Sentenza N. 302 del 2000
Corte Costituzionale
Data generale
19/07/2000
Data deposito/pubblicazione
19/07/2000
Data dell'udienza in cui è stato assunto
11/07/2000
Presidente: Cesare MIRABELLI;
Giudici: Francesco GUIZZI, Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare
RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda
CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI,
Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
primo, del cod. pen., promosso con ordinanza emessa il 9 aprile 1999
dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Forlì
nel procedimento penale a carico di Sangiorgi Verusca, iscritta al
n. 393 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno
1999.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 10 maggio 2000 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
del reato di cui all’art. 12 del decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143,
convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 1991, n. 197, per
avere indebitamente utilizzato la tessera “bancomat” intestata alla
propria sorella convivente dopo averla asportata dal portafogli in
cui era custodita, il giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Forlì, accogliendo l’eccezione formulata dalla difesa
nell’udienza preliminare, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione, dell’art. 649, primo comma, del codice penale, nella
parte in cui non comprende tra i fatti non punibili, ove commessi in
danno dei congiunti ivi indicati, quelli previsti dal citato art. 12
del d.l. n. 143 del 1991.
Premesso, in punto di rilevanza, che l’accoglimento della
questione condizionerebbe in modo evidente gli esiti dell’udienza
preliminare, il giudice a quo assume che la mancata inclusione del
delitto di cui all’art. 12 del d.l. n. 143 del 1991 tra le ipotesi
criminose per le quali la norma denunciata prevede l’esenzione da
pena colliderebbe con il principio di ragionevolezza, inferibile
dagli invocati parametri costituzionali: la diversità di trattamento
fra chi realizzi uno dei delitti contemplati dagli artt. da 624 a 648
cod. pen. in danno del fratello o della sorella conviventi, e colui
che indebitamente utilizzi la carta di credito di proprietà del
congiunto a quest’ultimo sottratta, sarebbe difatti illogica,
trattandosi di casi ontologicamente identici.
Tale convincimento risulterebbe d’altro canto rafforzato, secondo
il rimettente, dall’avvenuto inserimento nel titolo XIII del libro II
del codice penale dei delitti di riciclaggio e di impiego di denaro,
beni o utilità di provenienza illecita (artt. 648-bis e 648-ter cod.
pen.) – i quali rientrerebbero così – per tabulas – nell’ambito
applicativo dell’art. 649 cod. pen. – trattandosi di ipotesi
criminose omogenee, sul piano dell’oggettività giuridica, rispetto a
quella avuta di mira.
2. – Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura erariale osserva che il presupposto interpretativo
da cui muove il giudice a quo non appare corretto, soprattutto con
riferimento all’asserita omogeneità delle situazioni messe a
confronto. L’art. 649, primo comma, cod. pen. prevede, infatti, una
causa di non punibilità la cui ratio risiede nella necessità di non
pregiudicare ulteriormente i rapporti tra parenti ed affini
conviventi, allorché uno dei fatti previsti dal titolo XIII del
libro II del codice penale sia stato commesso “in danno” del
congiunto: espressione, questa, che trovava, nell’originaria
sistematica codicistica, la sua giustificazione nella circostanza che
il titolo richiamato conteneva norme incriminatrici poste per lo più
a tutela del patrimonio individuale.
A tale contesto rimarrebbero per converso estranee le ipotesi
delittuose di cui agli artt. 648-bis 648-ter cod. pen. e 12 del d.l.
n. 143 del 1991. Le prime due, infatti, sebbene sistematicamente
inserite (in quanto costruite come figure peculiari di
“ricettazione”) nel titolo XIII del libro II del codice penale, hanno
una oggettività giuridica che – la si voglia individuare nella
tutela dell’amministrazione della giustizia, ovvero nell’ordine
pubblico o, ancora, in quello economico – vede comunque relegata la
tutela del patrimonio individuale in posizione assolutamente
marginale: di modo che si può seriamente dubitare che la causa di
non punibilità prevista dalla norma denunciata sia realmente
riferibile ai fatti contemplati dai citati artt. 648-bis e 648-ter
cod. pen., i quali difficilmente potrebbero dirsi commessi
esclusivamente “in danno” del congiunto.
Analoghe considerazioni varrebbero per la peculiare ipotesi di
cui all’art. 12 del d.l. n. 143 del 1991, che – come lo stesso
giudice a quo riconosce – ha il medesimo oggetto giuridico dei
delitti sopra richiamati: circostanza, questa, resa del resto palese
dalla – questa volta – significativa sua collocazione in un testo
normativo che ha come obiettivo il contrasto all’attività di
riciclaggio.
Ciò legittimerebbe la convinzione che, per un verso, le
situazioni poste a confronto dal rimettente siano tutt’altro che
omogenee, con conseguente esclusione della lamentata violazione del
principio di ragionevolezza; e che, per l’altro, l’intervento
additivo richiesto a questa Corte – tra l’altro riferibile ad una
sola delle forme di manifestazione della condotta incriminata
dall’art. 12 del d.l. n. 143 del 1991 – debba essere eventualmente
rimesso al legislatore.
Forlì dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli
artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dell’art. 649, primo
comma, cod. pen., nella parte in cui non comprende tra i fatti non
punibili, se commessi in danno dei congiunti ivi indicati, quelli
previsti dall’art. 12 del decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143,
convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 1991, n. 197.
Il dubbio di costituzionalità si fonda sul rilievo della
irragionevolezza del diverso trattamento riservato a chi commetta, in
danno di un congiunto, uno dei delitti contemplati negli artt. da 624
a 648 cod. pen., e quello di chi – come nel caso di specie –
indebitamente utilizzi la carta di credito di un congiunto dopo
averla a questi sottratta: casi che pure il rimettente giudica
“ontologicamente identici”.
A suffragio del proprio assunto il giudice a quo ulteriormente
allega l’avvenuto inserimento nel titolo XIII del libro II del codice
penale dei nuovi artt. 648-bis e 648-ter – che rientrerebbero così
eo ipso nell’area di applicazione dell’art. 649 cod. pen. –
trattandosi di norme incriminatrici poste a presidio di beni
giuridici omogenei a quelli tutelati dal citato art. 12 del d.l.
n. 143 del 1991.
2. – La questione non è fondata.
Posto che le censure del giudice a quo attengono, in realtà,
esclusivamente alla violazione dell’art. 3 della Costituzione (il
dedotto contrasto con l’art. 27, terzo comma, della Costituzione non
è in alcun modo motivato e rappresenta, al più, un mero riflesso
della denuncia della norma impugnata sul piano del rispetto del
principio di uguaglianza), va rilevato come l’art. 649, primo comma,
cod. pen. – nell’escludere la punibilità dei fatti previsti dal
titolo XIII del libro II del codice penale commessi “in danno” di
determinati congiunti – limiti l’esenzione da pena ai casi in cui la
dimensione lesiva del fatto si esaurisca nell’offesa al patrimonio
individuale del congiunto, o, per valutare il fenomeno da altra
angolazione, ai casi in cui questi si presenti come unico titolare
dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice violata: così che
è pacifico – per addurre il più elementare degli esempi – che
l’art. 649, primo comma, cod. pen. non si applichi nel caso di
delitto contro il patrimonio avente ad oggetto un bene in
comproprietà fra il congiunto ed una terza persona.
Ciò premesso, giova osservare come l’art. 12 del d.l. n. 143 del
1991 delinei una figura criminosa dalla fisionomia alquanto
variegata: sia per quanto attiene all’oggetto materiale, identificato
nelle “carte di credito o di pagamento, ovvero (in) qualsiasi altro
documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o
all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi” (formula, questa,
atta a comprendere un’ampia gamma di documenti, diversi tra loro per
natura, funzione e modalità d’impiego); sia per quel che concerne la
condotta penalmente rilevante, essendo contemplate – accanto
all’ipotesi dell’indebita utilizzazione dei documenti, da parte di
chi non ne sia titolare – anche le ipotesi della falsificazione o
alterazione dei documenti stessi e della ricettazione di documenti di
provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché di
ordini di pagamento con essi prodotti.
Ora, sebbene nell’ampio e variegato catalogo dei comportamenti
riconducibili al paradigma punitivo considerato possano
individuarsene alcuni – in particolare, entro la cornice della
fattispecie dell’indebita utilizzazione – in rapporto ai quali
l’offesa al patrimonio individuale sembra assumere un rilievo
senz’altro prevalente, non può però dubitarsi che la struttura
della figura criminosa consenta di ravvisare, anche in tali ipotesi,
una concorrente aggressione ad interessi di marca pubblicistica:
interessi legati segnatamente all’esigenza di prevenire, di fronte ad
una sempre più ampia diffusione delle carte di credito e dei
documenti similari, il pregiudizio che l’indebita disponibilità dei
medesimi è in grado di arrecare alla sicurezza e speditezza del
traffico giuridico e, di riflesso, alla “fiducia” che in essi ripone
il sistema economico e finanziario.
La norma incriminatrice è invero collocata in un testo
legislativo il cui titolo – “Provvedimenti urgenti per limitare l’uso
del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire
l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio” – ne
illumina, di per sé solo, la ratio. Apprestando una più adeguata
tutela penale alle carte di credito e ai documenti equiparati – in
precedenza non garantita dalle norme incriminatrici comuni in tema di
delitti contro il patrimonio – il legislatore del 1991 ha inteso
incentivare, cioè, il ricorso a strumenti alternativi al denaro
contante e che consentono l’identificazione dell’autore delle
transazioni, quale mezzo di prevenzione del riciclaggio. Se, dunque,
la norma incriminatrice mira, in positivo, a presidiare il regolare e
sicuro svolgimento dell’attività finanziaria attraverso mezzi
sostitutivi del contante, ormai largamente penetrati nel tessuto
economico, è giocoforza ritenere che le condotte da essa represse
assumano – come del resto riconosciuto anche dalla giurisprudenza di
legittimità in sede di analisi dei rapporti tra la fattispecie
criminosa in questione ed i reati di truffa e di ricettazione – una
dimensione lesiva che comunque trascende il mero patrimonio
individuale, per estendersi, in modo più o meno diretto, a valori
riconducibili agli ambiti categoriali dell’ordine pubblico o
economico, che dir si voglia, e della fede pubblica.
Lo stesso giudice a quo d’altro canto, ammette sostanzialmente
tale attitudine lesiva “metaindividuale” dell’ipotesi criminosa,
allorché la accomuna, sul piano dell’oggettività giuridica, ai
delitti di riciclaggio e di impiego di denaro, beni o utilità di
provenienza illecita, descritti dagli artt. 648-bis e 648-ter cod.
pen. Egli non può essere tuttavia seguito allorché, facendo leva
sulla mera collocazione di tali ultimi due articoli nel titolo XIII
del libro II del codice penale, dà per scontata l’estensione della
causa di non punibilità in questione ai reati da essi previsti. A
dispetto, infatti, dell’inclusione fra i delitti contro il patrimonio
– suggerita da una certa affinità di struttura con il reato di
ricettazione, e peraltro da molti giudicata riduttiva ed inadeguata –
è opinione largamente condivisa che le figure criminose di cui agli
artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. delineino reati plurioffensivi, i
quali vedono relegata in secondo piano la tutela del patrimonio
individuale rispetto alla salvaguardia di interessi pubblici
identificati, volta a volta, nell’amministrazione della giustizia,
nell’ordine pubblico o nell’ordine economico: sicché anche in
rapporto ad essi – allo stesso modo che per il delitto di cui
all’art. 12 del d.l. n. 143 del 1991 – vale il rilievo della
impossibilità di considerarli commessi esclusivamente “in danno” del
congiunto, rilievo che li colloca al di fuori della sfera di
operatività della norma denunciata. Cade, in tal modo, il postulato
da cui muove il giudice a quo circa l’esigenza di un allineamento nel
trattamento delle fattispecie, tramite l’estensione dell’art. 649,
primo comma, cod. pen. all’ipotesi criminosa prevista dalla legge
speciale.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 649, primo comma, del codice penale, sollevata, in
riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal
giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’11 luglio 2000.
Il Presidente: Mirabelli
Il redattore: Flik
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 19 luglio 2000.
Il direttore della cancelleria: Di Paola