Sentenza N. 292 del 1984
Corte Costituzionale
Data generale
19/12/1984
Data deposito/pubblicazione
19/12/1984
Data dell'udienza in cui è stato assunto
14/12/1984
GUGLIELMO ROEHRSSEN – Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO
MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof.
VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI – Dott. FRANCESCO SAJA –
Prof. GIOVANNI CONSO – Prof. ETTORE GALLO – Dott. ALDO CORASANITI –
Prof. GIUSEPPE BORZELLINO, Giudici,
primo comma, della legge 2 luglio 1952, n. 703 (Disposizioni in
materia di finanza locale) promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 13 novembre 1979 dalla Corte d’appello di
Milano nel procedimento civile vertente tra SIP e Comune di Cinisello
Balsamo, iscritta al n. 96 del registro ordinanze 1980 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 105 dell’anno 1980;
2) quattro ordinanze emesse il 10 novembre 1982 e 8 febbraio 1984
dal Tribunale di Lucca nei procedimenti civili vertenti tra la SIP e il
Comune di Forte dei Marmi, iscritte ai nn. 201, 202 e 203 del registro
ordinanze 1983 e 562 del registro ordinanze 1984 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 225 del 1983 e n. 190 del 1984.
Visti gli atti di costituzione della SIP e del Comune di Cinisello
Balsamo nonché gli atti d’intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 16 ottobre 1984 il Giudice relatore
Giuseppe Ferrari;
uditi l’avv. Filippo Satta per la SIP e l’avvocato dello Stato
Luigi Siconolfi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1. – Con ordinanza in data 13 novembre 1979 la Corte d’appello di
Milano, nel giudizio promosso dall’appellante SIP – Società italiana
per l’esercizio telefonico s.p.a. – nei confronti del Comune di
Cinisello Balsamo avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Monza in
data 18 dicembre 1978, esponeva che la SIP si era doluta che il Comune
di Cinisello Balsamo avesse applicato in misura quadrupla, per gli anni
1974, 1975 e 1976, la tassa per l’occupazione di aree e spazi pubblici
benché non vi fosse stato alcun incremento nella estensione della rete
dei cavi telefonici. Il Comune aveva dedotto che la misura originaria
della tassa per l’occupazione del sottosuolo stradale di cui all’art.
198 del r.d. 14 settembre 1931, n. 1175 (Testo unico per la finanza
locale) doveva ritenersi aumentata non già di quaranta volte – come
assumeva la SIP – bensì di centosessanta volte, giacché l’art. 39
della legge 2 luglio 1952, n. 703, recante “disposizioni in materia di
finanza locale”, aveva disposto l’aumento di quaranta volte della
tariffa prevista dall’art. 198, r.d. n. 1175 del 1931, “e successive
modificazioni”; le quali erano state apportate con l’art. 32 del d.
lgs. lgt. 8 marzo 1945, n. 62, che aveva appunto aumentato di quattro
volte la misura originaria della tassa per l’occupazione del sottosuolo
stradale.
La SIP aveva a sua volta eccepito l’incostituzionalità dell’art.
39 della l. 2 luglio 1952, n. 703, assumendo che la disposizione non
era stata approvata nel medesimo testo dai due rami del Parlamento,
secondo quanto disposto dagli artt. 70 e 72 Cost..
La Corte d’appello di Milano, accogliendo l’eccezione della SIP, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale della norma in
questione in riferimento ai citati parametri di raffronto.
Premesso che è assolutamente pacifico che la disposizione
denunciata fu approvata dal Senato, in assemblea, senza l’inciso “e
successive modificazioni”; che tale inciso fu invece introdotto dalla
Commissione incaricata del coordinamento da quel ramo del Parlamento;
che il testo così integrato fu poi approvato dalla Camera dei
deputati, la quale però non lo rinviò al Senato per la definitiva
approvazione, e che in tale formulazione la legge fu poi promulgata e
pubblicata, il giudice a quo rileva che dalla diversa dizione dei due
testi consegue una diversa statuizione normativa, posto che quello
pubblicato fa espresso ed insuperabile riferimento alle modifiche
successivamente apportate all’art. 198 del r.d. n. 1175 del 1931, e
quindi alle nuove tariffe fissate dall’art. 32 del d. lgs. lgt. n. 62
del 1945, mentre il testo approvato dal Senato, prima della
integrazione apportata dalla Commissione in sede di coordinamento, si
limitava inequivocamente ad aumentare di quaranta volte la tariffa
originaria di cui all’art. 198 del Testo unico per la finanza locale.
Né – si osserva ancora in ordinanza – l’analisi del complessivo
sistema della legge nella quale è inserita la norma denunciata
consente di pervenire alla conclusione che il legislatore intese
comunque, a prescindere dall’inciso in questione, fare riferimento alle
tariffe all’epoca vigenti, e quindi a quelle modificate dall’art. 32
del d. lgs. lgt. n. 62 del 1945, anziché a quelle originariamente
previste dall’art. 198 del r.d. n. 1175 del 1931. Invero, gli altri
importi tariffari modificati dalla stessa legge n. 703 del 1952
risultano, in larghissima prevalenza, superiori di quaranta (e non di
centosessanta) volte rispetto ai corrispondenti importi del 1931; e,
inoltre, dalla relazione della IV Commissione permanente della Camera
dei deputati risulta che le maggiori entrate preventivate in base alle
nuove tariffe delle tasse di occupazione del suolo e del sottosuolo
ammontano a 1250 milioni, di contro ai circa 5000 milioni che avrebbero
costituito il maggior gettito di tariffe aumentate di centosessanta,
anziché di quaranta, volte rispetto a quelle del 1931.
L’aggiunta dell’inciso “e successive modificazioni” al testo
approvato dal Senato da parte della Commissione di coordinamento non
costituì, dunque, un semplice coordinamento formale degli articoli
approvati, ma integrò una sostanziale modifica del testo,
successivamente approvato dalla Camera in una versione dunque difforme,
in violazione degli artt. 70 e 72 Costituzione.
2. – La stessa questione di legittimità costituzionale è stata
altresì sollevata, nei medesimi termini, dal Tribunale di Lucca con
quattro identiche ordinanze, tre delle quali emesse il 10 novembre 1982
e l’altra l’8 febbraio 1984, in altrettanti procedimenti civili
promossi dalla SIP nei confronti del Comune di Forte dei Marmi.
3. – Tutte le ordinanze sono state ritualmente notificate e
pubblicate.
Nel giudizio promosso dalla Corte d’appello di Milano si è
costituita sia la SIP che il Comune di Cinisello Balsamo.
La SIP, premesso che l’art. 39 in parola riproduce, senza alcuna
modificazione in parte de qua, parte del testo dell’originario art. 6
del disegno di legge presentato al Senato il 15 novembre 1949 dal
Ministro delle finanze pro tempore, Vanoni, e che esso fu concordemente
approvato da maggioranza e minoranza all’atto dell’esame da parte della
Commissione finanze e tesoro in sede referente, rileva che, dopo la
conforme approvazione da parte dell’Assemblea del Senato nella seduta
del 22 novembre 1951, il Presidente del Senato, su richiesta del
relatore, dichiarò testualmente: “Se non vi sono osservazioni resta
inteso che la Commissione procederà a termini del regolamento al
coordinamento del disegno di legge”. In questa sede la disposizione
impugnata fu modificata con l’aggiunta dell’inciso “e successive
modificazioni” che ha dato luogo al giudizio di costituzionalità. Ma
perché esso sia stato introdotto – continua la SIP in atto di
costituzione – non è dato con sicurezza sapere, non essendo stato
possibile rinvenire traccia dei lavori della Commissione di
coordinamento. Non più illuminanti sono poi gli ulteriori lavori
preparatori, avendo la Camera dei deputati discusso e approvato il
disegno di legge prima in Commissione e poi in Assemblea senza che
l’art. 39 fosse oggetto di emendamenti o discussioni specifiche.
In tale contesto non pare alla SIP che l’aggiunta dell’inciso “e
successive modificazioni” in sede di coordinamento abbia comportato una
modificazione sostanziale del testo, come invece ritenuto dal giudice a
quo. Con essa, insomma, né la commissione di coordinamento – che plus
dixit quam voluit – né la Camera intesero mutare la portata della
disposizione approvata in Assemblea dal Senato.
Anzitutto, invero, il coordinamento “a termini di regolamento”
disposto dal Presidente dell’Assemblea non può che riferirsi a
correzioni di forma e non anche di sostanza, essendo per queste ultime
richiesta la deliberazione dell’Assemblea ex art. 74 del regolamento
del Senato all’epoca vigente. E non è fondatamente ipotizzabile che
la Commissione di coordinamento abbia inteso modificare la concorde
volontà del Governo e dell’Assemblea del Senato – che era quella di
aumentare di quaranta volte le tariffe previste dal Testo unico del
1931 – senza avvertire il dovere di sottoporre nuovamente il testo
modificato del disegno di legge all’approvazione dell’Assemblea. Se
ciò non è avvenuto è segno che la Commissione non ritenne di aver
apportato col suo operato alcun mutamento sostanziale all’articolo
approvato dall’assemblea. E dello stesso parere fu, evidentemente, il
Presidente del Senato, che senz’altro trasmise l’approvato disegno di
legge al Presidente della Camera dei deputati secondo il testo
coordinato dalla Commissione.
Inoltre, l’assoluta assenza di interventi sul punto alla Camera dei
deputati e l’elaborata relazione della Commissione testimonierebbero
l’assenza di qualsiasi dubbio, anche in quella sede, sul riferimento
dell’aumento alle tariffe fissate dal Testo unico del 1931.
Ancora, il riferimento specifico delle nuove tariffe a quelle
originarie implica, in via generale, l’abrogazione tacita delle
disposizioni introdotte successivamente.
Infine, abbondano nella legge n. 703 del 1952 (agli artt. 13, 14,
16, 17, 18, 19, 20, 22, 23, 28, 29, 33, 34, 36, 37, 41, 48, 49, 51, 52,
53 e 55) i riferimenti ad articoli del T. U. fi,. loc. del 1931 e alle
loro “successive modificazioni” anche allorché nessuna modificazione
sia stata, mai, in precedenza apportata. Il che dimostrerebbe non solo
l’imperfezione tecnica della legge, ma anche che l’inciso in questione
non avrebbe di per sé, isolatamente considerato, al di fuori del
contesto generale della legge e degli indubbi criteri informatori del
legislatore in fatto di adeguamento tariffario, alcuna rilevanza
sostanziale. Il richiamo alle “successive modificazioni” può quindi
intendersi solo come clausola di stile, comunque riferita al testo
unico nel suo insieme e non già ai suoi singoli articoli, spesso non
modificati.
Sulla scorta di tali considerazioni – conclude la SIP” è da
ritenere che la questione di costituzionalità sollevata dalla Corte
d’appello di Milano è infondata perché la semplice interpretazione
dell’art. 39 rivela come esso o dica più di quanto si sia voluto, o
viceversa come, esasperando il valore del generico riferimento alle
“successive modificazioni”, gli si faccia dire più di quanto
effettivamente dice”.
4. – Di segno opposto sono le argomentazioni svolte dal Comune di
Cinisello Balsamo che, nel proprio atto di costituzione, sostiene
invece che, essendo stato l’art. 198 del T. U. del 1931 parzialmente
abrogato dall’art. 32 del d. lgs. lgt. n. 62 del 1945 (che aveva
modificato, aumentandole di quattro volte, le tariffe fissate dall’art.
198 cit.), la norma denunciata, con o senza l’inciso “e successive
modificazioni”, avrebbe comunque comportato l’aumento di centosessanta
volte delle tariffe originarie, non essendo concepibile che il
legislatore abbia inteso riferirsi alle misure tariffarie fissate da
una norma in parte de qua abrogata, facendola in tal modo rivivere, ma
dovendo invece ritenersi che il riferimento all’art. 198 sia stato
operato in relazione alla sua vigente portata normativa. La
Commissione di coordinamento del Senato, pertanto, non avrebbe
apportato alcuna “modifica” al testo approvato in Assemblea, ma ne
avrebbe solo chiarito il significato, come era sicuramente autorizzata
a fare.
5. – Analoga la conclusione cui perviene l’Avvocatura dello Stato,
intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri
in tutti i giudizi, escluso solo quello promosso dal Tribunale di Lucca
con ordinanza in data 8 febbraio 1984. In atto d’intervento si
sostiene in particolare che “la norma in genere concretizza il diritto
positivo vigente in un determinato momento storico, sia che essa
conservi il testo originario, sia che abbia subito medio tempore
immutazioni o modifiche”. Ne consegue che “eventuali ulteriori novelle
operano sul tessuto preesistente nei termini in cui si è concretamente
consolidato”, talché la circostanza che “il legislatore richiami una
specifica disposizione tout court, o la medesima disposizione con le
modifiche frattanto intervenute, non vale ad identificare realtà
normative difformi o dissimili, ma sottende come termine di riferimento
lo stesso ed unico dato, indipendentemente dalle modalità della sua
formazione, che può essersi venuta a costituire unitariamente o per
apporti successivi”.
6. – Alla pubblica udienza del 16 ottobre 1984, assente il
difensore del Comune di Cinisello Balsamo, il difensore della SIP ed il
rappresentante dell’Avvocatura dello Stato hanno entrambi insistito per
la declaratoria di infondatezza della questione, pur se in base alle
diverse argomentazioni più sopra riportate.
1. – Il testo unico per la finanza locale (t.u.f.l.), approvato con
il r.d. 14 settembre 1931, n. 1175 conosce, fra le altre entrate dei
Comuni, la “tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche”,
disciplinata negli artt. 192-200. Per quanto riguarda più
propriamente l’occupazione del sottosuolo mediante “condutture, cavi ed
impianti in genere”, tale tassa così ai sensi del dato testuale
dell’art. 198, primo comma, lettera a) – “è applicata… a metro
lineare”, “in base alla… tariffa massima ” di lire 0,50 ovvero di
lire 1, secondo che le suindicate apparecchiatura abbiano un diametro
inferiore o superiore a centimetri 20. La tariffa massima come sopra
stabilita venne poi quadruplicata con l’art. 32, lettera a), del
decreto legislativo luogotenenziale 8 marzo 1945, n. 62, che, infatti,
la elevò, rispettivamente, a lire 2 e lire 4, e nuovamente “aumentata
di quaranta volte”, a decorrere dal 1 gennaio 1952, con gli artt. 39,
primo comma, e 44 della legge 2 luglio 1952, n. 703 (“disposizioni in
materia di finanza locale”). Per l’esattezza, mentre il Senato
approvava la disposizione nel seguente testo: “la tariffa massima di
cui all’art. 198 del testo unico 14 settembre 1931, n. 1175, e al
decreto ministeriale 26 febbraio 1933, concernente le norme provvisorie
aggiunte di applicazione dello stesso testo unico in materia di tassa
per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche è aumentata di 40 volte”,
il menzionato art. 39, primo comma, così recita, viceversa, nel testo
approvato dalla Camera, promulgato dal Presidente della Repubblica,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale ed inserito nella Raccolta
ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica: “La tariffa
massima di cui all’art. 198 del testo unico per la finanza locale 14
settembre 1931, n. 1175, e successive modificazioni, e al decreto
ministeriale 26 febbraio 1933, concernente le norme provvisorie
aggiunte di applicazione dello stesso testo unico in materia di tassa
per la occupazione di spazi ed aree pubbliche, è aumentata di quaranta
volte”.
2. – Nel corso di cinque giudizi promossi dalla SIP (Società
italiana per l’esercizio telefonico) contro i Comune di Cinisello
Balsamo e di Forte dei Marmi, i quali avevano applicato (l’uno per gli
anni 1974, 1975 e 1976, l’altro per gli anni 1980, 1981 e 1982)
entrambi gli aumenti di cui sopra alla tassa per l’occupazione, nel
territorio dei rispettivi Comuni, di sottosuolo con condutture, la
predetta società denunciò che, poiché l’estensione della rete dei
cavi era rimasta invariata, l’aumento della tassa era illegittimo. In
particolare, eccepì che il cumulo delle due maggiorazioni era stato
disposto in base alla norma di cui al trascritto art. 39 e che “la
detta norma non era stata approvata nella stessa versione dai due rami
del Parlamento”, nel senso che il richiamo alle “successive
modificazioni” venne aggiunto, al Senato, in sede di coordinamento,
dopo la votazione finale, sicché risulta approvato dalla sola Camera.
La Corte d’appello di Milano, con ordinanza (r.o. 96/1980) emessa
il 13 novembre 1979, ed il Tribunale di Lucca, con ordinanze (r.o. 201,
202, 203/1983 e 562/1984) emesse il 10 novembre 1982 e l’8 febbraio
1984, dato preliminarmente atto che non era contestato dalle parti che
l’art. 39 fu approvato dal Senato senza l’inciso (“e successive
modificazioni”) e che tale inciso venne introdotto, dopo la votazione
finale, “dalla commissione di coordinamento del Senato”, la quale poi
non rimise più il testo coordinato al plenum, osservano concordemente
che: “i due testi approvati dal Senato e dalla Camera sono tra loro
totalmente difformi”; l’inciso “non costituisce un semplice
coordinamento.., ma una effettiva modifica legislativa”; “la rilevata
difformità comporta una diversa statuizione normativa”. Osservato
altresì (anche se dal solo Tribunale di Lucca) che così “non risulta
rispettata la regola fondamentale del bicameralismo”, i due giudici a
quibus hanno sollevato, in riferimento agli artt. 70 e 72 Cost., la
questione di legittimità costituzionale dell’intero art. 39 della
legge n. 703 del 1952. Ed in quanto alla rilevanza, afferma il
Tribunale di Lucca che essa “appare evidente prima facie”.
L’affermazione è esatta, giacché dalla soluzione della quaestio
legitimitatis dipende se la tassa in parola dev’essere pagata dai
concessionari ai Comuni nelle misure massime a metro lineare, di lire
20 ovvero di lire 80, e di lire 40 ovvero di lire 160, secondo che
condutture, cavi ed impianti abbiano un diametro, rispettivamente,
inferiore o superiore a centimetri 20.
3. – Trattandosi di questioni identiche, i relativi giudizi possono
essere riuniti e decisi con unica sentenza.
Con la sentenza n. 9 del 1959, questa Corte ha affrontato per la
prima volta, in tema di procedimento legislativo, la problematica cui
dà vita la constatazione della difformità fra il testo approvato da
una Camera e quello approvato dall’altra Camera. Con tale pronuncia,
dopo avere riconosciuto la propria competenza in via generale “a
controllare la legittimità costituzionale di una legge per quanto
concerne il procedimento della sua formazione “e, quindi, che
l’attestazione contenuta nel messaggio che accompagna la trasmissione
di un testo di legge da un ramo all’altro del Parlamento non preclude
il sindacato del giudice delle leggi sugli atti anteriori, essa statuì
in particolare che: a) la prassi del coordinamento, autorizzato dalla
Camera (o da una commissione in sede legislativa) ed operato dalla
Presidenza, “in quanto risponde ad esigenze del funzionamento di organi
collegiali, non può ritenersi senz’altro contraria alla Costituzione”,
se poi il testo del disegno di legge, una volta coordinato, “non è
ripresentato alla Camera (o alla commissione competente) per una nuova
votazione finale”; b) tuttavia, “il testo coordinato, in tanto può non
essere sottoposto ad una nuova votazione finale, in quanto abbia una
formulazione che non alteri la sostanza del testo che aveva formato
oggetto della votazione finale”; c) l’accertamento se la formulazione
del testo coordinato “si è mantenuta (nei limiti nei quali il
coordinamento è stato autorizzato), in modo che esso esprima
l’effettiva volontà della Camera e sia idoneo a concorrere con una
identica volontà dell’altra Camera a produrre la legge” va compiuto
dalla Corte “caso per caso”, ed all’uopo “è rilevante il raffronto fra
il testo votato… con riserva del coordinamento ed il testo coordinato
e poi promulgato”; d) “in conclusione”, se non risultano “modificazioni
di sostanza”, “l’eccezione di legittimità costituzionale… per
assunta difformità dei testi votati…”, può dichiararsi non fondata.
Successivamente alla ricordata pronuncia, la competenza di questa
Corte a sindacare il processo formativo delle leggi non è stata più
giudizialmente posta in discussione, sicché può dirsi costituire
ormai uno dei principi del nostro ordinamento costituzionale, e le
statuizioni di cui sopra sono state poi ribadite ed applicate in altre
due sentenze – pronunciate peraltro, la prima delle due su difformità
tra testo approvato e testo promulgato, ed entrambe su difformità
conseguente ad errore materiale verificatosi nella trascrizione -,
sicché possono dirsi costituire ormai giurisprudenza costante di
questa Corte. Tali due sentenze, infatti, hanno precisato, l’una a
riguardo della facoltà di coordinamento (sentenza n. 134 del 1969),
che “nella nozione più restrittiva che si voglia darne” non rientra
soltanto “la correzione di errori materiali”, ma “anche la eventuale
correzione lessicale dei testi per conformarne la dizione alla
sostanza”, e l’altra a riguardo dell’accertamento “caso per caso”
(sentenza n. 152 del 1982), che “non si può ragionare astrattamente e
meccanicamente dei vizi formali di legittimità costituzionale delle
leggi”, dovendosi, invece, non solo “tener conto della effettiva
volontà delle Camere”, ma anche “valutare il rilievo che l’errore
potrebbe assumere nelle sedi interpretativa ed applicativa” della
disposizione impugnata. Ma particolare risalto merita quest’ultima
sentenza (n. 152 del 1982), per la statuizione del tutto nuova, che
essa enuncia e che si aggiunge a quelle più sopra riportate,
integrando la visione di questa Corte in tema di coordinamento delle
leggi. In ordine al dilemma, infatti, se il vizio dell’iter
procedimentale produca effetti limitati alla sola disposizione – o
parte – viziata ovvero travolga l’intero atto, essa ha statuito che: e)
“deve farsi… applicazione del principio generale di conservazione
degli atti” e che perciò il “vizio formale… non comporta – per sé
considerato – l’annullamento integrale della legge.., ma può solo
incidere, in ipotesi, sulla parte specificamente viziata”.
4. – Ritiene questa Corte che non vi sono motivi, i quali
sospingano a variare il rievocato indirizzo giurisprudenziale o anche
solo a discostarsene. È pertanto sulla base del principio generale
della sindacabilità, in questa sede, delle leggi anche per vizi dei
loro procedimenti di formazione, ed è alla luce delle statuizioni di
cui sopra, che va esaminata e risolta la questione di legittimità
costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Milano e dal
Tribunale di Lucca.
In vista, allora, dell’applicazione alla fattispecie in oggetto
delle surriportate statuizioni, giova precisare che la difformità,
verificatasi alla Camera, fra il testo approvato da questa ed il testo
approvato dal Senato, è la conseguenza della difformità, verificatasi
anteriormente al Senato, fra il testo approvato da questo ed il testo
coordinato. Si pone, quindi, un triplice interrogativo: se, avendo il
testo coordinato ottenuto la approvazione della sola Camera, possa
dirsi che vi è stato l’incontro delle volontà di entrambi i rami del
Parlamento; se il coordinamento ha comportato, o meno, una modifica
sostanziale della legge; nell’ipotesi affermativa, se esso ha viziato
l’intero atto ovvero soltanto l’intera proposizione normativa ovvero
ancora la sola parte coordinata. Il primo interrogativo chiama in
causa l’art. 70 Cost., il quale dichiara che la funzione legislativa è
esercitata “collettivamente dalle due Camere”; gli altri due chiamano
in causa l’art. 72 Cost., il quale detta, sì, la disciplina del
procedimento legislativo, ma ne demanda l’integrazione all’autonomia
normativa di ciascuna Camera.
Ora, l’istituto del coordinamento è ignoto alla Costituzione, ma
non anche ai regolamenti parlamentari. Il regolamento del Senato che
era in vigore nel 1952, cioè al momento dell’approvazione della legge
de qua, prevedeva all’art. 74, benché non nominatim, il coordinamento,
stabilendo, sotto il profilo contenutistico, che esso doveva intendersi
consistere, non solo “nelle correzioni di forma che siano opportune”,
ma anche nelle “necessarie modificazioni” “di quegli emendamenti già
approvati che sembrino inconciliabili con lo scopo della legge o con
alcune delle sue disposizioni” e, sotto il profilo procedurale, che
doveva essere deliberato dal Senato “prima della votazione finale”.
L’istituto è rimasto sostanzialmente immutato nel regolamento
approvato il 17 febbraio 1971, ed oggi in vigore, il quale, al
contrario di quello anteriore, parla espressamente di “coordinamento”,
là dove facoltizza le “modificazioni di coordinamento che appaiono
opportune “(art. 103.1), prevedendo altresì il conferimento
dell’incarico alla “commissione di presentare le opportune proposte”
(art. 103.2), “eventualmente accompagnate da una relazione” (art.
103.3), sulle quali “può intervenire non più di un oratore per
ciascun gruppo parlamentare e la votazione ha luogo per alzata di mano”
(art. 103.4). Insomma, è di tutta evidenza che in ogni caso – si
abbia riguardo alla nuova o alla cessata disciplina regolamentare – il
coordinamento è in linea di principio legittimo, se avviene “prima
della votazione finale”.
5. – Il coordinamento in esame è stato, viceversa, operato dopo la
votazione finale, e perciò stride con la fattispecie astratta
disegnata dall’art. 74 del cessato regolamento del Senato. In
coerenza, tuttavia, con il costante indirizzo giurisprudenziale di
questa Corte, non può dirsi che la modifica apportata in sede di
coordinamento all’art. 39, primo comma, della legge n. 703 del 1952
mediante il denunciato inserto sia di per sé costituzionalmente
viziata e viziante. Ed invero, l’introduzione nell’impugnato articolo
dell’inciso, su cui il Senato non fu poi chiamato a pronunciarsi, se
per un verso è innegabilmente avvenuta in difformità della norma
regolamentare, per altro verso risulta operata in conformità di una
prassi tutt’altro che recente, la quale trova osservanza anche
nell’altro ramo del Parlamento. In ordine a tale prassi, questa Corte,
come si è già ricordato, ha statuito (sentenza n. 9 del 1959) – ed in
considerazione, non già della sua annosità, ma della necessità, in
taluni casi e circostanze, del ricorso ad essa al fine di assicurare la
funzionalità di organi collegiali particolarmente numerosi – non
potersi ritenere “senz’altro contraria alla Costituzione”.
Non può non dirsi lo stesso per quanto concerne la modifica
subita, ad opera dell’inciso in argomento, dalla disposizione
sospettata di illegittimità costituzionale: la ricordata statuizione,
infatti, vale a maggior ragione nel caso di specie, in cui il
coordinamento risulta operato, non già dalla Presidenza, come nelle
fattispecie di cui alle pronunce n. 9 del 1959 e n. 134 del 1969,
bensì dalla commissione competente.
6. – Si deve ora sottolineare che questa Corte non ha inteso, con
le sentenze più volte richiamate, riconoscere in linea di principio, e
perciò in ogni caso, la legittimità della suddetta prassi del
coordinamento, bensì ha inteso escluderne la illegittimità in quei
soli casi, in cui la formulazione modificata “non alteri la sostanza
del testo che aveva formato oggetto della votazione finale” (sentenza
n. 9 del 1959). Con questa ultima precisazione, il problema diviene
palesemente ermeneutico: in tanto sarà possibile, infatti, valutare se
la modifica costituita dall’inserto abbia alterato la sostanza del
testo, quale risulta approvato nella votazione finale dal plenum del
Senato, in quanto si conosca previamente l’effettiva volontà espressa
da questo, sia col voto sull’articolo, sia poi con la votazione finale.
Ed a tale scopo, si richiede appunto un’indagine volta a cogliere
l’esatta interpretazione dell’impugnato art. 39 nella versione
approvata dal Senato (cioè, senza l’inciso) e, più precisamente, a
stabilire se il Senato, disponendo l’aumento di 40 volte, volle
riferirsi alle tariffe originarie del 1931 ovvero a quelle
quadruplicate del 1945.
È questo il nodo che va preliminarmente sciolto; il nodo, cioè,
formatosi nell’ambito del Senato, come del resto si è già precisato
più sopra, allorché si è posto in rilievo che la difformità fra i
testi approvati dalle due Camere è la conseguenza della difformità,
verificatasi in Senato, fra il testo anteriormente approvato e quello
successivamente coordinato.
7. – Non mancano elementi, i quali lascerebbero pensare che
intenzione del Senato, pur in mancanza dell’inciso poi introdotto in
sede di coordinamento era quella di aggiungere un ulteriore aumento
alla quadruplicazione disposta nel 1945.
Quando, infatti, la legge de qua veniva approvata, dopo una
laboriosa gestazione triennale, era in vigore la tariffa del 1945, non
più quella del 1931; e ciò, proprio per effetto del menzionato
decreto legislativo luogotenenziale n. 62 del 1945, il cui art. 32
dispone testualmente che la misura della tassa in parola, quale
stabilita nel 1931 dall’art. 198 t.u.f.l, è “modificata”, e
precisamente quadruplicata. Poiché questa era la situazione normativa
del momento, non sembra che l’opinione secondo cui il Senato avrebbe
avuto in mente, non già la tariffa in vigore, ma la tariffa abrogata,
meriti maggior credito di quella inversa. Oltre tutto, se con
l’ipotizzata opinione i giudici a quibus intendessero sostenere che il
denunciato art. 39 della legge n. 703 del 1952 avrebbe implicitamente
abrogato l’art. 32 del d.l.l. n. 62 del 1945 ed implicitamente ridato
vigore all’art. 198 t.u.f.l, si porrebbe il problema, di non agevole
soluzione, se possa ritenersi che l’abrogazione tacita di una norma
successiva abbia di per sé, indipendentemente da un’apposita legge
ripristinatoria, la virtù di far rivivere la norma anteriore
espressamente abrogata – o “modificata” -, quale è appunto, nella
specie, quella che nel 1931 stabiliva la tariffa della tassa in
contestazione.
Ed il dubbio sull’opinabilità di tale tesi apparirebbe trovare
riscontro nel diritto positivo a chi osservasse che proprio la legge in
parola ubi voluit dixit: l’art. 31, primo comma, infatti, dopo avere
espressamente disposto che “a decorrere dal 1 gennaio 1952, l’art. 29
del d.l.l. 8 marzo 1945, n. 62 è abrogato”, soggiunge altrettanto
espressamente, offrendo così un chiaro esempio di legge
ripristinatoria, che “i Comuni, pertanto, debbono applicare l’imposta
di patente secondo le norme dell’art. 166 t.u.f.l., e la misura ivi
prevista può essere aumentata fino a quaranta volte”.
Né può dirsi che sia priva di alcun rilievo la constatazione che
è dato fare nella relazione di maggioranza e, prima ancora, in quella
governativa accompagnante il disegno di legge, ove risulta scritto che,
stante il “disavanzo talvolta pauroso” dei bilanci comunali ed in vista
del loro risanamento, quegli “adeguamenti fiscali” venivano disposti
“allo scopo di avvicinare i singoli tributi ad un livello non dissimile
da quello prebellico”. Questa risultando la ratio legis, non sarebbe
corretto prescindere da essa, allorché si tratti di valutare se
intenzione del legislatore sia stata quella di assumere come base la
tariffa minima, stabilita oltre vent’anni prima, in tempo di pace e di
stabilità economica, anziché quella aumentata da poco più di cinque
anni, pressoché al termine della guerra (marzo 1945), e perciò in
tempo di lievitazione delle spese.
Inoltre: il Senato approvò all’unanimità, nella votazione finale,
il testo della legge de qua, ed il coordinamento venne operato, come
già si è posto in rilievo, non dalla Presidenza, bensì dalla stessa
commissione (Finanze e Tesoro), la quale, stante la sua competenza in
materia, aveva esaminato e dibattuto in sede referente il disegno di
legge. Ed allora, benché non esistano verbali dei lavori della
commissione in sede di coordinamento, appare tutt’altro che
inattendibile la congettura che l’inciso di che trattasi sia stato
inserito nel corpo dell’impugnato art. 39 nel convincimento che esso –
cioè l’esplicito richiamo alle “successive modificazioni” – rendesse
pienamente chiara la volontà che il Senato aveva inteso effettivamente
esprimere. Tanto più che la commissione procedette al coordinamento
subito dopo la votazione finale, esaurendolo entro una diecina di
giorni – dal 23 novembre 1952, data della suddetta votazione finale, al
5 dicembre successivo, data del messaggio di trasmissione all’altra
Camera -, quando era più sicura e viva la memoria del dibattito e del
vero orientamento dell’assemblea.
8. – Le considerazioni testé esposte sembrano avvalorare
l’interpretazione secondo cui il Senato, pur approvando l’impugnato
art. 39 senza l’inciso, avrebbe inteso riferirsi alla tariffa come
modificata dall’art. 32 del d.l.l. n. 62 del 1945 – a quella
quadruplicata, insomma, ed allora in vigore -, non già a quella del
1931, che da ben sette anni era stata esplicitamente “modificata”,
cioè abrogata, dallo stesso art. 32 del menzionato provvedimento
legislativo.
Se si accogliesse questa ricostruzione del pensiero del Senato,
allora l’aggiunta dell’inciso (“e successive modificazioni”) potrebbe
ritenersi, come afferma l’Avvocatura dello Stato, “meramente
esplicativa del significato che scaturiva dal testo iniziale”.
Conseguentemente, svanirebbe ogni dubbio sulla legittimità
costituzionale del denunciato art. 39: il coordinamento operato secondo
prassi non sarebbe censurabile, e le due Camere avrebbero espresso la
medesima volontà sul punto controverso.
9. – La disposizione in esame consente tuttavia di pervenire a
conclusioni del tutto opposte.
La difesa della SIP sostiene nella sua elaborata memoria: che dalla
relazione della commissione della Camera “risulta… senz’altro
pacifico e acquisito che l’aumento si riferisce esclusivamente alle
tariffe fissate dal t.u. del 1931”, cioè “proprio alle misure
originarie”; che il “riferimento fisso e non mobile” alle tariffe
originarie “implica in via generale… l’abrogazione tacita delle
disposizioni in materia introdotte successivamente”, sicché
“l’abrogazione espressa è stata superflua”; che “la semplice
interpretazione dell’art. 39 rivela come esso o dica più di quanto si
sia voluto, o viceversa… gli si faccia dire più di quanto
effettivamente dice”. E nella discussione orale la stessa difesa della
SIP ha dedotto che, poiché il decreto ministeriale 26 febbraio 1933,
richiamato nell’art. 39 in discorso, si riferisce esclusivamente al
soprassuolo, ne deriverebbe la conseguenza – inaccettabile, e perciò
stesso confermativa della giustezza della sua interpretazione – che
l’aumento di 40 volte si applicherebbe esclusivamente all’occupazione
del sottosuolo, mentre rimarrebbe invariata la tariffa per
l’occupazione del soprassuolo.
Dello stesso avviso sono, soprattutto, i giudici che hanno
sollevato la questione in oggetto. Secondo la Corte d’appello di
Milano – ma eguale ragionamento, e pressoché con le medesime parole,
si rinviene nelle ordinanze del Tribunale di Lucca – si evincerebbe dal
“complessivo sistema” cosa “il legislatore intese”. Infatti, prosegue
la suddetta Corte e riecheggia il suddetto Tribunale, “la dizione
approvata dal Senato con esclusivo riferimento alle tariffe originarie
non lascia dubbi sulla intenzione del legislatore e di voler cioè fare
riferimento proprio a quelle tariffe”, aggiungendo che “in tal senso è
poi ancora la relazione della IV commissione permanente della Camera
dei Deputati che prevedeva un preventivo di maggiori entrate… per
1.250 milioni”, anziché per “5.000 milioni preventivabili in base alle
tariffe come applicate dal convenuto”.
10. – Le argomentazioni che precedono indurrebbero a concludere nel
senso che il Senato, approvando l’impugnato art. 39 senza l’inciso,
avrebbe inteso riferirsi alla tariffa quale stabilita originariamente
dall’art. 198 del t.u.f.l. del 1931. E se questa diversa ricostruzione
del pensiero del Senato fosse esatta, dovrebbe allora ritenersi che
l’aggiunta, operata dalla commissione in sede di coordinamento,
dell’inciso (“e successive modificazioni”) abbia alterato la sostanza
della disposizione, quale era stata approvata dall’assemblea.
Conseguentemente acquisterebbe consistenza il dubbio sulla legittimità
costituzionale del denunciato art. 39: il coordinamento avvenuto
secondo prassi sarebbe illegittimo e dovrebbe registrarsi la mancanza
della comune volontà legislativa sul punto controverso.
11. – La disposizione in esame si presta, dunque, ad
interpretazioni diverse e contrastanti. La difesa del Comune di
Cinisello Balsamo e, come già ricordato, l’Avvocatura dello Stato
sostengono che il riferimento sia stato fatto alle tariffe
quadruplicate del 1945; per l’una, questo è il solo significato
dell’art. 39, “con o senza l’inciso”, per l’altra, l’aggiunta
dell’inciso è “meramente esplicativa”. Al contrario, la difesa della
SIP ed i giudici a quibus ritengono che il riferimento sia stato fatto
alle tariffe originarie del 1931. Tuttavia, mentre per l’una
l’aggiunta dell’inciso “può intendersi soltanto come clausola di
stile”, in quanto con essa “la commissione di coordinamento prima e la
Camera poi plus dixit quam voluit”, sicché l’art. 39 “non ha subito
alcuna modificazione sostanziale”, pertanto “è da ritenere che la
questione di costituzionalità… è infondata”, per i giudici a
quibus, viceversa, il contestato inciso “non costituisce un semplice
coordinamento degli articoli approvati.., ma integra una effettiva
modifica legislativa”, cioè “comporta una diversa statuizione
normativa”, sicché “l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 39…
non è manifestamente infondata”.
Il dissidio fra le due letture dell’art. 39 è evidente e
stridente, ma spetta ai giudici delle liti di comporlo. Compito di
questa Corte, che non dispone di elementi tali, da indurla a
disattendere la prospettazione offerta dalle ordinanze in esame, è
quello di stabilire se il coordinamento de quo sia, o meno,
costituzionalmente legittimo. E poiché, la legittimità
costituzionale di un testo legislativo coordinato, non già secondo il
regolamento, bensì secondo la prassi parlamentare, è condizionato
alla portata del coordinamento non può non riconoscersi che un
siffatto coordinamento viola la Costituzione, e precisamente negli
artt. 70 e 72, tutte le volte che provochi, nelle sedi interpretative
ed applicative, grave incertezza sul significato del testo coordinato.
Con riguardo al caso di specie, deve pertanto dirsi che il contestato
inciso è costituzionalmente illegittimo per un duplice e concorrente
motivo: non solo e non tanto, infatti, perché è stato inserito
nell’art. 39 della legge n. 703 del 1952 mediante il coordinamento
instauratosi per prassi che potrebbe così configurarsi addirittura
come un emendamento aggiuntivo surrettizio, ma anche e soprattutto
perché ha generato l’incertezza di cui si è detto sull’intenzione del
legislatore.
12. – Dalla conclusione testé enunciata non deriva, tuttavia,
doversi disconoscere che si sia verificata convergenza delle volontà
dei due rami del Parlamento.
Intanto, già l’antico principio, secondo cui utile per inutile non
vitiatur, impone di considerare che il vizio si annida in uno solo dei
60 articoli di cui si compone la legge de qua – anzi, soltanto nel
primo dei due commi, di cui si compone il denunciato art. 39 – e che la
specificità dell’oggetto disciplinato in tale comma conferisce alla
relativa disposizione piena autonomia rispetto all’intero testo, che,
infatti, neppure le ordinanze in esame coinvolgono nella denuncia di
illegittimità costituzionale. E va rilevato altresì che la censura,
benché nei dispositivi delle ordinanze appaia impugnato tutto l’art.
39, investe esclusivamente il primo comma, nel quale appunto risulta
illegittimamente inserito il contestato inciso. Ne consegue che, non
riverberandosi il vizio sull’intera legge, e neppure sull’intero art.
39, il cui secondo ed ultimo comma non concerne più la misura della
tassa, ma le convenzioni stipulate dai Comuni per il pagamento di essa,
questa Corte deve pronunciarsi sulla sola disposizione di cui al primo
comma dell’art. 39, la sola passibile di una sentenza caducatoria.
Ma, pur circoscritta la questione nei suddetti termini, si impone
ugualmente di valutare, in relazione al principio della salvezza dei
valori giuridici, se la pronuncia caducatoria debba travolgere l’intera
disposizione ovvero possa limitarsi a colpire soltanto la parte
viziata. Risulterebbe noncurante del suddetto principio e non
argomentata la scelta che venisse fatta tra le due alternative in base
alla semplicistica constatazione della non piena coincidenza tra le due
formulazioni – senza l’inciso e con l’inciso – approvate dalle due
Camere, deducendone che, quindi, sarebbe mancata la comune volontà
legislativa sulla disposizione impugnata. Al contrario, come a
riguardo di qualsiasi atto, si deve tentare in caso di dubbio di
interpretarlo nel senso che produca qualche effetto, anziché nel senso
che non ne produca alcuno, così a riguardo della disposizione de qua,
una volta epurata dell’inciso, si tratta di vedere se in essa non sia
individuabile un punto di convergenza tra la volontà della Camera e la
volontà del Senato. E piena convergenza si verificò innegabilmente
sullo scopo, che era quello di maggiorare la tassa di occupazione del
sottosuolo. Supposto pure, poi, che il Senato, approvando la
disposizione senza l’inciso, intendesse riferirsi alla tariffa
originaria stabilita nel 1931, e che la Camera, invece, approvando la
disposizione con l’inciso, intendesse riferirsi alla tariffa modificata
nel 1945, può bene affermarsi che tra le due Camere e le due volontà
si verificò convergenza sino all’aumento minore, sicché l’area della
divergenza si riduce all’aumento maggiore.
In applicazione, pertanto, del ricordato principio della
conservazione dei valori giuridici, la dichiarazione di illegittimità
costituzionale può essere limitata al solo inserto (“e successive
modificazioni”), facendo così salva, dopo l’eliminazione della parte
viziata, la disposizione di cui all’art. 39, primo comma, legge n. 703
del 1952, la cui operatività compete ai giudici del merito di
stabilire.
13. – Questa Corte, nel momento in cui, nell’esercizio del suo
ruolo di garante della Costituzione, dichiara l’illegittimità
costituzionale di una disposizione di legge per vizio procedurale, non
può non segnalare l’indifferibilità di un intervento del legislatore
nella materia della finanza locale. Questa è ancor oggi governata da
una normazione che si caratterizza, oltre che per la vetustà della
disciplina di fondo – il t.u.f.l. ha ormai superato il mezzo secolo di
vita -, anche per la incessante successione di provvedimenti
legislativi, peraltro occasionali e volti per lo più a disporre
maggiorazioni dei tributi. Non era ancora cessata la guerra, allorché
venne emanato il d.l.l. n. 62 del 1945 cui fecero seguito due
provvedimenti nel 1946 (18 febbraio, n. 100 e 27 maggio n. 517), uno
nel 1947 (29 marzo, n. 177), uno nel 1948 (26 marzo, n. 261), uno nel
1950 (30 luglio, n. 575), uno nel 1952 (la impugnata legge n. 703).
Più di recente, poi, risultano adottati una serie di decreti legge,
tra cui: uno nel 1980 (7 maggio, n. 153, convertito nella legge n.
299), due nel 1981 (28 febbraio, n. 38, convertito nella legge n. 153 e
22 dicembre, n. 786, convertito nella legge 26 febbraio 1982, n. 51),
uno nel 1983 (28 febbraio, n. 55, convertito nella legge n. 131).
Già solo a riguardo degli aumenti man mano disposti possono
nascere, come nel caso di specie, dubbi interpretativi, che nei
rapporti tra fisco e contribuenti nuocciono alla loro certezza e
speditezza, risolvendosi altresi in aggravio per la già gravosa
attività dei giudici di qualsiasi livello. E ciò, in conseguenza
anche solo del generico richiamo ad imprecisate “successive
modificazioni”.
Il ricorso a cosiffatto rinvio è senza dubbio tanto consolidato e
frequente, da sembrare che costituisca ormai un metodo di
legiferazione, ma non per questo è incensurabile, quando ne derivi
ambiguità. In caso contrario, si legittimerebbe persino la
degenerazione della genericità dell’abituale formula in evasività,
come potrebbe dirsi accadere proprio nella legge n. 703 del 1952 (art.
7), ove il rinvio risulta fatto addirittura “ad analoghe eventuali
successive modificazioni”. E basterà aggiungere al riguardo che a
problemi di compatibilità con la normazione anteriore potrebbero dar
luogo anche i provvedimenti adottati dal 1980 al 1983, i quali – pur se
nei rispettivi titoli parlino di “norme per l’attività finanziaria
degli enti locali”, di “provvedimenti finanziari per gli enti locali”,
di “disposizioni in materia di finanza locale”, di “provvedimenti
urgenti per le finanze locali” -, in realtà si limitano per lo più a
prescrivere aumenti di tariffe, richiamando peraltro pur sempre
indeterminate “successive modificazioni ed integrazioni”. Ma vale
rilevare altresì che in materia oggi coperta da riserva di legge è
riscontrabile anche – così infatti testualmente nell’art. 39, primo
comma, legge n. 703 del 1952 – il rinvio a “norme provvisorie
aggiunte”, che, benché disposte con decreto ministeriale, potrebbero,
una volta fatte espressamente proprie da una legge, dar luogo a
perplessità sulla loro collocazione nella scala dei valori normativi.
Non occorrono altri rilievi o altre esemplificazioni a sostegno
dell’asserzione di indifferibilità di un intervento del legislatore
nella materia della finanza locale, perché provveda ad una revisione
globale e sistematica – la quale tenga conto della novità e
complessità delle articolazioni territoriali nel novus ordo
repubblicano e delle loro posizioni – o, quanto meno, perché dissolva
mediante interpretazioni autentiche quei dubbi che nascono dai
disorganici aggiustamenti apportati al testo unico del 1931 nel corso
del successivo cinquantennio.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 39, primo comma,
della legge 2 luglio 1952, n. 703 (“disposizioni in materia di finanza
locale”), limitatamente alle parole ” e successive modificazioni”.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1984.
F.to: LEOPOLDO ELIA – GUGLIELMO
ROEHRSSEN – BRUNETTO BUCCIARELLI
DUCCI – ALBERTO MALAGUGINI – LIVIO
PALADIN – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI – GIUSEPPE FERRARI
– FRANCESCO SAJA – GIOVANNI CONSO –
ETTORE GALLO – ALDO CORASANITI –
GIUSEPPE BORZELLINO.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere