiziato, non v’è alcun diritto di difesa da riconoscere e garantire.
5. – Egualmente insussistente è la denunciata violazione dell’art.
25 della Costituzione. Si assume in proposito che, nella ipotesi di
reati di competenza del pretore, nella cui attività non è sempre
facile in pratica distinguere tra atti compiuti come pubblico ministero
e atti compiuti come giudice, si potrebbe verificare il caso di
indagini svolte, a seguito di denuncia anonima, al fine di valutare
l’attendibilità della denuncia, ma con il risultato dello svolgimento
di attività istruttoria da parte di organo incompetente per materia o
per territorio.
Al riguardo giova premettere che, secondo quanto più volte
affermato da questa Corte, il principio del giudice naturale, sancito
dal richiamato precetto costituzionale, va inteso solo come esigenza di
giudice precostituito per legge (da ultimo, vedasi sentenza n. 98 del
1976); e nella nozione di giudice, ai fini della osservanza dello
stesso precetto, non può ritenersi compreso il pubblico ministero (da
ultimo, vedasi sentenza n. 95 del 1975).
Per quanto, poi, concerne la distinzione fra atti di istruzione
preliminare ovvero di polizia giudiziaria, e atti d’istruzione vera e
propria, compiuti dal pretore, la soluzione accolta da dottrina e
giurisprudenza, secondo la quale l’inizio dell’istruzione sommaria
dovrebbe essere segnato dalla manifestazione di volontà del pretore,
di uscire dalla fase della ricezione della notitia criminis e degli
elementi che la corredano, per passare all’esercizio dell’azione
penale, rende palese che in ogni caso le indagini di polizia
eventualmente avviate a seguito di una denuncia anonima, si collocano
necessariamente nella prima fase, o perfino anteriormente ad essa, non
potendo la denuncia stessa, per quanto già innanzi detto, configurarsi
siccome notitia criminis. Si è, dunque, decisamente al di fuori
dell’ambito tutelato dall’art. 25 della Costituzione.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 8 e 141 del codice di procedura penale, sollevata dal
pretore di Ancona con l’ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento
agli artt. 2, 24 e 25 della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 gennaio 1977.
F.to: PAOLO ROSSI – LUIGI OGGIONI –
ANGELO DE MARCO – ERCOLE ROCCHETTI –
ENZO CAPALOZZA – VINCENZO MICHELE
TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI – NICOLA
REALE – LEONETTO AMADEI – GIULIO
GIONFRIDA – EDOARDO VOLTERRA – GUIDO
ASTUTI – MICHELE ROSSANO – ANTONINO
DE STEFANO – LEOPOLDO ELIA.
ARDUINO SALUSTRI – Cancelliere