Sentenza N. 297 del 1986
Corte Costituzionale
Data generale
31/12/1986
Data deposito/pubblicazione
31/12/1986
Data dell'udienza in cui è stato assunto
19/12/1986
Presidente: prof. Antonio LA PERGOLA;
Giudici: dott. Francesco SAJA, prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore
GALLO, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco P.
CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO.
comma del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95 (Disposizioni relative
al mercato mobiliare ed al trattamento fiscale dei titoli azionari),
convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 216
(Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 aprile
1974, n. 95, recante disposizioni relative al mercato mobiliare ed al
trattamento fiscale dei titoli azionari), art. 1, così come
modificato dall’art. 51 della legge 24 novembre 1981, n. 689
(Modifiche al sistema penale), giudizi promossi con due ordinanze
emesse il 28 maggio 1985 dal Pretore di Roma nei procedimenti penali
rispettivamente a carico di Garbagnati Edoardo e Venturi Romano,
iscritte ai nn. 227 e 228 del registro ordinanze 1986 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, 1ª serie speciale,
dell’anno 1986;
Visti gli atti di costituzione di Garbagnati Edoardo e di Venturi
Pomano;
Udito nell’udienza pubblica dell’11 novembre 1986 il Giudice
relatore Giovanni Conso;
Uditi l’avv. Giovanni Maria Flick per Garbagnati e l’avv.
Francesco Saverio Musseri per Venturi;
nel corso dei procedimenti penali a carico rispettivamente di
Garbagnati Edoardo e Venturi Romano, ha denunciato, in riferimento
all’art. 3 della Costituzione, l’illegittimità dell’art. 17, settimo
comma, del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con
modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, così come
sostituito dall’art. 51 della legge 24 novembre 1961, n. 689.
La difesa degli imputati, ai quali era stato addebitato di vare,
l’uno nella qualità di amministratore della AEDES S.p.a. e l’altro
nella qualità di sindaco della Agricola Finanziaria S.p.A.,
dichiarato con ritardo non superiore a trenta giorni sul prescritto
termine del 31 marzo 1983 i compensi percepiti durante l’anno solare
precedente, aveva richiesto al Pretore: in via principale, il
prescioglimento ex art. 2 del codice penale, perché il fatto
contestato non sarebbe più preveduto dalla legge come reato stante
la depenalizzazione delle contravvenzioni alla legge 7 giugno 1974,
n. 216; in subordine, che venisse sollevata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17 della legge n. 216 del 1974, perché
irrazionalmente discriminatorio nell’irrogare sanzioni penali solo
nei confronti di “una parte di più soggetti tutti parimenti
obbligati ad un medesimo comportamento”.
Rilevato che la depenalizzazione disposta in via generale
dall’art. 32, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, è
esclusa, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, per i
reati punibili, come nella specie, “con pene alternative nelle
ipotesi aggravate astrattamente configurabili a seconda delle singole
fattispecie della forma base di reato”, e che anche il concorso
apparente di norme fra le immeditate ripenalizzazioni disposte dagli
artt. 49 e seguenti e l’art. 42 della legge n. 689 del 1981 va
risolto nel senso della prevalenza delle nuove specifiche
penalizzazioni immediatamente operanti “sulle disposizioni generali
depenalizzatrici provvisoriamente conservate in vigore”, il giudice a
quo ha accolto l’eccezione di illegittimità sollevata dalla difesa
degli imputati, ravvisando nelle norme impugnate un “irrazionale
discriminatorio trattamento di più soggetti obbligati a
comportamenti identici punendone penalmente soltanto alcuni”.
Il Pretore muove dalla considerazione che, al fine di assicurare
la tutela del pubblico risparmio raccolto da società di capitali
quotate in borsa e da enti i quali abbiano per oggetto esclusivo o
principale l’esercizio di attività commerciali ed i cui titoli siano
quotati in borsa, l’art. 17 della legge n. 216 del 1974 prescrive:
a) a carico degli amministratori, dei sindaci e dei direttori
generali di società quotate l’obbligo di dichiarare alla Consob le
partecipazioni dirette o indirette nelle società stesse o in
società controllate (primo comma);
b) a carico dei medesimi soggetti l’obbligo di imformare la
Consob delle urteriori operazioni partecipative (quarto comma);
c) a carico degli amministratori, sindaci e revisori sia di
società quotate in borsa sia di enti che emettano titoli quotati
l’obbligo di comunicare i compensi percepiti a qualsiasi titolo,
anche in società controllate, nell’anno precedente.
Dall’assetto normativo in parola risulterebbe, quindi, che, pur in
presenza di un uguale obbligo di comunicare i compensi gravante su
coloro i quali ricoprono uffici diretti di società od enti, la
sanzione colpisce soltanto i primi “con evidente discriminazione a
loro danno priva di raggionevolezza, posto che la finalità comune
dell’obbligo di comunicazione a carico di entrambe le categorie di
obbligati risponde alle esigenze di tutela del risparmio contro
quelle degenerazioni speculative che vanno sotto il nome di insider
trading”.
Il giudice a quo prospetta anche l’eventualità di una
interpretazione alternativa, nel senso che “l’espressione ‘i soggetti
indicati nel primo comma’ potrebbe esser riferita al solo soggetto
lessicale della proposizione e non anche al successivo complemento di
specificazione riguardante esclusivamente le società quotate, così
risolvendosi nella mera indicazione di quanti ricoprono uuffici
direttivi in società od enti, indiferentemente”: ma tale
interpretazione, ad avviso dello stesso Pretore, sarebbe, da un lato,
contraddetta dal lessico addoperato dal legislatore e, dall’altro,
priva di ogni riscontro nel “diritto vivente, che, allo stato, non
risulta ancora essersi formato”.
Le ordinanze, ritualmente notificate e comunicate, sono state
entrambe pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 24, 1ª serie speciale
del 28 maggio 1986.
Nel primo giudizio si è costituito il Garbagnati, mediante
memoria di costituzione e deduzione del suo difensore prof. avv.
Giovanni Maria Flik, chiedendo, in via principale, che la questione
venga dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, risultando
la violazione contestata all’imputato depenalizzata dall’art. 32
della legge 24 novembre 1981, n. 689, e, in via subordinata, che
venga dichiarata l’illegittimità costituzionale “dell’intero ultimo
comma dell’articolo 17 legge 7 giugno 1974, n. 216”.
Nel secondo giudizio si è costituito il Venturi, mediante atto di
deduzioni del suo difensore avv. Giovanni Compagno, chiedendo
dichiararsi illeggittima la norma denunciata.
In prossimità dell’udienza la difesa del Garbagnati ha presentato
brevi note con le quali, ribadite le argomentazioni esposte in una
memoria depositata nella cancelleria della Pretura di Roma, deduce
che i motivi di diseguaglianza rilevati dal giudice a quo sono stati
“percepiti” dalla legge 4 giugno 1985, n. 281, il cui art. 14,
sostitutivo dell’art. 17, ultimo comma, del decreto-legge 8 aprile
1974, n. 95, convertito, con modificazioni nella legge 7 giugno 1974,
n. 216, art. 1, modificato per effetto della legge 24 dicembre 1975,
n. 706, ed ulteriormente modificato dall’art. 51 della legge 24
novembre 1981, n. 689, ha esteso “ad entrambe le categorie di
preposti il sistema sanzionatorio conseguente alla omessa
dichiarazione o comunicazione”.
La novazione normativa non avrebbe, peraltro, inciso, alla stregua
della giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 24 del 1958 e n. 77
del 1963), “sulla perdurante rilevanza della questione di
legittimità”. L’assetto introdotto dalla legge n. 281 del 1985 non
esclude “che al fatto oggetto di accertamento penale sia tuttora
applicabile – in base al principio che individua il tempo del
commesso reato; in base ai principi regolanti la successione di leggi
penali nel tempo; nonché in base al principio di irretroattività
della disposizione penale inscriminatrice – proprio e soltanto la
norma, nella sua originaria formulazione, per la quale è stato
sollevato il dubbio di legittimità costituzionale”.
nella motivazione e nel dispositivo, donde la riunione dei relativi
giudizi per una decisione comune, sottopongono al vaglio di questa
Corte, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, il settimo ed
ultimo comma dell’art. 17 del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95,
convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art.
1, quale risultava dopo la sua sostituzione ad opera dell’art. 51
della legge 24 novembre 1981, n. 689, e prima della sua ulteriore
sostituzione ad opera dell’art. 14 della legge 4 giugno 1985, n. 281.
E ciò con specifico riguardo alla parte in cui tale comma operava
“irrazionale discriminatorio trattamento di più soggetti obbligati a
comportamenti identici punendone penalmente soltanto alcuni”.
2. – Più precisamente, il dubbio di legittimità costituzionale
coinvolge quella parte del comma in esame che – richiamandosi alla
prescrizione “di comunicare per iscritto alla Commissione (nazionale
per le società e la borsa), entro il mese di marzo, i compensi
percepiti nell’anno solare precedente a qualsiasi titolo e sotto
qualsiasi forma anche in società controllate”, contenuta nel sesto
comma dello stesso art. 17 – rendeva variamente passibili di sanzione
penale, in caso di omessa o ritardata o falsa comunicazione, soltanto
“i soggetti indicati nel primo comma” (cioè, gli amministratori ed i
sindaci di società con azioni quotate in borsa) e non, invece, tutti
i destinatari del relativo obbligo (cioè, gli amministratori ed i
sindaci o revisori delle socita’ con azioni quotate in borsa e degli
enti aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di
attività commerciali, i cui titoli siano quotati in borsa).
3. – L’entrata in vigore, subito dopo le ordinanze di rimessione,
della legge 4 giugno 1985, n. 281, il cui art. 14 ha dato vita ad una
nuova sostituzione del settimo comma dell’art. 17 del decreto-legge 8
aprile 1974, n. 95, convertito con modificazioni nella legge 7 giugno
1974, n. 216′, art. 1, estendendo l’operatività delle sanzioni
penali a tutti “i soggetti che non eseguono le dichiarazioni e
comunicazioni prescritte dal presente articolo nei termini ivi
stabiliti”, così da eliminare la disparità di trattamento lamentata
dal giudice a quo, fa sorgere il problema dell’eventuale restituzione
degli atti al fine di verificare la persistenza del requisito della
rilevanza.
Come è stato esattamente osservato dalla difesa di una delle
parti private costituite, la risposta non può che essere negativa:
trattandosi di una norma che ha esteso l’ambito dei soggetti punibili
per determinati comportamenti, ogni applicazione retroattiva e,
quindi, ogni incidenza sui procedimenti a quibus risulta preclusa
dall’art. 2, primo comma, del codice penale e dall’art. 14 delle
disposizioni sulla legge in generale, oltreché dall’art. 25, secondo
comma, della Costituzione.
4. – La difesa della stessa parte privata contesta, invece, la
concreta rilevanza della dedotta questione sotto un altro punto di
vista. Muovendo dallo specifico addebito rivolto all’imputato
(comunicazione eseguita con un ritardo non superiore a trenta giorni,
come tale punibile con la sola pena dell’ammenda da lire 1 milione a
lire 20 milioni, a differenza della comunicazione omessa od eseguita
con un ritardo superiore a trenta gironi, punibile con l’arresto fino
a tre mesi o con l’ammenda da lire 2 milioni a lire 40 milioni, è
della falsa comunicazione, punibile con l’arresto fino a tre anni),
si sostiene che la previsione di reato così ricavabile dal testo
dell’art. 17, settimo comma, del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95,
convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art.
1, quale sostituito ad opera dell’art. 51 della legge 24 novembre
1981, n. 689, sarebbe venuta meno a seguito della depenalizzazione
dei reati punibili con la sola multa o con la sola ammenda, disposta
in via generale dall’art. 32, primo comma, di tale ultima legge:
depenalizzazione resa possibile nella specie dalla differita entrata
in vigore (29 maggio 1982) delle norme del capo che racchiude l’art.
32 rispetto all’entrata in vigore (15 dicembre 1981) di tutte le
altri parti, art. 51 compreso, della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Ma detta tesi difensiva è già stata confutata nelle ordinanze di
rimessione con così diffuse e certamente non inadeguate
argomentazioni (l’applicazione dell’art. 32, primo comma, della legge
24 novembre 1981, n. 689, sarebbe preclusa sia dalla prevalenza che
l’art. 15 del codice penale assicurerebbe, anche successivamente al
29 maggio 1982, a disposizioni speciali come quella dell’art. 51, sia
dall’espressa previsione dell’art. 32, secondo comma, che sottrae
alla depenalizzazione i reati che “nelle ipotesi aggravate siano
punibili con pena detentiva”) da non consentire a questa Corte di
contrapporre alle valutazioni effettuate dal giudice a quo in sede di
individuazione del thema decidendum eventuali proprie valutazioni in
senso contrario (v. sentenze nn. 1, 89 e 238 del 1984, n. 67 del
1985).
5. – Preso atto della rilevanza della questione a fronte
dell’argomentata applicabilità nei procedimenti a quibus della norma
penale che costituisce l’oggetto del giudizio di legittimità,
l’esame del merito non può non darsi immediato carico della
possibilità, scrupolosamente prospettata dallo stesso giudice a quo,
di una più lata interpretazione del settimo comma dell’art. 17 del
decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con modificazioni
nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, quale risultava dopo la
sua sostituzione ad opera dell’art. 51 della legge 24 novembre 1981,
n. 689: dell’interpretazione, cioè, che, ritenendo applicabile tale
comma pure a coloro che ricoprissero l’ufficio di amministratore o di
sindaco in “enti aventi per oggetto esclusivo o principale
l’esercizio di attività commerciali, i cui titoli siano quotati in
borsa”, eviterebbe la lamentata disparità di trattamento con gli
amministratori ed i sindaci delle “società con azioni quotate in
borsa”.
Anche qui, tuttavia, le considerazioni svolte nelle ordinanze di
rimessione per dimostrare la insostenibilità di una lettura
estensiva della formula “i soggetti indicati nel primo comma” non
permettono a questa Corte di opporre l’interpretazione alternativa
disattesa dal giudice a quo all’interpretazione su cui è stata
impostata la censura di illegittimità costituzionale, tanto meno
nell’assenza di un diverso orientamento giurisprudenziale.
6. – Così puntualizzata, la questione in esame diventa
agevolmente sintetizzabile: la constatazione che “in presenza di un
uguale obbligo di comunicare i compensi gravente su coloro che
ricoprono uffici direttivi di società o enti, la testuale
fornulazione… della norma… commina la sanzione penale soltanto a
carico dei primi” si risolve in una “evidente discriminazione a loro
danno priva di ragionevolezza”, cui solo una declaratoria di
illegittimità costituzionale potrebbe porre riparo per il passato;
poiché, peraltro, “il divieto di dilatazioni in malam partem delle
norme penali” impedirebbe di eleminare l’irragionevole
discriminazione dichiarando illegittima la parte che escludeva dalla
sanzione soggetti parimenti obbligati alla comunicazione, sarebbe
necessaria una pronuncia di illegittimità che rendesse
“inapplicabile” la “norma discriminatoria denunciata” ai soggetti da
essa espressamente menzionati e, quindi, in ogni caso, con
conseguente completa estromissione di tale norma dall’ordinamento.
La questione non è fondata.
7. – Le affermazioni del giudice a quo sono senz’altro da
condividere, sia là dove mettono in risalto la “discriminazione
priva di ragionevolezza” insita nel “punire penalmente soltanto
alcune” fra “più soggetti obbligati a comportamenti identici”
nell’esercizio di funzioni del tutto corrispondenti, sia là dove
sottolineano l’impossibilità di utilizzare lo strumento della
declaratoria di illegittimità costituzionale per dilatare in malam
partem l’ambito di applicazione di una norma penale, opponendovisi il
principio di legalità non meno che il principio di rilevanza (v.
sentenza n. 44 del 1977). Ma l’insieme di tali considerazioni non
comporta necessariamente l’illegittimità costituzionale della norma
sottoposta a censura.
Questa Corte ha già avuto modo di precisare, proprio con
particolare riguardo alle norme penali inscriminatrici, che in linea
di principio “un’irragionevole omissione del legislatore non può
condurre alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di altra
norma di per sé ragionevole” (v. sentenza n. 168 del 1982 ed
ordinanza n. 303 del 1984).
A riconoscere che la previsione contenuta nel settimo comma
dell’art. 17 del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95, convertito con
modificazioni nella legge 7 giugno 1974, n. 216, art. 1, quale
sostituito ad opera dell’art. 51 della legge 24 novembre 1981, n.
689, sia una norma di per sé ragionevole è lo stesso giudice a quo,
quando dà atto al legislatore di essersi preoccupato – anche se non
compiutamente, vista l’omissione di alcuni soggetti nelle previsioni
sanzionatorie – dell'”esigenza di tutela del risparmio contro quelle
ricorrenti degenerazioni speculative che vanno sotto il nome di
insider trading”. Una tutela che ancor meglio si evidenzia allorché
dal comportamento rappresentato da una comunicazione effettuata con
ritardo non superiore a trenta giorni il legislatore passa a
sanzionare – sempre con gli stessi limiti soggettivi, ma avvalendosi
anche della pena detentiva – i comportamenti rappresentati da una
comunicazione effettuata oltre i trenta giorni, se non addirittura
omessa, o, più gravemente ancora, da una comunicazione falsa.
Né esistono, nella specie, motivi per derogare al principio che,
pur di fronte ad un’omissione irragionevole, vuole
salva la norma di per sé raggionevole. L’unico limite a tale
salvezza è, inverso, riscontrabile quando la discriminazione
fra soggetti assurga a lesione qualificata, e, perciò, diretta,
dell’art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto
distinzione dovuta a ragioni di “sesso, razza, lingua, religione,
opinioni politiche, condizioni personali o sociali”. Il che
non può di certo ravvisarsi – e, comunque, nessuna indicazione del
genere si ritrova nelle ordinanze di rimessione – in ordine alla
disparità qui concretamente lamentata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 17, settimo comma, del decreto-legge 8 aprile 1974, n. 95,
convertito con modificazioni della legge 7 giugno 1974, n. 216, art.
1, quale risultava dopo la sua sostituzione ad opera dell’art. 51
della legge 24 novembre 1981, n. 689, e prima della sua ulteriore
sostituzione ad opera dell’art. 14 della legge 4 giugno 1985, n. 281,
questione sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione,
dal Pretore di Roma con le due ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 1986.
Il Presidente: LA PERGOLA
Il redattore: CONSO
Depositata in cancelleria il 31 dicembre 1986.
Il direttore della cancelleria: VITALE