Sentenza N. 31 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
17/03/1969
Data deposito/pubblicazione
17/03/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
27/02/1969
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Prof. VEZIO CRISAFULLI
– Dott. NICOLA REALE, Giudici,
del Codice penale promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 21 luglio 1966 dal giudice istruttore del
tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Agostinelli
Ottavio, Balsimelli Luciano, Merola Salvatore ed altri, iscritta al n.
88 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 157 del 24 giugno 1967;
2) ordinanza emessa il 2 marzo 1968 dal pretore di Roma nel
procedimento penale a carico di Sica Giovanni, Giacomi Vittorio,
Bontatti Luigi, Santandrea Filippo ed altri, iscritta al n. 82 del
Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 152 del 15 giugno 1968;
3) ordinanza emessa il 7 marzo 1968 dal pretore di Roma nel
procedimento penale a carico di Corsi Bernardino ed altri, iscritta al
n. 107 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 203 del 10 agosto 1968.
Visti gli atti di costituzione di Balsimelli ed altri, Merola ed
altri, Sica, Giacomi, Bontatti e Santandrea;
udita nell’udienza pubblica del 29 gennaio 1969 la relazione del
Giudice Costantino Mortati;
uditi gli avvocati Ugo De Leone, Guido Martuscelli, Vincenzo Summa,
Luciano Ventura, Massimo Severo Giannini e Benedetto Bussi, per le
parti private costituite.
1. – In relazione ad un procedimento penale in corso di istruzione
formale promosso nei confronti di 203 persone, imputate alcune dei
reati di cui all’art. 330 del Codice penale, per avere abbandonato
collettivamente il pubblico ufficio di vigile urbano nei giorni 30
giugno e 1 luglio 1965 e altre per avere promosso ed organizzato tale
abbandono collettivo, il Giudice istruttore di Roma ha sollevato
questione di legittimità costituzionale della suddetta norma penale
per violazione degli artt. 39 e 40 della Costituzione.
Nell’ordinanza in data 21 luglio 1966 si osserva preliminarmente
che la questione è rilevante, nonostante che i reati rubricati siano
coperti dall’intervenuta amnistia, poiché, ove l’art. 330 del Codice
penale fosse dichiarato incostituzionale, gli imputati dovrebbero
essere prosciolti nel merito, in applicazione dell’art. 152 cpv., del
Codice di procedura penale.
Nel merito l’ordinanza, dopo avere indicato i motivi i quali
conducono ad escludere che la originaria correlazione dell’art. 330 con
l’ordinamento corporativo sia così stretta da determinare la sua
automatica abrogazione, in seguito ai provvedimenti legislativi di
soppressione di tale ordinamento intervenuti negli anni 1943 e 1944,
passa a deliberare la fondatezza della questione di legittimità
costituzionale, che non gli appare preclusa dalla sentenza n. 123 del
1962 della Corte costituzionale, sia perché viene ora dedotta anche la
violazione dell’art. 39 della Costituzione, sia perché in tale
sentenza la questione non sarebbe stata pienamente affrontata e
risolta, dato che essa si limitò ad affermare l’applicabilità alla
fattispecie della scriminante di cui all’art. 51 del Codice penale,
sancendo così la validità dell’art. 330 Cod. pen. Nonostante i suoi
riconosciuti “aspetti d’incostituzionalità”. Conclude pertanto per la
non manifesta infondatezza della questione, nei confronti oltreché
dell’art. 40, anche dell’art. 39, perché il riconoscimento della
libertà sindacale potrebbe direttamente giustificare la liceità
penale di tutte le varie forme di tutela degli interessi professionali.
L’ordinanza è stata regolarmente comunicata, notificata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 157 del 24 giugno 1967.
Avanti la Corte si sono costituiti due gruppi di imputati.
Il primo assistito dagli avv. Massimo Severo Giannini, Giuseppe
Sabatini e Guido Martuscelli, i quali, in una memoria a stampa
depositata il 14 gennaio 1969 hanno illustrato le conclusioni contenute
nell’atto di costituzione, tendenti a far dichiarare la illegittimità
costituzionale dell’art. 330 del Codice penale in riferimento agli
artt. 39 e 40 della Costituzione, o, quanto meno, l’inesistenza di una
questione di incostituzionalità per mancanza di azioni incriminabili
“essendo stati i fatti ascritti ai giudicabili assoggettati a limiti
atti a salvaguardare quegli interessi che potessero ritenersi
preminenti”.
Nella memoria si deduce che l’art. 330 del Codice penale dovrebbe
ritenersi abrogato, sia per effetto della soppressione dell’ordinamento
corporativo (dato che esso ebbe come sua funzione di riprodurre e
completare disposizioni penali già contenute nella legge 3 aprile
1926, n. 563) sia per effetto dei nuovi principi introdotti
nell’ordinamento italiano con l’art. 40 della Costituzione sanzionanti
la libertà di sciopero e il diritto di sciopero. La tesi
dell’abrogazione, pur se non ancora adottata espressamente, sarebbe
tuttavia prevalente nel convincimento sostanziale e complessivo della
stessa Corte, come risulterebbe da riconoscimenti contenuti nella
motivazione di alcune sentenze, circa la sussistenza di un radicale
contrasto fra i principi dell’ordinamento corporativo e quelli del
vigente sistema costituzionale.
Si deduce poi che, anche a prescindere dall’abrogazione dell’art.
330 del Codice penale, l’azione degli imputati non risulterebbe
incriminabile per essere stata compiuta nell’esercizio di un diritto.
Ricordate le sentenze della Corte n. 46 del 1958, n. 29 del 1960 e n.
123 del 1962, la difesa passa ad affrontare la particolare posizione
che è propria dei vigili urbani, per dimostrare come anche ad essi
competa il diritto di sciopero, in applicazione del fondamentale
principio di eguaglianza stabilito dall’art. 3 della Costituzione.
Considerato che l’esclusione dei vigili urbani dal novero di coloro
che hanno diritto di scioperare è stata fatta dipendere dalla
circostanza che essi esercitano funzioni di polizia giudiziaria ed
hanno la qualifica di agenti di pubblica sicurezza, la difesa, dopo
avere osservato che funzioni di polizia giudiziaria competono anche ad
altro personale, come alle guardie daziarie, campestri ed alle guardie
giurate, per le quali è inconcepibile l’esclusione del diritto stesso,
mette in rilievo che il riconoscimento prefettizio delle qualità di
agente di pubblica sicurezza non è automatico per tutti i vigili in
quanto tali, ma avviene con un provvedimento discrezionale ad personam
che comporta l’attribuzione a singoli vigili di mansioni estranee alle
funzioni istituzionali del Corpo.
Né la privazione del diritto di sciopero può farsi derivare
dall’art. 98 della Costituzione, perché questo prevede la possibilità
di limitare il divieto dell’iscrizione ai partiti politici solo per
determinate categorie di pubblici funzionari; e, poiché nessuna altra
norma costituzionale circoscrive il diritto di iscrizione ai sindacati
per tali categorie, se ne deve dedurre che ai membri di esse sia da
riconoscere, in via conseguenziale, anche il diritto di sciopero.
A parte queste considerazioni di ordine generale, la difesa stessa
fa comunque rilevare come l’azione di sciopero concretamente posta in
essere, ed alla quale si riferisce l’attuale incriminazione, fu
limitata alle funzioni che sono proprie dei vigili urbani come
dipendenti comunali, mentre gli stessi scioperanti sostarono nelle sedi
dei rispettivi reparti dichiarandosi pronti ad assolvere alle funzioni
di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza relative ad eventuali
incidenti stradali. Ciò in conformità alle direttive delle
organizzazioni sindacali, le quali avevano preso atto della circolare
emanata dal Prefetto di Roma, nell’imminenza dello sciopero, che
richiamava l’esigenza dell’assolvimento delle funzioni stesse, e ciò
non già al fine di legittimare lo sciopero (che essi ritengono in ogni
caso legittimo), ma per la responsabile salvaguardia di quegli
interessi pubblici più essenziali, la cui tutela è stata ritenuta
preminente e pregiudiziale nella sentenza n. 123 del 1962 della Corte
costituzionale.
Per il secondo gruppo di imputati gli avv. Benedetto Bussi, Ugo de
Leone e Alfredo Pirrone hanno presentato il 14 luglio 1967 un ampio
scritto di deduzioni nel quale si rileva innanzi tutto che non può
dubitarsi dell’ammissibilità della riproposizione della questione
(benché già risolta in senso negativo nella sentenza n. 123 del
1962), data la diversità dei termini in cui è ora prospettata. Nella
precedente sentenza, infatti, la legittimità costituzionale dell’art.
330 fu esaminata rifacendosi alla relazione esistente tra le norme
penali in esso contenute e la causa di giustificazione dell’esercizio
del diritto di sciopero, derivante dalla combinazione dell’art. 40
della Costituzione con l’art. 51 del Codice penale: pertanto la
questione fu ridotta ad un semplice problema di interpretazione e non
di legittimità costituzionale. Sulla base di quanto affermato dalla
Corte stessa nella sentenza n. 29 del 1960 risulta tuttavia che lo
sciopero, anche se non fosse riconosciuto come un “diritto” dall’art.
40, costituirebbe egualmente un atto penalmente lecito in virtù del
disposto dell’art. 39 della Costituzione e di conseguenza il problema
della legittimità dell’art. 330 non può essere risolto in una
semplice relazione fra disposizione incriminatrice e causa di
giustificazione dell’esercizio del diritto, ma dovrebbe essere
esaminato in tutta la sua ampia portata di vera e propria questione di
legittimità costituzionale.
In merito a tale questione, dopo avere richiamato la sentenza n. 46
del 1958 secondo cui l’abbandono di un ufficio può avvenire anche per
ragioni diverse dallo sciopero, traendosene la conclusione che la norma
non poteva essere dichiarata costituzionalmente illegittima, obietta
che siffatta conclusione può venir rovesciata se si ammette – come
deve ammettersi ove si abbia presente l’origine storica della norma –
che la disposizione impugnata ha come suo fine, nella normale e
costante applicazione che se ne è fatta, l’incriminazione di un tipo
di attività (quella sindacale) che è espressamente prevista dalla
Costituzione, quanto meno come attività penalmente lecita. Ove poi
veramente la previsione di reato di abbandono di ufficio possa trovare
un valido fondamento in altro che nel divieto dell’attività sindacale
spetterà al legislatore ridimensionare l’ambito dell’incriminazione in
conformità ai principi della Costituzione.
Dopo aver ulteriormente illustrato il dedotto contrasto tra l’art.
330 del Codice penale, inteso come ispirato e condizionato direttamente
dai principi dello Stato corporativo, e gli artt. 39 e 40 della
Costituzione, che nel nuovo ordinamento costituzionale hanno
solennemente riaffermato, proprio in opposizione a quel sistema, il
principio della libertà sindacale inteso, già nella sentenza n. 29
del 1960, come libertà di azione sindacale, la difesa dei vigili
urbani conclude per la dichiarazione d’illegittimità costituzionale
della norma.
Queste considerazioni sono state poi ulteriormente illustrate in
una memoria depositata il 16 gennaio 1969, nella quale si richiamano le
precedenti argomentazioni e si aggiunge che l’art. 39 costituisce un
logico sviluppo della proclamazione dell’art. 1 secondo cui “l’Italia
è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e che, pur essendo
inserito nel titolo terzo che regola i “rapporti economici” si
riconnette in una felice ed efficace sintesi con le altre disposizioni
regolanti i “rapporti civili”. Aggiunge che la libertà sindacale non
può essere negata a particolari categorie di cittadini, stante il
divieto di discriminazioni di cui all’art. 3 della Costituzione, e
poiché il’ diritto di sciopero è la principale manifestazione della
libertà sindacale non può come questa subire limiti di carattere
soggettivo. La diretta tutela che quest’ultimo diritto trova nell’art.
40 determina a suo favore una doppia liceità. In base a questi rilievi
la difesa dei vigili conclude perché l’art. 330 del Codice penale sia
dichiarato costituzionalmente illegittimo.
2. – Altra questione analoga è stata poi sollevata dal pretore di
Roma nel corso di un processo penale contro cinque autisti e fattorini
dell’Organizzazione Autoservizi Zeppieri di Roma, imputati del reati di
cui all’art. 330 del Codice penale per avere partecipato ad uno
sciopero impedendo improvvisamente le partenze dei pulmann, con
riferimento agli artt. 3, 39 e 40 della Costituzione.
Nell’ordinanza 2 marzo 1968 il pretore osserva innanzi tutto che la
questione può essere risollevata nonostante che la Corte
costituzionale si sia già pronunciata sullo sciopero degli incaricati
di un pubblico servizio di autotrasporti, rifacendosi sostanzialmente
ai motivi già richiamati a proposito dell’ordinanza del giudice
istruttore per dedurne che la questione di costituzionalità è rimasta
impregiudicata. Argomenta la non manifesta infondatezza della questione
stessa facendo osservare che l’ammissione di limiti soggettivi al
diritto di sciopero, mentre violerebbe l’art. 3, sarebbe in contrasto
con l’art. 40 che consente solo limitazioni riguardanti l’esercizio,
non già la titolarità del diritto stesso, ed altresì con l’art. 39,
data la connessione fra quest’ultimo e la libertà sindacale.
Passando a considerare il problema dei limiti obbiettivi del
diritto di sciopero, l’ordinanza osserva che esula dalla competenza
dell’autorità giudiziaria effettuare quella comparazione fra gli
interessi tutelati con l’esercizio del diritto di sciopero e quelli
generali preminenti da cui la Corte fa discendere uno di tali limiti.
Escluso poi che l’art. 330 comprenda in sé ipotesi di astensione dal
lavoro non qualificabili come sciopero, essendo ipotesi di tal genere
previste dal successivo art. 333, non è prospettabile l’eventualità
che dall’annullamento dell’art. 330 possa discendere una lacuna, tale
da precludere la pronunzia che lo sancisca.
Infine il pretore segnala l’antinomia che si determinerebbe tra
l’applicazione “residuale” dell’art. 330 e la previsione
dell’aggravante per l’ipotesi in cui il fatto abbia determinato
dimostrazioni, tumulti o sommosse popolari, la quale è conciliabile
invece con l’interpretazione da lui seguita.
L’ordinanza è stata regolarmente comunicata, notificata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 152 del 15 giugno 1968.
Avanti la Corte costituzionale si sono costituiti Sica Giovanni,
col patrocinio degli avv. Benedetto Bussi e Vincenzo Summa, Bontatti
Luigi e Santandrea Filippo, col patrocinio degli avv. Luciano Ventura e
Vincenzo Summa e Giacomi Vittorio col patrocinio degli avv. Carlo
Smuraglia e Vincenzo Summa, i quali hanno svolto le loro argomentazioni
nella memoria depositata il 16 gennaio 1969.
Anch’essi deducono preliminarmente che l’art. 330 del Codice penale
deve ritenersi escluso dal sistema positivo per effetto della caduta
dell’ordinamento corporativo e comunque a seguito dell’entrata in
vigore della Costituzione, per assoluta incompatibilità con l’art. 40
di questa e ricordano come in un primo tempo fosse stata addirittura
prospettata una sorta di eccezionale “desuetudine” di questa norma
penale e come in ogni caso la dottrina non abbia avuto dubbi circa la
sua abrogazione ai sensi dell’art. 15 delle preleggi.
Poiché tuttavia, in seguito, si è manifestato anche un
orientamento giurisprudenziale diretto a negare l’abolizione implicita
della norma, o a risolvere il problema mediante ricorso all’esimente di
cui all’art. 51 del Codice penale, appare necessario che si giunga ad
un completo chiarimento sul punto, col riconoscimento esplicito
dell’illegittimità costituzionale della norma.
Dopo avere ricordata la sentenza della Corte n. 123 del 1962 e la
giurisprudenza dei giudici ordinari, sempre restia ad applicare l’art.
330, i difensori si diffondono a dimostrare come l’abbandono del
servizio sia previsto anche da altre norme sanzionatorie, rispetto alle
quali quella in esame presenta la particolarità di essere diretta
contro le astensioni a carattere collettivo e contro l’organizzazione
dei lavoratori, come del resto era nelle intenzioni del legislatore
dell’epoca. Donde la conseguenza che l’art. 330 appare oggi o una
ripetizione superflua di altre norme penali o come una norma
incompatibile con i principi di libertà che informano l’ordinamento
vigente.
Dopo avere svolto varie considerazioni volte ad illustrare le
particolarità del rapporto di lavoro dei ferrotranvieri, i difensori
mettono in rilievo la diversa formulazione della norma impugnata
rispetto a quella dell’art. 328 del Codice penale che punisce chi
indebitamente rifiuta ecc., ed a quella dell’art. 333, che punisce ogni
prestazione del servizio svolta (al fine anziché soltanto in modo) da
turbarne la regolarità, ed osservano che molto più grave ne risulta,
di conseguenza, la limitazione alla libertà di azione sindacale. Per
contro, la formula dell’art. 330 è da avvicinare a quella dell’art.
502, secondo comma, del Codice penale, che fu infatti dichiarato
incostituzionale con la sentenza n. 29 del 1960.
Per queste ragioni insistono per la dichiarazione di illegittimità
costituzionale dell’art. 330 del Codice penale, per violazione degli
artt. 3, 39 e 40 della Costituzione.
3. – Infine, altra simile questione di legittimità costituzionale
è stata sollevata dallo stesso pretore di Roma, con ordinanza 7 marzo
1968, nel corso del processo penale promosso contro Corsi Bernardino ed
altri dipendenti dell’Azienda Comunale Centrale del Latte di Roma che
avevano anch’essi abbandonato collettivamente il servizio per aderire
ad uno sciopero.
Dopo avere svolto considerazioni preliminari analoghe a quelle
esposte nelle altre ordinanze, il pretore osserva che la statuizione di
questa Corte, secondo cui l’art. 330 può trovare ancora applicazione
per gli scioperi a finalità non economiche, e per quelli dei
funzionari esercenti attività la cui interruzione riesca lesiva degli
interessi generali tutelati dalla Costituzione, in quanto ha per
conseguenza di affidare al giudice ordinario la identificazione della
natura dello sciopero e la valutazione comparativa degli interessi
confliggenti, viene a contrastare con il principio della riserva di
legge posta dall’art. 40 della Costituzione che non consente di
decidere nei singoli casi, e con criteri necessariamente variabili da
caso a caso, quali siano gli interessi suscettibili di imporre
limitazioni soggettive ed oggettive del diritto in questione, e
contrasta altresì con l’altro principio dell’eguaglianza consacrato
nell’art. 3. Aggiunge che, anche a volere ammettere la sussistenza di
limiti di tal genere, non se ne può senz’altro argomentare che dalla
loro violazione siano da far discendere sanzioni penali, essendo invece
possibile ipotizzare conseguenze intermedie fra l’illecito penalmente
sanzionato e il diritto, la cui determinazione non è stata operata dal
legislatore, né è desumibile dall’interpretazione data dalla Corte.
Altro contrasto con i principi il giudice desume dall’ipotesi di
aggravamento che il n. 1 dell’ultimo comma dello stesso art. 330
prevede pel caso che l’abbandono dei pubblici servizi avvenga per
finalità politica. Ipotesi che (mentre non appare integrata nel
vigente sistema costituzionale che è sorto da esperienze storiche che
hanno conferito agli scioperi politici rilievo fondamentale, e che
riconosce all’autotutela popolare una funzione di garanzia contro
involuzioni antidemocratiche dell’ordinamento) presenta il pericolo che
si ravvisi una finalità politica in ogni forma di sciopero di pubblici
dipendenti. Fa rilevare infine che l’esclusione dal diritto di sciopero
per intere categorie di lavoratori importa gravi conseguenze in ordine
alla libertà sindacale, che è in stretta correlazione con quel
diritto (come la Corte ha altre volte ritenuto) e determina di
conseguenza anche una violazione dell’art. 39.
L’ordinanza debitamente notificata e comunicata è stata pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 203 del 10 agosto 1968. Nel giudizio
innanzi a questa Corte nessuna delle parti si è costituita.
Le tre cause, aventi ad oggetto una stessa disposizione legislativa
e richiedenti l’interpretazione delle disposizioni costituzionali
attinenti alla stessa materia vanno riunite e decise con unica
sentenza.
1. – L’ordinanza del giudice istruttore denuncia l’illegittimità
costituzionale dell’art. 330 del Codice penale, per violazione, oltre
che dell’art. 40 della Costituzione, già preso in esame dalla
precedente sentenza n. 123 del 1962, anche dell’art. 39, mentre le due
del pretore aggiungono a queste la violazione dell’art. 3.
Si rende opportuno, prima di procedere all’esame delle censure
riferite, prendere in considerazione il motivo, fatto valere più
particolarmente dalla difesa di parte, che, se vero, sarebbe
assorbente, secondo cui, avendo l’art. 330 recepito in ogni sua parte
(con in più l’aggravamento delle pene) l’art. 19 della legge 3 aprile
1926, n. 563, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di
lavoro, ed essendo perciò permeato dell’ideologia corporativa della
quale quella legge fu tipica espressione, non se ne può ammettere la
permanenza in un ordinamento come quello ora vigente poggiante su
concezioni con essa contrastanti. Sicché, anche a non volerne
dichiarare l’avvenuta abrogazione (come la Corte ebbe a ritenere nei
confronti dell’art. 502, con la sentenza 29 del 1960), sia da statuire
l’illegittimità dell’intera disciplina ivi contenuta.
Il richiamo all’art. 502 è però inconferente perché questo
puniva lo sciopero effettuato per motivi contrattuali, contrastante con
l’ordine del lavoro e rubricato fra i delitti contro l’economia
pubblica, sicché, strettamente collegato com’era ad un insieme di
istituti creati per la composizione in via giurisdizionale dei
conflitti fra le classi addette alla produzione, non poté sopravvivere
alla loro caduta. Differente è invece la valutazione da fare dell’art.
330, riguardante un reato iirriducibile all’altro per la diversità dei
soggetti e degli interessi coinvolti nell’abbandono del servizio.
Infatti il Codice lo fa rientrare fra i reati contro la pubblica
Amministrazione, considerando suoi soggetti attivi, oltre ai lavoratori
dipendenti, anche alcune categorie di lavoratori autonomi e persino
soggetti, quali i pubblici funzionari, del tutto estranei ai rapporti
di lavoro cui si riferiva l’ordinamento corporativo.
Si può aggiungere che nei confronti di questi ultimi anche il
Codice penale prefascista del 1889, puniva all’art. 181 l’indebito
allontanamento dall’ufficio effettuato previo concerto in numero di tre
o più persone. Allontanamento che, secondo le concezioni del tempo,
era considerato “indebito” pur quando fosse stato promosso dall’intento
di ottenere mutamenti delle norme regolanti rapporti di lavoro con lo
Stato o con altri enti pubblici (come può desumersi anche dal
confronto con il disposto dell’art. 166, dettato per i rapporti
disciplinati da convenzioni di diritto privato, rispetto ai quali
perseguito penalmente era l’abbandono del lavoro solo se promosso o
accompagnato da violenza o da minacce).
Se una correlazione è dato riscontrare fra l’art. 330 e l’assetto
politico vigente al tempo della sua emanazione, essa non attiene alla
disciplina giuridica dei rapporti di lavoro o di servizio ivi
considerati, ma piuttosto alla generale concezione autoritaria della
posizione dello Stato nei rapporti con i cittadini che ispirava il
regime dell’epoca e conduceva a ridurre la tutela dei diritti pubblici
soggettivi di costoro, quando non anche a negarne il riconoscimento;
concezione che trova un riflesso, per quanto riguarda l’articolo in
esame, nella gravità delle sanzioni penali dal medesimo comminate
(tanto più evidente quando si pongano a confronto con quelle prima
disposte dall’art. 181, fatte consistere solo nella multa e
nell’interdizione temporanea dall’ufficio). Ma, a parere della Corte,
tale circostanza non è sufficiente a far ritenere caducato l’articolo,
né per la parte precettiva, né per quella sanzionatoria.
Che l’art. 330 non possa in nessun caso venir meno nella sua
totalità emerge poi anche dall’altro rilievo che la genericità della
sua formulazione lo rende applicabile a fatti di abbandono collettivo
del lavoro i quali non abbiano finalità rivendicative degli interessi
economici di coloro che l’effettuano, sicché verrebbe a conservare una
sua propria ragione d’essere (contrariamente a quanto si sostiene, e
senza considerare il precedente rilievo sull’incongruenza della pena)
anche se dovesse venire affermata l’incostituzionalità della
particolare fattispecie criminosa costituita dallo sciopero in senso
tecnico. Né vale a far ritenere diversamente l’argomento desunto
dall’intitolazione data all’articolo in esame poiché, se pure essa
corrispondeva all’intenzione del legislatore dell’epoca di considerare
lo sciopero come fattispecie tipica del crimine voluto reprimere, non
esclude la possibilità di far rientrare nell’ampia sua formulazione
anche ipotesi differenti da quella tipica. Può aggiungersi che
l’ordinamento antecedente prevedeva come reato a sé stante l’abbandono
dell’ufficio da parte di un singolo pubblico ufficiale (art. 181,
secondo comma), dal che può argomentarsi che la pluralità degli
agenti era considerata costitutiva di un reato a sé stante,
differenziabile quindi da quello cui dà luogo la comune figura del
concorso di più persone in uno stesso reato. Il che sembra sufficiente
a contestare l’esattezza della tesi enunciata dalla difesa di parte,
secondo cui la caduta dell’art. 330 non determinerebbe alcuna lacuna
riguardo alla repressione dell’abbandono collettivo dell’attività, per
il fatto che vi si potrebbe provvedere ricorrendo all’applicazione
dell’art. 333 del Codice penale. La diversità delle due ipotesi
appare comprovata dal fatto che, mentre quest’ultimo articolo
condiziona la punibilità alla prova del dolo specifico (abbandono al
fine di turbare la continuità o regolarità del servizio), l’altro ne
prescinde, nella presunzione che tale turbamento si accompagni
necessariamente all’abbandono effettuato da un gruppo di persone
d’accordo fra loro.
Più persuasivo dei precedenti non è neppure un ultimo argomento
che si ritiene di poter trarre dall’aggravamento di pena sancito dal n.
2 del secondo comma dell’art. 330 pel caso che l’abbandono abbia
determinato dimostrazioni o tumulti, poiché, comprendendo la
disposizione, come si è detto, ogni specie di astensione dal lavoro,
non si sarebbe potuto non considerare l’ipotesi che i fini perseguiti
da qualcuna di esse o le modalità del suo svolgimento inducessero a
fatti di violenza o di turbamento dell’ordine pubblico.
2. – Passando ora a considerare le censure dedotte dall’art. 40,
con riferimento allo sciopero ivi considerato, caratterizzato (secondo
l’origine e la funzione attribuita al termine nell’attuale fase
storica) dalla sospensione dell’attività di lavoro da parte di
lavoratori dipendenti, strumentale pel conseguimento dei beni
economico-sociali che il sistema costituzionale collega alle esigenze
di tutela e di sviluppo della loro personalità, la Corte deve
riconfermare l’interpretazione data nella precedente sentenza n. 123
del 1962 circa l’ambito da assegnare ai limiti che l’articolo stesso
connette all’esercizio del diritto di sciopero.
Si è in contrario pregiudizialmente sostenuto che, avendo l’art.
40 assegnato alla legge la determinazione di siffatti limiti,
l’interprete non potrebbe sostituirsi ad essa senza violare la riserva
disposta a suo favore. È agevole replicare che la libertà del
legislatore in materia non può esercitarsi in misura tale da riuscire
lesiva di altri principi costituzionali, indirizzati alla tutela o di
beni di singoli, pari ordinati rispetto a quelli affidati
all’autotutela di categoria, oppure delle esigenze necessarie ad
assicurare la vita stessa della comunità e dello Stato. E non può
esser dubbio che competa alla Corte costituzionale la funzione di
accertare se limiti di tal genere si desumano dal sistema, procedendo
nell’affermativa alla loro determinazione, allorché ciò si renda
necessario, come avviene nella specie, per potere decidere della loro
applicabilità alla legge denunciata. Ove si ritenesse diversamente
risulterebbe violata non già la riserva di legge, ma l’altra riserva
che l’art. 134 dispone nei confronti della Corte quando le affida il
compito di giudicare della legittimità costituzionale delle leggi.
L’ampia discrezionalità spettante al legislatore per l’assolvimento
del compito conferitogli dall’art. 40 non potrebbe mai esercitarsi in
modo da pregiudicare gli interessi fondamentali dello Stato previsti e
protetti dalla Costituzione. Né può ammettersi che l’intervento della
Corte si renda possibile solo dopo che il potere predetto sarà stato
esercitato ed in confronto alla legge a tale scopo emanata, perché, a
parte l’assurdo di un diritto suscettibile di svolgersi per un tempo
indeterminato all’infuori di ogni limite, il vincolo a carico del
legislatore, proveniente da una fonte sopraordinata, com’è la
Costituzione, precede e condiziona la sua attività.
La tesi enunciata dalle ordinanze secondo cui l’art. 40, prevedendo
solo limitazioni all’esercizio del diritto, non tollera che esse si
estendano alla sua titolarità, si dimostra inesatta sulla base
dell’osservazione che queste ultime sono necessariamente collegate alle
prime. Infatti, una volta ammesso, com’è indubbio, che la libertà di
sciopero, per rimanere nell’ambito corrispondente al suo oggetto, di
libertà di non fare, deve svolgersi in modo da non ledere altre
libertà costituzionalmente garantite, com’è quella consentita a
quanti non aderiscono allo sciopero, di continuare nel loro lavoro, o
altri diritti egualmente protetti, quale quello di poter continuare a
fruire dei beni patrimoniali privati o di appartenenza pubblica senza
che essi siano esposti al pericolo di danneggiamenti o ad occupazioni
abusive, se ne deve dedurre che, già pur sotto questo circoscritto
punto di vista, non sia contestabile l’esigenza di limitare il diritto
in parola per coloro cui siano demandati compiti rivolti ad assicurare
il rispetto degli interessi che potrebbero riuscire compromessi da
scioperanti indotti a sostenere le proprie ragioni con intimidazioni o
violenze, e rispetto a cui si rende indispensabile l’impiego di congrui
mezzi di prevenzione o di repressione. Rilievo ancora maggiore assumono
le prospettate esigenze garantiste quando si abbia riguardo ai valori
fondamentali legati all’integrità della vita e della personalità dei
singoli, la cui salvaguardia, insieme a quella della sicurezza verso
l’esterno, costituisce la prima ed essenziale ragion d’essere dello
Stato.
Si potrebbe ritenere che la soddisfazione di tali finalità non
richieda necessariamente e sempre l’esclusione dall’esercizio del
diritto per tutti i preposti ai compiti di protezione di cui si è
parlato, potendo risultare sufficiente, almeno per alcuni di essi,
consentire l’esercizio stesso in una misura tale da assicurare almeno
un minimo di prestazioni che attengano iai servizi essenziali. Ma è
chiaro che la disciplina di un siffatto uso parziale non potrebbe
essere consentita altrimenti che con apposita legge, cui competerebbe
fissarne i casi di ammissibilità, nonché le condizioni ed i modi
necessari ad assicurare la efficienza e la continuità dei servizi
stessi.
Le conclusioni alle quali si è pervenuto nell’interpretazione
dell’art. 40 non sono in nessun modo influenzate dal richiamo che le
ordinanze fanno all’art. 3, dato che l’eguaglianza nel godimento dei
diritti può farsi valere fino a quando sussista parità di situazioni,
e tale presupposto non si verifica per i preposti ad organi e per gli
appartenenti a corpi che importano l’assoggettamento dei medesimi a
quei particolari doveri ai quali è legato il conseguimento delle
finalità prima menzionate.
Parimenti non decisivo deve ritenersi il richiamo all’art. 39
poiché, anche ad ammettere che la libertà di associazione di
categoria per coloro il cui rapporto di lavoro non sia regolato dalla
contrattazione collettiva trovi fondamento in detta norma, e non debba
piuttosto farsi discendere dal principio consacrato nell’art. 18, e pur
tenendo presente quanto la Corte ha statuito con le due sentenze n. 29
del 1960 e n. 141 del 1967, secondo cui la libertà di organizzazione
sindacale trova il suo necessario corollario nella libertà di azione,
non può senz’altro farsene discendere in ogni caso una sua
indiscriminata pienezza di esercizio, una volta dimostrato, come si è
fatto, che la libertà stessa, considerata in sé e nel sistema, non
può non risultare limitata. Ed è chiaro che anche l’art. 81, lett. e,
della legge delegata n. 3 del 1957, sullo statuto degli impiegati
civili dello Stato, invocato dalla difesa di parte, deve essere
interpretato alla stregua del criterio delineato. Naturalmente
competerà poi al legislatore stabilire i mezzi di azione sindacale per
la difesa degli interessi di categoria dei funzionari, per i quali il
limite in parola fosse fatto valere.
Discende dalle precedenti considerazioni che per i soggetti non
addetti alle menzionate funzioni essenziali debba riconoscersi pienezza
di esercizio del diritto di sciopero, salva sempre la potestà del
legislatore di regolarne le modalità.
3. – Il compito affidato alla Corte non può spingersi al di là
della determinazione del criterio generale, qual’è desumibile
dall’interpretazione sistematica dell’art. 40 della Costituzione.
Compete al giudice di merito procedere alla applicazione del criterio
stesso ai casi concreti, che dovrà effettuarsi in base alla
valutazione di tutti gli elementi che, nelle singole situazioni,
concorrono a far decidere circa l’appartenenza a categorie per le quali
il riconoscimento del diritto all’astensione collettiva dal lavoro
rischi di compromettere funzioni o servizi da considerare essenziali
pel loro carattere di preminente interesse generale, ai sensi della
Costituzione.
Non è esatto quanto asserito in qualcuna delle ordinanze, che
cioè sfugga al potere del giudice la valutazione comparativa degli
interessi, quale si rende necessaria per la risoluzione delle
controversie in materia, poiché a valutazioni siffatte l’organo
giudicante necessariamente deve procedere tutte le volte che la
formulazione delle norme da applicare le richieda.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 330, primo e
secondo comma, del Codice penale, limitatamente all’applicabilità allo
sciopero economico che non comprometta funzioni o servizi pubblici
essenziali, aventi caratteri di preminente interesse generale ai sensi
della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 febbraio 1969.
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – VEZIO CRISAFULLI
– NICOLA REALE.