Sentenza N. 300 del 1984
Corte Costituzionale
Data generale
28/12/1984
Data deposito/pubblicazione
28/12/1984
Data dell'udienza in cui è stato assunto
20/12/1984
GUGLIELMO ROEHRSSEN – Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO
MALAGUGINI – Prof. LIVIO PALADIN – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof.
VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI – Dott. FRANCESCO SAJA –
Prof. GIOVANNI CONSO – Prof. ETTORE GALLO – Dott. ALDO CORASANITI –
Prof. GIUSEPPE BORZELLINO, Giudici,
maggio 1966 n. 437 (Trattato che istituisce un Consiglio unico ed una
Commissione unica delle Comunità europee e del Protocollo sui
privilegi e le immunità, con Atto finale e Decisione dei
rappresentanti dei Governi, firmati a Bruxelles l’8 aprile 1965) e
artt. 1 e 2 legge 6 aprile 1977 n. 150, promossi con le seguenti
ordinanze:
1) ordinanza emessa il 18 dicembre 1982 dal pretore di Trieste nel
procedimento penale a carico di Cecovini Manlio iscritta al n. 174 del
registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 232 dell’anno 1983;
2) ordinanza emessa il 16 aprile 1982 dal Giudice istruttore del
tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di Almirante
Giorgio iscritta al n. 286 del registro ordinanze 1983 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 239 dell’anno 1983.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 6 novembre 1984 il Giudice relatore
Ettore Gallo;
udito l’avvocato dello Stato Ignazio Caramazza per il Presidente
del Consiglio dei ministri;
1. – Con ord. 16 aprile 1982 (n. 286/83 Reg. ord.) il Giudice
Istruttore presso il Tribunale di Venezia, procedendo contro Giorgio
Almirante, membro sia del Parlamento nazionale che del Parlamento
europeo, sollevava questione di legittimità costituzionale della l. 3
maggio 1966 n. 437, nella parte in cui estende ai membri del Parlamento
europeo le prerogative di cui all’art. 68 comma secondo Cost.,
ritenendola in contrasto sia con il predetto art. 68 comma secondo che
con gli artt. 3, 112 e 138 Cost..
Riferisce il Giudice nell’ordinanza che il predetto Giorgio
Almirante il 21 giugno 1980 è stato indiziato di favoreggiamento
aggravato nei confronti di Carlo Cicuttini, imputato del delitto di
strage. A seguito di ciò, il Procuratore Generale presso la Corte
d’Appello di Venezia il 15 luglio successivo chiedeva l’autorizzazione
a procedere tanto al Parlamento nazionale quanto al Parlamento europeo.
Il 1 luglio 1981 il Parlamento nazionale concedeva l’autorizzazione
richiesta, mentre il Parlamento europeo non dava risposta alcuna.
Riteneva allora il Giudice di sollevare la questione più sopra
enunciata così argomentando.
L’art. 10, lett. a), del Protocollo sui privilegi e sulle immunità
della Comunità europea, allegato al Trattato che istituisce un
Consiglio unico e una Commissione unica della Comunità europea,
firmato a Bruxelles l’8 aprile 1965 e ratificato con legge 3 maggio
1966 n. 437, sancisce che i membri del Parlamento europeo beneficiano
“sul territorio nazionale delle immunità riconosciute ai membri del
Parlamento del loro paese”. In altri termini, per quanto concerne lo
Stato italiano, vengono estese ai parlamentari europei le prerogative
riservate ai nostri parlamentari dall’art. 68 della Costituzione.
Senonché, secondo il giudice “a quo”, la legge 3 maggio 1966 n. 437,
con cui è stato ratificato il Trattato (e il Protocollo ad esso
allegato), essendo legge ordinaria, e perciò fonte di produzione
giuridica di rango sub-costituzionale, è chiaramente inidonea ad
operare innovazioni nell’ambito delle norme costituzionali. Per di
più, l’art. 68, comma secondo, Cost. non è suscettibile di
applicazione estensiva essendo norma di carattere eccezionale e
derogatoria a numerosi principi costituzionali, quali quelli di cui
agli artt. 3, 25, 54, 101, 104 e 112. Secondo l’istruttore, la
tassatività delle ipotesi di cui all’art. 68 Cost., sia in relazione
ai soggetti beneficiari che ai provvedimenti e alle autorità indicate,
non può che ritenersi assoluta. Ne consegue che qualsiasi ampliamento
dei soggetti beneficiari si traduce in una integrazione costituzionale,
che si sarebbe potuta operare solo con legge formalmente
costituzionale, e non dunque con la legge impugnata. Tant’è vero che
– osserva il Giudice remittente – allorquando il legislatore ha dovuto
ampliare la sfera di applicabilità dell’art. 68 comma secondo Cost. a
garenzia dei giudici costituzionali, ha emanato una legge formalmente
costituzionale (art. 3, terzo comma, della legge cost. 9 febbraio 1948
n. 1).
Ma, secondo il primo Giudice, il contrasto non si limiterebbe agli
artt. 68, secondo comma, e 138 Cost., ma riguarderebbe anche gli artt.
3 e 112. Mentre, però, non spiega l’ordinanza quale sarebbe
l’incompatibilità concernente l’art. 3 Cost., afferma l’Istruttore che
il 112 verrebbe in causa in quanto l’azione penale obbligatoria,
benché regolarmente iniziata dal Pubblico Ministero, non può poi
essere proseguita dal Giudice istruttore.
D’altra parte, ad avviso dell’ordinanza, una siffatta estensione
della prerogativa non troverebbe alcuna giustificazione sotto il
profilo storico, sociale e politico, in quanto la garenzia accordata
dall’art. 68, secondo comma riguarderebbe l’ambito dei rapporti fra i
poteri dello Stato italiano.
Né potrebbero in contrario invocarsi gli artt. 10 e 11 della
Costituzione.
Non l’art. 10, dal momento che non esiste in materia una norma
internazionale generalmente riconosciuta, mentre la norma “pacta sunt
servanda” non sarebbe di per sé idonea a sostenere la tesi
dell’esautorazione del Parlamento quale organo legislativo
costituzionale.
Non l’art. 11, che è solamente una “disposizione costituzionale di
indirizzo” che lascia perciò impregiudicata la ripartizione delle
competenze legislative: specie in uno Stato a costituzione rigida come
quello italiano, ove occorrerebbe una serie di dimostrazioni univoche e
concordanti per poter ritenere fondata la cd. autorizzazione preventiva
dell’art. 11 Cost. a innovare nel campo delle fonti di produzione del
diritto.
Ben è vero che la Corte Costituzionale, con la sentenza 183/73, ha
ritenuto che in base all’art. 11 Cost. sono state consentite
limitazioni di sovranità per il conseguimento delle finalità proprie
di ogni trattato. Ma – avverte il remittente – nel caso di specie tale
presupposto non esiste perché si verte in tema estraneo alle finalità
della Comunità europea, trattandosi di materia che si incentra
nell’obbligo del giudice di procedere penalmente, e nel diritto
dell’indiziato a vedere accertata o esclusa la propria penale
responsabilità.
D’altra parte, l’art. 11 è applicabile soltanto “in condizioni di
parità con gli altri Stati”, mentre il Consiglio costituzionale
francese ha deciso nel 1976 che “se un impegno internazionale comporta
una clausola contraria alla Carta costituzionale l’autorizzazione a
ratificarlo o approvarlo non può intervenire che dopo revisione della
Costituzione”.
2. – Con ordinanza 18 dicembre 1982 il Pretore di Trieste, nel
procedimento penale contro Cecovini Manlio, imputato del delitto di
diffamazione aggravata, sollevava analoga questione di legittimità
costituzionale sia nei confronti degli artt. 1 e 2 della l. 3 maggio
1966, n. 437, sia nei riguardi degli stessi articoli della l. 6 aprile
1977 n. 150, per contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost.: e ciò nella
parte in cui introducono nell’ordinamento italiano il disposto di cui
all’art. 10, lett. a) del citato Protocollo 8 aprile 1965 della
Comunità europea, conseguentemente estendendo ai cittadini italiani
membri del Parlamento europeo l’istituto dell’autorizzazione a
procedere.
Riferiva il Pretore che, espletati i preliminari atti istruttori si
ravvisava la necessità di contestare al Cecovini il reato con ordine
di comparizione: essendo, però, il Cecovini deputato al Parlamento
europeo, si sarebbe dovuto avanzare richiesta di autorizzazione a
procedere a norma delle leggi impugnate.
È opportuno, tuttavia, precisare a questo punto che l’Atto della
Comunità europea, approvato con gl’impugnati artt. 1 e 2 della l. 6
aprile 1977 n. 150, si limita a richiamare all’art. 4, per i deputati
che sarebbero stati eletti nell’anno 1978, le cennate disposizioni del
Protocollo del 1966, approvato colla legge n. 437/1966.
Ad avviso del Pretore l’incompatibilità delle leggi impugnate con
l’art. 2 Cost. dipenderebbe dalla constatazione secondo cui fra i
diritti inviolabili dell’uomo deve ritenersi ricompreso anche quello
della persona offesa dal reato a vedere punito l’offensore.
Mentre il contrasto con l’art. 3 Cost. sarebbe integrato dalla
violazione della pari responsabilità penale dei cittadini.
Anche il Pretore, perciò, è dell’avviso che siffatti principi non
possono essere sacrificati se non da norme di pari rango, quali non
sono certamente le norme ordinarie impugnate. In proposito, egli
richiama la sent. 94/63 di questa Corte che, nel dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 cod. proc. pen., in
relazione sia all’art. 28 che all’art. 3 Cost., ha ammonito che le
forme di autorizzazione a procedere prescritte degli artt. 68 Cost. e 3
l. cost. 9 febbraio 1948 n. 1 sono del tutto particolari e disposte “a
tutela della piena autonomia di organi costituzionali”.
Il Pretore ripete poi le considerazioni dell’ordinanza del Giudice
di Venezia a proposito degli argomenti contrari desumibili dagli artt.
10 e 11 Cost..
3. – In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura Generale dello
Stato, che ha chiesto dichiararsi l’infondatezza della comune
questione.
Secondo l’Avvocatura, infatti, l’art. 68, secondo comma, Cost. non
è norma né eccezionale né extra ordinem. Essa, prevede
semplicemente una condizione di procedibilità dell’azione penale, che
è istituto regolato in via generale dall’art. 15 cod. proc. pen., e di
cui varie norme sostanziali ordinarie di diritto penale fanno
applicazione.
Ed è soltanto in grazia della qualità dei soggetti tutelati che
la condizione di procedibilità dei parlamentari nazionali è inserita
nella Costituzione: ma ciò non rileva nella specie – osserva
l’Avvocatura – dato che non si tratta di estensione di una norma
costituzionale, ma di una nuova ipotesi di procedibilità inserita nel
contesto della disciplina generale prevista dal citato art. 15 cod.
proc. pen..
Né è esatto che la immunità prevista dall’art. 68 Cost.
rappresenti una deroga all’art. 25 della stessa, dal momento che il
parlamentare, una volta accordata l’autorizzazione, rimane soggetto al
suo giudice naturale; e tanto meno agli artt. 54, 101, 104 Cost., le
cui disposizioni sono assolutamente estranee alla questione in esame;
ma neppure all’art. 112 Cost., non esistendo alcuna contraddizione fra
l’obbligatorietà dell’azione penale e la sussistenza delle condizioni
di procedibilità, come è dimostrato dai numerosi esempi disseminati
nell’ordinamento giuridico-penale. Ciò è stato, del resto,
espressamente ribadito da questa Corte – ricorda l’Avvocatura – nella
sentenza 105/67.
È parimenti da escludere, poi, che le leggi impugnate violino gli
artt. 2 e 3 Cost.. Non l’art. 2, dal momento che non è certo diritto
inviolabile dell’uomo, ma semmai potere – dovere delle collettività
organizzate a Stato, quello di punire gli autori dei reati: né tale
diritto può dirsi sacrificato se in una valutazione comparativa il
legislatore ha ritenuto di subordinarlo ad altri interessi prevalenti
di pubblico rilievo. Quanto all’art. 3 appare evidente – sostiene
l’Avvocatura – che l’autorizzazione a procedere prende in
considerazione situazioni diseguali rispetto agli altri cittadini in
quanto i parlamentari europei, svolgendo funzioni similari, ben possono
essere equiparati ai parlamentari nazionali.
Del tutto infondate, infine, giudica l’Avvocatura le considerazioni
dei giudici “a quibus” sull’art. 11 Cost. e proprio in dipendenza della
sent. 183/73 di questa Corte, essendo insostenibile l’assunto del
giudice istruttore di Venezia secondo cui la norma denunciata non
sarebbe attinente alle finalità proprie dei trattati comunitari. Al
contrario, gli obiettivi della Comunità, fissati nell’art. 2 del
trattato, richiedono una sempre maggiore partecipazione dei cittadini
degli Stati membri alla costruzione comunitaria sì che il Parlamento
europeo, eletto a suffragio universale e diretto, assume funzione di
elemento essenziale di tale partecipazione. La tutela della sua piena
funzionalità, pertanto, anche mediante le prerogative riconosciute ai
parlamentari nazionali, è del tutto coerente con le finalità e gli
obiettivi della Comunità.
All’udienza l’Avvocatura Generale dello Stato, dopo avere
preliminarmente sollevato una questione di inammissibilità per
irrilevanza, confermava in subordine le conclusioni dimesse nelle
scritture depositate.
1. – Essendo identica la norma impugnata dalle due ordinanze, anche
se non del tutto coincidenti i parametri costituzionali di riferimento,
i giudizi possono essere riuniti e risolti con un’unica pronunzia.
2. – Va detto innanzitutto brevemente sulla questione preliminare
di rilevanza sollevata al dibattimento dall’Avvocato Generale dello
Stato, nonché su altre analoghe eventualmente adombrabili.
Secondo l’Avvocatura dovrebbe ritenersi irrilevante la questione
sollevata dalle ordinanze in esame in quanto le prerogative statuite
dal Protocollo comunitario per i parlamentari europei non contrastano
né con principi fondamentali della nostra Costituzione né con diritti
inalienabili dell’uomo. Senonché un siffatto assunto, che già di per
sé presuppone la previa risoluzione anche di altri problemi, quali –
ad esempio – quelli concernenti la fonte normativa legittimata a dare
cittadinanza nel nostro ordinamento al Protocollo che attribuisce le
prerogative, riguarda comunque proprio le questioni di merito sollevate
dalle ordinanze, attraverso il riferimento a precisi parametri che si
assumono invece violati.
Il rilievo dell’Avvocatura non può, quindi, essere accolto.
Semmai – come appunto si accennava – altre due questioni, in punto
rilevanza, potrebbero essere adombrate con qualche maggiore
attendibilità: l’una comune ad ambo le ordinanze, l’altra particolare
a quella pronunziata dal Pretore di Trieste.
Da quest’ultima, tuttavia, può essere rapidamente sgomberato il
terreno. Il quesito, infatti, sorgerebbe dalla constatazione che il
Cecovini, imputato di diffamazione aggravata, non è stato rieletto al
Parlamento europeo nel giugno del 1984, sì che attualmente nessuna
prerogativa più gli compete.
Ma questa Corte ha ormai consolidata sul punto la sua
giurisprudenza (cfr. sent. 5 aprile 1957 n. 50, 10 novembre 1961 n. 57,
13 luglio 1963 n. 135, 2 febbraio 1982 n. 16, 3 marzo 1982 n. 53),
secondo cui la vicenda del processo incidentale di legittimità
costituzionale non può essere influenzata da circostanze di fatto
sopravvenute nel procedimento principale: e ciò in quanto, svolgendosi
il processo incidentale nell’interesse pubblico, e non in quello
privato, una volta che esso si sia validamente instaurato a norma
dell’art. 23 l. 11 marzo 1953 n. 87, acquisisce una autonomia che lo
pone al riparo dall’ulteriore atteggiarsi della fattispecie, financo
nel caso in cui, per qualsiasi causa, fosse venuto a cessare il
giudizio rimasto sospeso (art. 22 delle Norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte Costituzionale).
Più consistente, invece, può apparire prima facie l’altra
questione. Infatti, l’art. 10, primo comma, 1 inciso, del Protocollo
allegato al trattato firmato a Bruxelles il 18 aprile 1965 (ratificato
e reso esecutivo in Italia in forza della legge impugnata 3 maggio 1966
n. 437) attribuisce ai parlamentari comunitari immunità e prerogative
“per la durata delle sessioni dell’Assemblea”, soggiungendo al comma
secondo che “l’immunità li copre anche quando essi si recano al luogo
di riunione dell’Assemblea o ne ritornano”. Il che conferma che le
prerogative sono limitate appunto alla stretta durata delle Sessioni,
se il legislatore comunitario ha ritenuto necessario estenderle al
tempo occorrente per raggiungere l’Assemblea in apertura di Sessione, o
i Paesi di origine alla chiusura: disposizione inutile se la copertura
avesse abbracciato tutto l’arco temporale del mandato.
Vero è che, secondo alcune voci della dottrina, la Corte di
Giustizia delle Comunità europee, cui compete – per l’art. 177 del
trattato della C.E.E. – una pregiudiziale funzione
interpretativo-nomofilattica, avrebbe dato alla nozione di “Sessioni”,
colla sent. 12 maggio 1964 (in causa 101/63 devoluta dal Granducato
del Lussemburgo), un significato così ampio da estenderlo virtualmente
all’intera durata del mandato.
Ma una siffatta interpretazione della sentenza è frutto di
affrettata lettura. In realtà, il principio affermato dalla Corte
comunitaria si limita a stabilire che l’Assemblea va considerata in
Sessione, anche quando non è riunita, fino alla chiusura di ciascuna
Sessione, salvo eventuali Sessioni straordinarie che debbono, però,
essere richieste dalla maggioranza.
Ma la detta Corte riconosce esplicitamente che le Sessioni annuali
ordinarie sono due: delle quali l’una inizia il secondo martedì di
maggio e deve necessariamente chiudersi il 30 giugno, l’altra ha inizio
il terzo martedì di ottobre e si protrae effettivamente fino alla
dichiarazione di chiusura. Il che comporta, dunque, che fra il 1
luglio ed il terzo martedì di ottobre l’Assemblea non è in Sessione
(salvo l’eventualità delle Sessioni straordinarie) e che, pertanto,
durante quell’intervallo – escluso il tempo necessario per rientrare in
sede o per raggiungere l’Assemblea – i parlamentari non sono coperti da
immunità.
Tuttavia, non ritiene la Corte che ciò influisca in termini di
rilevanza sulla questione proposta; e ciò sia perché la richiesta di
autorizzazione ben può essere avanzata in considerazione, da una
parte, dei tempi occorrenti per la deliberazione dell’Assemblea e,
dall’altra, di quelli prevedibili per la durata del processo, in guisa
da evitare un rito intermittente; sia perché, comunque, dovendosi
anche accertare l’eventualità di Sessioni straordinarie, è opportuno
che il tutto resti affidato all’apprezzamento del Giudice di merito.
Devesi, perciò, passare all’esame della proposta questione.
3. – Non può essere seguita l’Avvocatura dello Stato nella prima
parte delle sue deduzioni, là dove afferma che la soluzione del
problema sarebbe nell’art. 15 cod. proc. pen.. In altri termini, pur
contestando l’assunto delle ordinanze e perciò negando che l’art. 68,
comma secondo, Cost. sia disposizione eccezionale, ritiene l’Avvocatura
che non si tratti di integrazione dell’art. 68, secondo comma, che
nella specie non rileverebbe, ma semplicemente della posizione ex novo
di un’altra condizione di procedibilità, che il legislatore è libero
di collocare nel contesto dell’art. 15 cod. proc. pen..
Ora, che non sempre sia vietato al legislatore di riprodurre per
legge ordinaria, e per altre ipotesi, disposizioni contenute nella
Costituzione, non può essere negato.
Ma, mentre non può farsene una regola generale, giacché occorre
guardare alla natura dei principi sanciti nella Carta fondamentale e
alla ratio della loro costituzionalizzazione, è certo comunque che,
per quanto riguarda la specie, la soluzione non può essere ridotta in
termini così semplicistici.
Innanzitutto perché l’art. 15 citato si limita a disciplinare il
procedimento da seguire là dove un’autorizzazione a procedere sia
richiesta: una disciplina, cioè, che vale anche per le prerogative
contemplate nell’art. 68, secondo comma Cost. ma che lascia
impregiudicato il problema della legittimità della fonte normativa da
cui quelle prerogative possono venire a vita (Cfr. Corte Cost. 27
dicembre 1965 n. 99). In secondo luogo, poi, perché è tutt’altro
che estranea alla soluzione del quesito la natura della norma di cui
all’art. 68, secondo comma, Cost., di cui questa Corte ha identificato
la ratio nell’esigenza di proteggere la sfera di autonomia delle Camere
e garentire l’esercizio della funzione parlamentare (sent. 28 gennaio
1970 n. 9). In genere la dottrina, salvo qualche rara eccezione,
attribuisce alla disposizione natura costitutiva e valore tassativo,
escludendo che sia lecito un procedimento di integrazione: ma anche chi
non lo esclude si preoccupa poi di sottoporre il procedimento a tali
limiti di compatibilità con altri principi costituzionali da renderlo
sostanzialmente eccezionalissimo.
A questo proposito, anzi, deve rilevarsi che, se correttamente
l’Avvocatura contesta che l’art. 68, secondo comma Cost. sia
derogatorio rispetto a principi come quelli statuiti negli artt. 25, 54
e 101 Cost., invocati dalle Ordinanze (perché la condizione di
procedibilità non sottrae il cittadino al suo giudice naturale,
perché il dovere di osservanza della Costituzione è nella specie
inconferente trattandosi di stabilire quale principio vada osservato,
perché la soggezione dei giudici alla legge non viene in causa) e nega
conferenza al richiamo dell’art. 2 Cost. (perché il diritto a vedere
punito l’offensore non è diritto inalienabile dell’uomo), non
altrettanto può essere di leggieri sostenuto per quanto concerne gli
artt. 3 e 112, e quest’ultimo anche in relazione all’art. 104 Cost..
Non evidentemente per l’art. 3, dato che immunità e prerogative,
concesse per legge ordinaria, sicuramente determinerebbero
diseguaglianze fra i cittadini, in ordine alle quali l’apprezzamento di
razionalità troverebbe pur sempre nell’art. 68, secondo comma, Cost.,
il tertium comparationis. Senonché poi, a quel punto, ristretto in
termini di ordinamento interno, un siffatto sindacato incontrerebbe
nuove difficoltà dato che, esercitando i parlamentari europei le loro
funzioni in un ordinamento esterno, la comparabilità con quelle
esercitate dai membri delle Camere italiane postulerebbe
necessariamente un ulteriore passaggio attraverso altri parametri di
cui sarà detto fra poco.
Tanto meno, d’altra parte, può essere trascurato l’ostacolo
rappresentato dall’art. 112, anche in collegamento all’art. 104 Cost..
Salvo qualche isolata voce, che afferma estraneo l’istituto
dell’autorizzazione a procedere ai problemi concernenti l’azione penale
e la sua obbligatorietà, prevalente ed autorevole dottrina ritiene non
facilmente superabile il contrasto col detto parametro in ogni ipotesi
di autorizzazione a procedere diversa da quelle previste dalla
Costituzione o dalla legge costituzionale 9 febbraio 1948 n. 1, ambo
manifestamente ispirate a salvaguardia di funzioni costituzionali. Si
sostiene, infatti, che proprio l’esclusiva attribuzione al Pubblico
Ministero dell’obbligo di esercitare l’azione penale dovrebbe
escludere, sul piano costituzionale, che tra la legge penale
sostanziale e la sua applicazione processuale possano inserirsi, con
effetto paralizzante, interpretazioni di altri organi della Pubblica
Amministrazione.
La dottrina ricorda, anzi, che l’art. 112 è stato considerato come
guarentigia dell’indipendenza, sia pure relativa, del Pubblico
Ministero: ma, se si consentono condizionamenti estranei all’Ordine, la
garenzia viene vanificata.
E, in realtà, la stessa giurisprudenza di questa Corte, nel
procedere con due sentenze successive (18 giugno 1963 n. 94 e 18
febbraio 1965 n. 4) alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale
degli artt. 16 cod. proc. pen., 158 T. U. 4 febbraio 1915 n. 148, e
22 T. U. 3 marzo 1934 n. 383 concernenti rispettivamente le prerogative
dei funzionari di P. S., dei Prefetti, dei Sindaci e dei Presidenti
delle Province, benché sotto il riflesso dell’art. 28 Cost. invocato
dall’ordinanza di rimessione (che la Corte, comunque, collegava anche
all’art. 3), si esprimeva negli stessi sensi.
“Il subordinare ad una autorizzazione amministrativa – osservava la
Corte – l’attuazione di quella responsabilità (si allude a quella ex
art. 28 Cost.) è renderne possibile l’esonero discrezionale…: il
che segnatamente non è permesso prescrivere in materia penale, essendo
eccezionalmente dettati, e da norme costituzionali, i casi di deroga al
principio dell’obbligatorietà dell’azione penale” (sent. n. 4/1965
cit.).
Del resto, anche il legislatore, abrogando con l. 10 maggio 1978 n.
170 analoghe prerogative previste dall’art. 9 della l. 25 gennaio 1962
n. 20 per i funzionari addetti alla Commissione Inquirente del
Parlamento e alla Corte Costituzionale, nonché per Polizia e F.F.A.A.,
limitatamente a fatti di reato commessi nell’esecuzione di ordini
emanati dai predetti Organi costituzionali, si è evidentemente
allineato a quelle considerazioni. Talché oggi non esistono più
nell’Ordinamento prerogative, dipendenti da leggi ordinarie, che
subordinino a condizioni di procedibilità l’azione penale nei
confronti di persone diverse da quelle contemplate dalla Costituzione o
da leggi costituzionali.
Semmai va ricordato che ben diverso è stato l’avviso della Corte
quando si è trattato di autorizzazioni a procedere concernenti reati,
per le quali si è, invece, ammessa la competenza del legislatore
ordinario.
Sul punto, infatti, la linea della Corte è decisamente orientata
sulla considerazione secondo cui, l’autorizzazione a procedere
concernente reati riguardando esclusivamente i delitti contro la
Personalità dello Stato, sembra ragionevole che il soggetto passivo
diretto sia ammesso a valutare, attraverso i suoi organi, i motivi di
opportunità dell’ulteriore procedere: e ciò allo scopo di evitare che
il danno derivante dal processo finisca per assumere proporzioni
maggiori di quello cagionato dal reato. Mutatis mutandis, qualcosa di
simile a quanto si verifica nei riguardi del privato a proposito
dell’istituto della querela. La Corte lo ha detto esplicitamente in
tema di art. 313, terzo comma, cod. pen. (autorizzazione per il
delitto di vilipendio) nella sent. n. 22/1959, e ne ha spiegato la
ratio, incidenter tantum, nella sent. 17 febbraio 1969 n. 15.
Ad ogni modo, tutto ciò si è voluto ricordare per amore di
completezza, giacché l’ipotesi in esame riguarda autorizzazione a
procedere nei confronti del soggetto attivo del fatto di reato e sul
punto s’è visto quanto generale ormai sembri la concordia della
giurisprudenza, della dottrina e dello stesso legislatore,
nell’escludere che, attraverso legge ordinaria, sia ammissibile
un’integrazione dell’art. 68, secondo comma, Cost., e comunque la
posizione di una norma che attribuisca analoghe prerogative.
Sotto questo riflesso, perciò, non può essere sottovalutata la
sostanza delle obbiezioni mosse dalle ordinanze di rimessione, anche se
non sempre puntuale ne è stato l’argomentare.
Vero è che – come si è accennato – la soluzione del quesito va
cercata proprio attraverso la chiave che le ordinanze hanno rifiutato,
e su cui per verità l’Avvocatura dello Stato ha, invece, giustamente
insistito.
4. – Le ordinanze di rimessione escludono l’applicabilità alla
specie dell’art. 10 Cost. che riguarda le norme internazionali
generalmente riconosciute e il procedimento di adeguamento automatico.
Ma le ragioni poste a base di analoga esclusione relativamente ai
principi contenuti nell’art. 11 Cost. devono essere respinte.
L’ordinanza del Giudice Istruttore di Venezia fa espresso
riferimento alla fondamentale sentenza di questa Corte in subjecta
materia che ha consentito ulteriori e notevoli sviluppi
giurisprudenziali (Cfr. sent. 8 giugno 1984 n. 170).
Trattasi della sent. 27 dicembre 1973 n. 183 concernente il
sospetto d’illegittimità costituzionale sollevato da taluni Giudici in
ordine alla legge ordinaria che aveva dato esecuzione in Italia
all’art. 189 Trattato di Roma, istitutivo della C.E.E..
Riconosce altresì il detto giudice che la sentenza è sul punto
risolutiva là dove testualmente afferma: “… come questa Corte ha
già dichiarato nella sentenza n. 14 del 1964, la disposizione
dell’art. 11 Cost. significa che, quando ne ricorrono i presupposti, è
possibile stipulare trattati i quali comportino limitazione della
sovranità, ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria. La
disposizione, infatti, risulterebbe svuotata del suo specifico
contenuto normativo, se si ritenesse che per ogni limitazione di
sovranità prevista dall’art. 11, dovesse farsi luogo ad una legge
costituzionale.
È invece evidente che essa ha un valore non soltanto sostanziale
ma anche procedimentale, nel senso che permette quelle limitazioni di
sovranità, alle condizioni e per le finalità ivi stabilite,
esonerando il Parlamento dalla necessità di ricorrere all’esercizio
del potere di revisione costituzionale”.
Ritiene, tuttavia, l’ordinanza che la Corte abbia attribuito un
siffatto valore all’art. 11 “unicamente per il conseguimento delle
finalità proprie di ogni trattato”.
Va subito rilevato che, per verità, è questo un evidente equivoco
nel quale è incorso il magistrato. In realtà la sentenza,
richiamando col pronome “essa” il soggetto del periodo precedente, che
è “la disposizione”, riferisce manifestamente a questa (e non ad un
“trattato” di cui non si parla negli ultimi due periodi) l’avverbio di
luogo “ivi”. “Le condizioni e le finalità”, pertanto, cui nel pensiero
della Corte sono subordinate “le limitazioni di sovranità”, sono
quelle “stabilite ivi”, cioè nella disposizione stessa, e perciò
nell’art. 11 Cost..
In altri termini, è il trattato che, quando porta limitazioni alla
sovranità, non può ricevere esecuzione nel Paese se non corrisponde
alle condizioni e alle finalità dettate dall’art. 11 Cost..
Non ha più senso allora, così rettificato l’autentico significato
della sentenza, l’obbiezione del Giudice Istruttore, secondo cui si
verterebbe in materia estranea alle finalità della Comunità europea
in quanto si tratterebbe dell’obbligatorietà dell’azione penale e del
diritto dell’indiziato ad essere giudicato.
A parte che gli artt. 112 e 24 Cost., evidentemente richiamati da
questi accenni (ma di quest’ultimo parametro non v’è altra menzione
nell’ordinanza), resterebbero fuori causa una volta che spiegasse
vigore l’autorizzazione preventiva di cui all’art. 11 Cost. (e,
perciò, è grave difetto di metodo utilizzarli per contrastarne
l’operatività), devesi soltanto stabilire a questo punto se il
Trattato, sottoscritto a Bruxelles l’8 aprile 1965, e il Protocollo ad
esso allegato, corrispondano o meno alle condizioni e alle finalità
contemplate nell’art. 11 Cost..
Orbene, quanto alle finalità del Trattato, esse sono rappresentate
dalla istituzione di un unico Consiglio e di un’unica Commissione,
così riunificandosi i corrispondenti organismi delle tre Comunità
europee (C.E.E., C.E.E.A. e C.E.C.A.). Si tratta, perciò, di un
ulteriore progresso sul sofferto cammino dell’unificazione europea,
anche politica, strumento essenziale per l’instaurazione di un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni: e ciò
al fine di evitare il ricorso a quelle ostilità che l’Italia
solennemente ha ripudiato nel primo inciso dell’art. 11 Cost..
Ed è appena il caso di rilevare che l’allegato Protocollo,
attribuendo ai parlamentari europei immunità e prerogative adeguate a
quelle che gli Stati della Comunità concedono ai propri parlamentari,
realizza perfettamente tanto le finalità del Trattato quanto quelle
dell’art. 11 Cost. proprio perché quelle guarentigie rispondono alla
stessa ratio che questa Corte aveva precisato – come sopra si è
ricordato – “nell’esigenza di proteggere la sfera di autonomia delle
Camere e garantire l’esercizio della funzione parlamentare”.
Non può esservi dubbio, pertanto, che, quanto a finalità,
l’autorizzazione preventiva di cui all’art. 11 Cost. è nella specie
sicuramente operativa. Le ordinanze, tuttavia, negano che si siano
comunque verificate “le condizioni di parità cogli altri Stati” che
l’art. 11 pure esige per legittimare sul piano costituzionale la
rinuncia ad una parte della sovranità: e lo negano attraverso
l’obbiezione del Giudice Istruttore di Venezia, secondo cui, almeno nei
riguardi della Francia, tale condizione sarebbe carente a causa di una
Decisione del Consiglio Costituzionale francese per il quale ogni
impegno internazionale, contrario a Costituzione, non può essere
ratificato se prima non intervenga procedimento di revisione
costituzionale.
Ma anche questo è frutto di equivoco.
Va intanto premesso che la Decisione del Consiglio Costituzionale
francese non è effetto di un dubbio di legittimità costituzionale
interna rispetto alle norme adottate a Bruxelles, ma è semplicemente
dovuto a regole generali di quell’ordinamento che, anziché affidarsi –
come avviene da noi – a procedimenti incidentali o ad azioni
principali, diretti ad ottenere un giudizio sulla conformità a
Costituzione in occasione di un caso di specie, o di una particolare
vertenza fra Enti territoriali o fra questi e lo Stato, stabilisce che
il Consiglio Costituzionale debba esprimersi in via preventiva.
Necessariamente nei confronti delle cosiddette “leggi organiche”
(quelle, cioè, che si riferiscono a materie contemplate dalla
Costituzione) e dei regolamenti parlamentari, mentre solo eventualmente
nei confronti di ogni altra legge che, approvata dal Parlamento ma non
ancora promulgata, venga portata al suo esame da parte del Presidente
della Repubblica, o del Presidente di una delle Camere o da sessanta
deputati o sessanta senatori (art. 61 Cost.). Particolare competenza
per il controllo preventivo del Consiglio Costituzionale è, anzi,
prevista – sempre a richiesta delle dette parti pubbliche – proprio nei
confronti delle leggi che approvano e ratificano trattati
internazionali (art. 53 Cost.). Ed infatti, nel caso che c’interessa,
la premessa della Decisione 30 dicembre 1976 n. 76-71 DC del Consiglio
Costituzionale fa appunto riferimento all’art. 53 Cost. e alla
richiesta del Presidente della Repubblica.
Orbene, come chiaramente risulta dalla richiesta riportata nella
detta premessa e dalla motivazione della decisione, il Presidente
chiedeva di conoscere se l’elezione diretta dei parlamentari europei
potesse comportare contrasto con un principio fondamentale della
Costituzione francese quale quello dell'”indivisibilità della
Repubblica” affermato nell’art. 2 Cost.. Richiesta che, lungi dal
comportare rottura delle condizioni di parità volute dall’art. 11
della nostra Cost., si adegua, anzi, perfettamente al nostro
ordinamento, dato che nemmeno da noi l’autorizzazione preventiva di cui
al citato articolo potrebbe mai coprire e consentire violazioni di
principi fondamentali o di diritti inalienabili.
In effetti, la Decisione del Consiglio Costituzionale riporta, fra
l’altro, il preambolo della Costituzione francese del 1946, confermato
da quello della Costituzione del 1958 che è assolutamente identico al
contenuto essenziale del nostro art. 11 Cost., là dove appunto vengono
consentite, sotto riserva di reciprocità, le limitazioni di sovranità
necessarie all’organizzazione e alla difesa della pace. Tant’è che il
Consiglio, constatato che l’elezione diretta dei rappresentanti
francesi nell’Assemblea comunitaria non mette in discussione
l’indivisibilità della Repubblica, dichiara Trattato e Allegato
compatibili colla Costituzione.
Siamo, dunque, in situazione di completa reciprocità. Ma
quand’anche così completa non fosse, deve escludersi che il
Costituente avesse inteso alludere ad una reciprocità tale da
comportare da parte dei contraenti limitazioni assolutamente identiche
a quelle consentite dal nostro ordinamento. È ben noto che – come la
dottrina ha messo in luce – la disposizione in parola veniva approvata,
in vista particolarmente della nostra partecipazione all’Organizzazione
delle Nazioni Unite (O.N.U.), il cui Statuto in quel momento era già
entrato in vigore. Ebbene, mentre i Costituenti auspicavano l’ingresso
dell’Italia in quell’Organismo, essi erano ben consapevoli che il
paragrafo 3 dell’art. 27 del detto Statuto poneva in posizione di
privilegio, rispetto agli altri partecipanti, i cinque Stati membri del
Consiglio di sicurezza, ai quali è consentito l’esercizio del potere
di “veto”.
Ciò comporta che l’assoluta eguaglianza non potrebbe comunque
essere ritenuta un requisito essenziale ed indispensabile della nozione
di “reciprocità” nell’ambito dell’art. 11 Cost.. Ciò che semmai deve
esigersi è che, ove sussistano disparità di trattamento, esse trovino
giustificazione nella necessità di promuovere ed attuare la pace e la
giustizia.
Quanto, infine, al “diritto dell’offeso a vedere punito
l’offensore”, di cui parla l’ordinanza del Pretore di Trieste, deve
escludersi che esso possa rientrare nei diritti inviolabili dell’uomo
(art. 2 Cost.).
Infatti, o si tratta dell’obbligatorietà dell’azione penale
intesa, come tale, a perseguire chiunque offenda un interesse
penalmente tutelato, ed allora – come si è già visto – si versa
nell’area dell’art. 112 Cost., in quanto, riguarda l’azione penale del
Pubblico Ministero e non certo quella del cittadino, il cui diritto
sottostante trova semmai nella norma e nel processo penale protezione
indiretta, e comunque sempre subordinata al promuovimento dell’azione
penale. Oppure, si vuole alludere “al diritto al giudizio” contemplato
nel primo comma dell’art. 24 Cost., inteso sia pure in proiezione
soggettiva, e cioè come diritto ad un’attività giudiziale minima,
finalizzata alla tutela di una posizione sostanziale di vantaggio (e,
quindi, anche alla costituzione di Parte civile nel processo penale),
ed allora deve ritenersi esaurita la protezione costituzionale
coll’impedire irragionevoli compressioni dell’ambito di esercizio dei
diritti sostanziali, tali da vanificarne la tutela nel processo (Cfr.
sul punto Corte Cost. 16 maggio 1968, n. 48).
Ma così non può certo essere considerata la condizione di
procedibilità in parola, che né vanifica il diritto al giudizio né
può essere ritenuta irragionevole, posto che si limita a sospenderne
temporaneamente la prosecuzione a tutela di interessi
costituzionalmente non meno preminenti. Oltre tutto, se così non
fosse, e se davvero il primo comma dell’art. 24 fosse collegabile
all’art. 2, si tratterebbe di un argomento che dimostra troppo, dato
che finirebbe per mettere in dubbio lo stesso art. 68 comma secondo
Cost.. Vero è, invece, che di inviolabile e di più pregnante rigore
nell’art. 24 c’è soltanto il secondo comma che riguarda la difesa: e
tuttavia va ricordato che, perfino a tale proposito, questa Corte ha
sempre riconosciuto che al diritto di difesa dell’imputato “come ad
altre situazioni costituzionalmente garentite, non può attribuirsi un
valore assoluto, tale da non consentire adattamenti o anche restrizioni
da parte del legislatore ordinario, qualora si appalesino giustificate
da altre norme o da principi fondamentali desunti dal sistema
costituzionale” (sent. 19 febbraio 1965 n. 5; ma si veda anche sent. 22
marzo 1971 n. 55; 2 febbraio 1970 n. 175; 9 giugno 1971 n. 126; 19
giugno 1974 n. 177; 2 giugno 1977 n. 98; 25 luglio 1984 n. 225; 25
luglio 1984 n. 226).
La questione, pertanto, non è fondata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale della l. 3 maggio 1966 n. 437 che ratifica
e dà esecuzione al Trattato sottoscritto a Bruxelles l’8 aprile 1965,
e al Protocollo allegato concernente, fra l’altro, le prerogative dei
Parlamentari europei. Questione sollevata con ord. 16 aprile 1982 dal
Giudice Istruttore del Tribunale di Venezia per contrasto cogli artt.
3, 68 comma secondo, 112 e 138 Cost., e con ord. 18 dicembre 1982 dal
Pretore di Trieste in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost..
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 20 dicembre 1984.
F.to: LEOPOLDO ELIA – GUGLIELMO
ROEHRSSEN – BRUNETTO BUCCIARELLI
DUCCI – ALBERTO MALAGUGINI – LIVIO
PALADIN – ANTONIO LA PERGOLA –
VIRGILIO ANDRIOLI – GIUSEPPE FERRARI
– FRANCESCO SAJA – GIOVANNI CONSO –
ETTORE GALLO – ALDO
CORASANITI – GIUSEPPE
BORZELLINO.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere