Sentenza N. 295 del 2002
Corte Costituzionale
Data generale
28/06/2002
Data deposito/pubblicazione
28/06/2002
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/06/2002
Presidente: Massimo VARI;
Giudici: Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA,
Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE;
penale promosso con ordinanza emessa il 22 febbraio 2001 dal giudice
per le indagini preliminari del Tribunale di Genova nel procedimento
penale a carico di B.G. ed altri, iscritta al n. 614 del registro
ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, 1ª serie speciale, n. 34 dell’anno 2001.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2002 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
processo penale nei confronti di persone imputate del reato di cui
all’art. 262 del codice penale (rivelazione di notizie di cui sia
stata vietata la divulgazione) per avere, rispettivamente, consegnato
a persona non legittimata e ottenuto documenti contenenti notizie a
carattere “riservato”, relative alla costruzione di un carcere di
massima sicurezza – il giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Genova ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale del citato art. 262 del codice penale, per contrasto
con gli artt. 3 e 25 della Costituzione.
L’ordinanza di rimessione – pronunciata nell’udienza preliminare
– rileva, in via preliminare, come, contrariamente a quanto sostenuto
da una parte della dottrina, la norma impugnata non possa
considerarsi implicitamente abrogata dalla legge 27 ottobre 1977,
n. 801, la quale ha definito bensì il concetto di segreto di Stato,
ma senza nulla disporre in ordine alla materia delle “notizie
riservate”, che pure formano oggetto di tutela nell’ambito dei
delitti contro la personalità dello Stato. Le due nozioni
risulterebbero, d’altro canto, tra loro distinte, dovendo il segreto
essere inteso come notizia che non può essere divulgata in ragione
dei superiori interessi dello Stato, e la notizia riservata, invece,
come un quid minus, ossia come informazione che può essere divulgata
solo a certe condizioni e a determinate categorie di persone per
ragioni di “alta amministrazione”.
La disposizione denunciata – qualificabile come norma penale in
bianco – violerebbe peraltro il principio di tassatività della legge
penale, sancito dall’art. 25 Cost., in quanto non delineerebbe i
tratti salienti della fattispecie punibile, lasciandone la
determinazione all’autorità amministrativa.
Al riguardo, il giudice a quo ricorda come questa Corte abbia in
più occasioni affermato che il principio di legalità non è violato
quando sia una legge dello Stato ad indicare con sufficiente
specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto ed i limiti
dei provvedimenti emessi dall’autorità non legislativa, alla cui
trasgressione deve seguire la pena; mentre spetta poi al giudice
penale indagare, volta per volta, se il provvedimento sia stato
legittimamente emesso.
Tale condizione non risulterebbe tuttavia soddisfatta nella
specie, giacché l’individuazione concreta delle notizie che non
possono essere divulgate, agli effetti dell’art. 262 cod. pen.,
verrebbe affidata ad atti amministrativi emessi in virtù di poteri
non direttamente conferiti dalla legge e senza alcuna precisazione in
ordine al concetto di notizia riservata, i cui limiti resterebbero
pertanto – a differenza di quanto avviene per il segreto di Stato, in
virtù della citata legge n. 801 del 1977 – “assai incerti e labili”.
La circostanza che l’art. 262 cod. pen non indichi i motivi per i
quali la divulgazione delle notizie può essere vietata, rimettendoli
così anch’essi in toto all’apprezzamento dell’autorità
amministrativa, impedirebbe d’altro canto al giudice di valutare se
il divieto di divulgazione sia stato legittimamente imposto.
Sotto diverso profilo, poi, la norma impugnata, nel comminare una
pena identica nel massimo a quella stabilita dall’art. 261 cod.
pen. per il reato di rivelazione di segreti di Stato (ventiquattro
anni di reclusione) – essendo il trattamento sanzionatorio delle due
fattispecie differenziato solo in rapporto al minimo – si porrebbe in
contrasto con l’art. 3 Cost. L’equiparazione della pena massima
risulterebbe difatti priva di giustificazione, stante la diversità
dei beni protetti dalle due norme incriminatrici: infatti l’art. 261
cod. pen. tutelerebbe – alla luce della definizione del segreto di
Stato data dall’art. 12 della legge n. 801 del 1977 – l’unità fisica
dello Stato rispetto ad attacchi esterni od interni, ed il continuo e
corretto funzionamento degli organi costituzionali; mentre l’art. 262
cod. pen. sarebbe posto a salvaguardia di interessi non individuabili
a priori, ma comunque privi di rango costituzionale e di minore
valore.
La disposizione denunciata violerebbe, da ultimo, il principio di
legalità della pena, stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost.,
in ragione dell’eccessivo divario tra la pena edittale minima da essa
comminata (anni tre di reclusione, riducibili a due nel caso di
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, o a pena
ancora inferiore ove si proceda con riti alternativi) e quella
massima (anni ventiquattro di reclusione, quale limite desumibile, in
difetto di specifica indicazione, dall’art. 23 cod. pen.).
Richiamando la sentenza di questa Corte n. 299 del 1992, il
rimettente rileva come il principio di legalità della pena non
imponga al legislatore di determinare in misura rigida e fissa la
pena per ciascun tipo di reato, poiché lo strumento più idoneo al
conseguimento delle finalità della pena e più congruo rispetto al
principio di uguaglianza è quello del conferimento al giudice del
potere discrezionale di stabilire in concreto, fra un minimo e un
massimo, la sanzione da irrogare, al fine di adeguare quest’ultima
alle specifiche caratteristiche del singolo caso. Tuttavia, la
determinazione legislativa del minimo e del massimo edittale non deve
eccedere il margine di elasticità necessario a consentire
l’individualizzazione della pena, secondo i criteri di cui
all’art. 133 cod. pen., in correlazione alla variabilità delle
fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla
fattispecie astratta: altrimenti, la predeterminazione della misura
della pena diverrebbe solo apparente e il potere conferito al giudice
si trasformerebbe da discrezionale in arbitrario, investendo non più
soltanto la valutazione delle particolarità del caso singolo, ma la
stessa individuazione del disvalore del fatto tipico (compito che
spetta invece al legislatore).
Tale ultima situazione ricorrerebbe puntualmente nell’ipotesi
dell’art. 262 cod. pen., in quanto – pur tenendo conto delle
circostanze aggravanti speciali da esso previste, che comportano in
determinati casi un aumento della pena minima – l’eccessiva ampiezza
della forbice tra il minimo ed il massimo edittale finirebbe, in
pratica, per rimettere al giudice anche la valutazione del disvalore
oggettivo del fatto, tanto più a fronte della rimarcata incertezza
sulla componente precettiva della norma incriminatrice.
2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la
questione sia dichiarata non fondata.
Ad avviso dell’Avvocatura erariale, non sarebbe riscontrabile
alcuna violazione del principio di tassatività: la norma
incriminatrice reprimerebbe, infatti, una condotta i cui contorni
risultano sufficientemente definiti, non potendosi trarre argomento,
in contrario, dalla circostanza che sia la pubblica autorità a
stabilire quali notizie debbano considerarsi riservate. La lamentata
impossibilità di controllo e di eventuale disapplicazione dell’atto
amministrativo, d’altro canto, lungi dal costituire un vulnus del
principio di tassatività, discenderebbe proprio dalla previsione
della norma incriminatrice, la quale, a differenza che in altre
ipotesi, non richiederebbe, fra gli elementi del fatto tipico, un
atto legittimo.
Quanto, poi, alla presunta violazione dell’art. 25, secondo
comma, Cost., il divario fra il massimo e il minimo della pena
edittale previsto per il delitto in questione, ancorché
significativo, non comporterebbe comunque l’incostituzionalità della
norma impugnata, spettando pur sempre al legislatore di graduare la
pena in modo che il giudice di merito possa adeguarla al caso
concreto, così da renderla funzionale al perseguimento dei suoi
scopi.
Analoghe conclusioni potrebbero formularsi ove si effettui una
comparazione con la pena prevista dall’art. 261 cod. pen., che
risulterebbe adeguatamente elevata nel minimo, in conseguenza del
ritenuto maggior disvalore insito nell’aggressione ad un bene
meritevole di particolare considerazione, quale il segreto di Stato.
Genova dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli
artt. 3 e 25 della Costituzione, dell’art. 262 del codice penale,
che, con disposizione collocata nell’ambito dei delitti contro la
personalità dello Stato, punisce chiunque rivela od ottiene “notizie
delle quali l’Autorità competente ha vietato la divulgazione” (c.d.
notizie riservate).
Ad avviso del rimettente, risulterebbe leso anzitutto il
principio di tassatività della legge penale, sancito dall’art. 25
Cost., essendosi al cospetto di una norma penale in bianco rispetto
alla quale mancherebbe una sufficiente specificazione legislativa dei
presupposti, dei caratteri, del contenuto e dei limiti dei
provvedimenti amministrativi alla cui trasgressione deve seguire la
pena: carenza, questa, che – segnatamente a fronte del silenzio della
legge circa i fini per i quali il divieto di divulgazione di
determinate notizie può essere imposto – precluderebbe anche il
sindacato incidentale di legittimità del giudice ordinario sul
provvedimento, in vista della sua eventuale disapplicazione.
La norma incriminatrice impugnata – comminando una pena uguale,
nel massimo, a quella prevista dall’art. 261 cod. pen. per il delitto
di rivelazione di segreti di Stato (anni ventiquattro di reclusione)
– si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 3 Cost. Si
tratterebbe, infatti, di equiparazione irragionevole, stante la
diversità dei beni protetti dalle due disposizioni: beni che, nel
caso dell’art. 261 cod. pen., si identificherebbero – alla luce della
definizione del segreto di Stato offerta dall’art. 12 della legge
24 ottobre 1977, n. 801 – nell’unità fisica dello Stato rispetto ad
attacchi interni o esterni, e nel continuo e corretto funzionamento
degli organi costituzionali; e nell’ipotesi dell’art. 262 cod. pen.,
invece, in interessi non individuabili a priori, ma comunque privi di
rango costituzionale.
Sarebbe violato, infine, il principio di legalità della pena,
enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. L’eccessivo divario tra
la pena edittale minima e massima comminata per il delitto in
questione – rispettivamente tre anni di reclusione (che potrebbero
scendere a due, in caso di concessione delle attenuanti generiche, e
a pena ancora inferiore nell’ipotesi del ricorso a riti alternativi)
e ventiquattro anni di reclusione (quale limite desumibile, in
difetto di specifica indicazione, dall’art. 23 cod. pen.) –
lascerebbe infatti al giudice un margine talmente ampio, da rendere
arbitrario il suo potere di determinazione della pena in concreto;
tale potere, pertanto, cesserebbe di essere strumentale all’esigenza
di adeguamento della risposta sanzionatoria al caso singolo, per
investire lo stesso apprezzamento del disvalore del fatto tipico:
compito, questo, riservato per contro al legislatore.
2.1. – La prima delle tre censure di costituzionalità non è
fondata.
Essa poggia, infatti, sulla premessa interpretativa della
impossibilità di riferire alla categoria delle “notizie riservate”,
protette dall’art. 262 cod. pen., le indicazioni rinvenibili nella
legge n. 801 del 1977 a proposito del segreto di Stato. Da tale
premessa il giudice a quo trae il duplice corollario
dell’eterogeneità delle due classi di notizie (segrete e riservate),
sul versante degli obiettivi di tutela; e della sostanziale
indeterminatezza delle condizioni legittimanti l’apposizione del
divieto di divulgazione, presidiato dalla norma incriminatrice
impugnata: norma la cui operatività verrebbe perciò a dipendere da
valutazioni dell’autorità amministrativa, svincolate da ogni
parametro legale e insindacabili da parte dal giudice penale.
L’indicata premessa interpretativa è stata, peraltro,
recentemente contraddetta dalla Corte di cassazione, la quale, con
decisione successiva all’ordinanza di rimessione (cfr. Sez. I,
10 dicembre 2001-29 gennaio 2002, n. 3348), si è espressa
nell’opposto senso che le notizie riservate – intese come notizie
“delle quali, pur conosciute o conoscibili in un determinato ambito,
è vietata la divulgazione con provvedimento dell’autorità
amministrativa” – costituiscono categoria omogenea, sul piano dei
requisiti oggettivi di pertinenza e di idoneità offensiva, rispetto
a quella delle notizie sottoposte a segreto di Stato. Facendo leva
sul collegamento storico-sistematico riscontrabile tra le due
categorie di notizie, e traendo altresì specifico argomento dal
regime delle esclusioni del diritto di accesso delineato dall’art. 24
della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dalla relativa normativa
regolamentare di attuazione, il giudice di legittimità ha affermato,
più in particolare, non soltanto che le notizie riservate debbono
inerire ai medesimi interessi che, a mente dell’art. 12 della legge
n. 801 del 1977, giustificano il segreto di Stato; ma altresì che la
loro diffusione deve risultare idonea – al pari di quanto avviene per
le notizie sottoposte a segreto di Stato, in forza della norma
definitoria da ultimo citata – a recare un concreto pregiudizio ai
predetti interessi. Nella medesima decisione si precisa, inoltre, che
il divieto di divulgazione, analogamente a quello impositivo del
segreto di Stato – concorrendo ad integrare la componente precettiva
della norma incriminatrice – resta soggetto a sindacato di
legittimità da parte del giudice penale, segnatamente in rapporto
agli accennati requisiti di inerenza contenutistica e di attitudine
offensiva della notizia che ne costituisce oggetto.
Viene prospettata, in tal modo, una possibile lettura del quadro
normativo, che si presta a sottrarre la disposizione impugnata al
sospetto di violazione del principio di tassatività della
fattispecie di reato, nonché del principio di legalità in materia
penale sotto il profilo della riserva di legge (anch’esso
sostanzialmente evocato dalla doglianza del giudice a quo). Al lume
di tale lettura, risulta difatti rinvenibile nella legge una
sufficiente specificazione dei presupposti, del carattere, del
contenuto e dei limiti dell’atto di natura amministrativa che impone
il divieto assistito da sanzione penale, tale da permettere un
efficace controllo incidentale di legittimità dell’atto medesimo
(cfr., ex plurimis, sentenze n. 333 del 1991 e n. 282 del 1990).
Resta comunque auspicabile che il legislatore si faccia carico
dell’esigenza di una revisione complessiva della materia in esame:
esigenza avvertita, per vero, già all’epoca dell’emanazione della
legge n. 801 del 1977, il cui art. 18 assegnava carattere di
“transitorietà” al regime delineato dal titolo I del libro II del
codice penale, in vista dell’emanazione di una “nuova legge organica
relativa alla materia del segreto”.
2.2. – Manifestamente inammissibili risultano, invece, le residue
censure, che ineriscono in via esclusiva al trattamento sanzionatorio
della figura criminosa.
La questione è stata sollevata, infatti, dal giudice rimettente
nella veste di giudice dell’udienza preliminare: veste nella quale
egli non è chiamato a determinare la pena per il fatto per cui si
procede, essendo il suo potere decisorio, nel caso di specie,
circoscritto all’alternativa fra la sentenza di non luogo a procedere
e il decreto che dispone il giudizio.
La dedotta irragionevolezza della pena massima e l’asserita
eccessiva ampiezza del divario fra il massimo e il minimo della pena
edittale, previsto dall’art. 262 cod. pen., non vengono pertanto in
alcun modo in rilievo nel perimetro del thema decidendum del giudice
a quo (cfr., sempre in riferimento all’art. 262 cod. pen. e con
riguardo a situazione processuale analoga, ordinanza n. 156 del
2000).
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 262 del codice penale sollevata, in riferimento all’art. 25
della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Genova con l’ordinanza in epigrafe;
Dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 262 del codice penale, nella
parte relativa al trattamento sanzionatorio, sollevata, in
riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal predetto
giudice con la medesima ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2002.
Il Presidente: Vari
Il redattore: Flick
Il cancelliere:Di Paola
Depositata in cancelleria il 28 giugno 2002.
Il direttore della cancelleria:Di Paola