Sentenza N. 290 del 1985
Corte Costituzionale
Data generale
13/11/1985
Data deposito/pubblicazione
13/11/1985
Data dell'udienza in cui è stato assunto
12/11/1985
REALE – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof.
VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI – Dott. FRANCESCO SAJA –
Prof. GIOVANNI CONSO – Prof. ETTORE GALLO – Dott. ALDO CORASANITI –
Prof. GIUSEPPE BORZELLINO – Dott. FRANCESCO GRECO – Prof. RENATO
DELL’ANDRO, Giudici,
comma, e 8 legge 13 novembre 1960 n. 1407 (Norme per la classificazione
e la vendita degli olii di oliva) in relazione all’art. 13 legge 30
aprile 1962 n. 283, modificato dall’art. 10 della legge 26 febbraio
1963 n. 441, promosso con ordinanza emessa il 29 dicembre 1977 dal
Pretore di Lecce nel procedimento penale a carico di Rollo Carmelo ed
altro, iscritta al n. 217 del registro ordinanze 1978 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 186 dell’anno 1978.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’8 ottobre 1985 il Giudice relatore
Ettore Gallo;
udito l’Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Nel corso di un processo penale contro Carmelo Rollo ed Italo
Proti, imputati del delitto di cui agli artt. 5, comma terzo e 8 legge
13 novembre 1960 n. 1407, il pretore di Lecce, con ord. 29 dicembre
1977, sollevava questione di legittimità costituzionale delle norme
predette in riferimento all’art. 3 Cost.. I due imputati dovevano
rispondere rispettivamente di avere detenuto per la vendita, e di avere
prodotto e messo in commercio, olio d’oliva denominato “olio vergine
d’oliva di frantoio”: denominazione diversa da quella prescritta negli
artt. 1, 2 e 3 della stessa legge. Rilevava in proposito l’ordinanza
che la previsione come delitto della fattispecie di cui all’art. 8
della legge impugnata, e la sanzione congiunta di pena detentiva e pena
pecuniaria proporzionale, determinavano palese disparità di
trattamento nei confronti dell’art. 13 della legge 30 aprile 1962 n.
283 che commina la sola pena dell’ammenda nei confronti di situazione
che il pretore giudica analoga. In realtà, l’art. 13 citato prevede il
fatto di chi offre in vendita o propaganda sostanze alimentari,
adottando denominazioni e nomi impropri o, in genere, mezzi tali da
sorprendere la buona fede ed indurre gli acquirenti in errore circa la
natura, sostanza, qualità delle sostanze stesse.
Secondo il rimettente, ambo le disposizioni si riferiscono alla
circolazione di alimenti con denominazioni improprie, ambo mirano a
salvaguardare la buona fede del consumatore, e non ci sarebbe, perciò,
ragione che giustifichi un trattamento così diverso. Per di più, poi,
l’art. 8 denunziato sottopone allo stesso trattamento sanzionatorio
tanto chi metta in commercio olii rispondenti a tutte le
caratteristiche organolettiche prescritte dalla legge, ma portanti
denominazione non conforme a quella dalla legge indicata, e chi,
invece, ponga in commercio una sostanza alterata nelle proprietà
organolettiche (anche se fedele alla denominazione prescritta).
Interveniva nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, che
chiedeva dichiararsi l’infondatezza della questione sollevata.
Osservava in proposito l’interveniente che le situazioni poste a
raffronto sono obiettivamente diverse. L’una, infatti, si riferisce a
sostanze alimentari in genere, mentre l’altra ne disciplina uno
specifico settore: quello degli olii d’oliva.
L’una tende genericamente ad impedire denominazioni che possono
trarre in inganno, l’altra, quella denunziata, sanziona la violazione
di una specifica prescrizione nella quale il legislatore ha indicato
categoricamente le denominazioni consentite, vietandone ogni altra
diversa.
All’udienza odierna il rappresentante dell’Avvocatura dello Stato
insisteva nelle conclusioni prese nell’atto di intervento.
La prospettazione del giudice a quo è molto suggestiva, ma non
supera i punti fermi stabiliti dalla giurisprudenza di questa Corte. In
prima approssimazione, la divergenza che l’ordinanza sottolinea fra il
grave trattamento sanzionatorio previsto dalle norme impugnate (rectius
dall’art. 8 della legge) e quello disposto dall’art. 13 della legge 30
aprile 1962 n. 283, può effettivamente indurre l’impressione di una
inspiegabile disparità.
Ma non appena si consideri che la legge 283/1962 rappresenta un
complesso di norme a carattere generale, che s’inserisce nel T. U.
delle leggi sanitarie di cui modifica quattro articoli,
quell’impressione si dilegua.
Infatti, mentre con la detta legge si è inteso dettare nuove norme
in materia di produzione e commercio delle sostanze alimentari in
genere, la legge impugnata disciplina invece, in modo particolare, uno
specifico e delicato settore di quelle sostanze, qual è quello degli
olii d’oliva; settore dove più facili e più frequenti si sono
dimostrate nell’esperienza le frodi perpetrate ai danni tanto dei
produttori quanto dei consumatori. Il legislatore, perciò, ha inteso
assumere una rigorosa posizione, tutelando non soltanto i modi di
produzione e le proprietà organolettiche dei prodotti, ma altresì, e
con lo stesso rigore, ogni possibile fraudolenta escogitazione nelle
denominazioni e nelle indicazioni d’origine. A tal fine, ha predisposto
d’autorità una serie di denominazioni ufficiali corrispondenti alle
varie categorie del prodotto, singolarmente precisate per metodo di
lavorazione e contenuto di acidità oleica. Sembra evidente allora che
la trasgressione al divieto di usare una denominazione diversa da
quella rigorosamente indicata è considerata dal legislatore come
indicativa di uno specifico intento criminoso, ben più grave di una
semplice “improprietà” di denominazioni, su cui la legge ha lasciato
agli interessati ampia libertà: salvo ovviamente il limite della
idoneità a trarre in errore l’acquirente.
Fra le due situazioni, pertanto, lungi dal verificarsi le identità
segnalate dall’ordinanza, corrono invece notevoli differenze sia in
ordine all’ampiezza degl’interessi tutelati (anche quello dei
produttori nelle norme impugnate, prevalentemente quello dei
consumatori nel tertium comparationis), sia in relazione alla loro
qualità (generica nell’una, specifica nell’altra), sia infine con
riguardo alla condotta criminosa, sicuramente più grave da parte di
chi si pone in contraddizione con un espresso e categorico divieto
specifico della norma.
In difetto, pertanto, del presupposto su cui l’ordinanza fondava il
sospetto d’illegittimità costituzionale di un trattamento
sanzionatorio asseritamente ingiustificato, la lamentata violazione
dell’art. 3 Cost. non sussiste.
Tuttavia, richiamandosi al pertinente rilievo conclusivo contenuto
nella sent. 22 febbraio 1974 n. 57 concernente analoghe situazioni,
questa Corte ribadisce che spetta al giudice di merito stabilire nel
caso di specie se, avuto riguardo alla ratio legis, la denominazione in
concreto usata assuma effettivamente rilevanza giuridica agli effetti
penali.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 5 comma terzo, e 8 legge 13 novembre 1960 n. 1407,
sollevata dal pretore di Lecce, con ord. 29 dicembre 1977, in
riferimento all’art. 3 Cost.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 novembre 1985.
F.to: LIVIO PALADIN – ORONZO REALE –
ALBERTO MALAGUGINI – ANTONIO LA
PERGOLA – VIRGILIO ANDRIOLI –
GIUSEPPE FERRARI – FRANCESCO SAJA –
GIOVANNI CONSO – ETTORE GALLO – ALDO
CORASANITI – GIUSEPPE BORZELLINO –
FRANCESCO GRECO – RENATO DELL’ANDRO.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere