Sentenza N. 313 del 1983
Corte Costituzionale
Data generale
18/10/1983
Data deposito/pubblicazione
18/10/1983
Data dell'udienza in cui è stato assunto
30/09/1983
ROSSANO – Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN – Avv. ORONZO REALE – Dott.
BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI – Avv. ALBERTO MALAGUGINI – Prof. LIVIO
PALADIN – Dott. ARNALDO MACCARONE – Prof. ANTONIO LA PERGOLA – Prof.
VIRGILIO ANDRIOLI – Prof. GIUSEPPE FERRARI – Dott. FRANCESCO SAJA –
Prof. GIOVANNI CONSO – Prof. ETTORE GALLO, Giudici,
secondo e terzo comma, 13, nn. 1 e 2, lett. a, 15, secondo comma, lett.
a, ottavo e nono comma, 21, 22, 23, 25, ultimo comma, e 26, primo
comma, della legge 10 maggio 1976, n. 319 (Tutela delle acque
dall’inquinamento) promosso con ordinanza emessa il 22 giugno 1976 dal
pretore di Padova nel procedimento penale a Carico di Greggio Rino ed
altri, iscritta al n. 602 del registro ordinanze 1976 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 288 del 1976;
visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 maggio 1983 il Giudice
relatore Oronzo Reale.
In un procedimento penale a carico di Rino Greggio ed altri –
imputati dei reati di cui agli artt. 440 e 452 (per adulterazione
colposa di acque destinate all’alimentazione), 635, comma secondo, n. 3
(per deterioramento di acque destinate a pubblica utilità) e 650 (per
inosservanza di provvedimenti dell’autorità) del codice penale,
nonché di numerose contravvenzioni a disposizioni del t.u. delle leggi
di P.S. (art. 58 r.d. 1931 n. 773: conservazione non autorizzata di
gas tossici), del t.u. sulla pesca (artt. 6, 9, 33, 36 r.d. 1931 n.
1604: riversamento in acque pubbliche di materie nocive alla fauna
ittica), del t.u. delle leggi sanitarie (art. 226 r.d. 1934 n. 1265;
scarico di acque industriali inquinate) e del regolamento di
bonificazione delle paludi (art. 133 r.d. 1904 n. 368), con riguardo a
fatti commessi fino al marzo 1975 – il pretore di Padova, con ordinanza
in data 22 giugno 1976, ha sollevato, ritenendole rilevanti al fine del
decidere e non manifestamente infondate, questioni di legittimità
costituzionale di varie norme (artt. 3, commi primo, secondo e terzo;
13, nn. 1 e 2 lett. a; 15, commi secondo, lett. a, ottavo e nono; 21;
22; 23; 25 u.c.; 26, primo comma) della legge 10 maggio 1976, n. 319,
intitolata alla “tutela delle acque dall’inquinamento”.
Il complesso delle disposizioni denunciate – attraverso l’abrogazione
(art. 26) o la limitazione (art. 25) del precedente sistema
sanzionatorio (direttamente od indirettamente) riferibile alla materia
degli scarichi inquinanti; l’insufficiente previsione di nuove ipotesi
incriminatrici (artt. 21, 22, 23); la introduzione di un sistema
autorizzatorio (anche in forma tacita) degli scarichi in atto (art.
15); la fissazione di termini assai ampi per l’adeguamento di detti
scarichi a limiti di accettabilità (art. 13), per di più stabiliti
con riferimento a valori obiettivamente inadeguati a proteggere la
qualità delle acque; la previsione inoltre della mera “facoltà” di
allineamento di tali valori a quelli più restrittivi stabiliti dalla
CEE ed infine di lunghi termini per l’adeguamento dei limiti stessi
alle indicazioni emergenti dalle nuove acquisizioni scientifiche (art.
3) – avrebbe, infatti, ad avviso del pretore, “preparato un massiccio
deterioramento ambientale ed una vera e propria dissipazione delle
risorse idriche”, così di conseguenza compromettendo la pubblica
salute.
Da ciò la richiesta di verifica di legittimità delle disposizioni
suelencate con riferimento, in primo luogo, al comune parametro
dell’art. 32 della Costituzione che, appunto, “tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività”.
Ed al riguardo il pretore non ha mancato di farsi carico della
possibile obiezione secondo cui, fermo restando il principio di tutela
della salute, dovrebbe comunque riconoscersi che spetta al legislatore,
con valutazione discrezionale e come tale insindacabile, determinare la
misura ed i criteri per l’attuazione di tale tutela.
Ma a ciò ha replicato che l’obiezione non regge quando, come nella
specie, si abbia di fronte “non già una normativa che riconosca modi e
tempi di una tutela, anche se ridotta, della sanità pubblica, bensì
un sistema che abolisce pressoché integralmente la protezione di
questo bene costituzionalmente garantito”.
Confliggerebbe, in particolare, con l’art. 32 – oltreché, solo nel
dispositivo dell’ordinanza, con gli artt. 3 e 11, secondo inciso –
della Costituzione, la disposizione di cui all’art. 26 l. n. 319/1976
citata. La quale, stabilendo (comma primo, secondo inciso) che “Sono
pertanto abrogate tutte le altre norme che direttamente od
indirettamente disciplinano la materia degli scarichi in acque, sul
suolo o nel sottosuolo e del conseguente inquinamento” (mentre “restano
in vigore le disposizioni del codice penale in materia di delitti
contro la vita, l’incolumità personale e pubblica”: comma secondo),
espungerebbe in pratica dall’ordinamento, tra le altre, disposizioni –
quali quelle contenute nel t.u. delle leggi sanitarie – ispirate ad
esigenze elementari di protezione della salute pubblica (ad es.
attraverso il divieto di immissione di scarichi non depurati in acque
inservienti all’uso alimentare o domestico), ovvero dettate da altri
interessi, come quello della salvaguardia della fauna ittica (t.u.
delle leggi sulla pesca), o della protezione dei canali di bonifica
(art. 133, lett. f, r.d. 8 maggio 1904, n. 368), ma, pur sempre,
mediatamente garanti della qualità delle acque e della sanità dei
cittadini: e ciò senza prevedere sanzioni sostitutive per i
corrispondenti attentati al bene collettivo della salute.
L’art. 32 della Costituzione sarebbe nel contempo parimenti violato
dall’art. 25, u.c., della detta legge n. 319/1976, in quanto questo
limiterebbe gravemente la punibilità dei fatti di inquinamento – ai
quali risultino applicabili norme del codice penale non rientranti
nella previsione abrogativa dell’art. 26 – escludendola nell’ipotesi
di scarico autorizzato (anche tacitamente) che inoltre non violi le
previsioni delle amministrazioni locali.
In pratica tale disposizione verrebbe a sottrarre a qualunque
sanzione fatti – nei quali siano riconoscibili gli estremi oggettivi
del delitto di danneggiamento, o di avvelenamento o adulterazione di
acque destinate all’alimentazione, ovvero di lesioni o di omicidio
colposi – per la sola considerazione, estrinseca, dell’avvenuto
rilascio della autorizzazione e della osservanza delle prescrizioni
locali: così fondando una presunzione assoluta di buona fede
dell’imputato, che potrebbe non avere riscontro nella realtà.
Il che induce il giudice a quo ad ipotizzare la contestuale
violazione dell’art. 101 della Costituzione: poiché – per effetto
sempre della disposizione impugnata – sarebbe sottratta al potere di
accertamento del giudice una serie indeterminabile di attentati, in
ipotesi gravissimi, contro la persona, in conseguenza di provvedimenti
della P.A..
E perché anche al di fuori di tale evenienza sarebbe, comunque, al
giudice “precluso il sindacato di legittimità dell’atto amministrativo
(prescrizione dell’autorità locale), che forma il presupposto della
valutazione penale della condotta del privato”, una volta che “il
provvedimento, anche se illegittimo, imporrebbe all’a.g. una
declaratoria di non punibilità”.
Non diversamente dalle esaminate disposizioni di contenuto abrogativo
contrasterebbero con l’art. 32 della Costituzione anche le altre norme
della l. n. 319 recanti la nuova disciplina della materia: tra le
quali, in particolare, quelle contenute negli artt. 13, nn. 1 e 2 lett.
a), 15 comma secondo lett. a e 15, commi ottavo e nono, si troverebbero
contemporaneamente a confliggere anche con il precetto costituzionale
dell’eguaglianza.
Con riguardo agli scarichi degli insediamenti produttivi (la materia
degli scarichi da insediamenti civili non attiene infatti al
procedimento penale pendente innanzi al pretore di Padova) dispone
l’art. 13 della legge 319 cit. (ai nn. 1 e 2, lett. a) che, ove
trattisi di insediamenti esistenti, i relativi scarichi “dovranno
essere adeguati entro tre anni dalla entrata in vigore della legge ai
limiti di accettabilità” di cui all’allegate tabelle A e C (secondo
che abbiano recapito in corsi d’acqua superficiali ovvero in pubbliche
fognature).
Ed aggiunge l’art. 15 sempre per i detti insediamenti produttivi
esistenti che (entro 2 mesi dalla entrata in vigore della legge) deve
essere fatta domanda di “autorizzazione allo scarico” (comma secondo,
lett. a); che prima dell’autorizzazione definitiva “viene rilasciata
dall’autorità competente un’autorizzazione provvisoria”, sulla quale
deve essere previsto l’allineamento progressivo ai valori tabellari
(comma ottavo); che l'”autorizzazione provvisoria si intende concessa
se non è rifiutata entro sei mesi dalla data di presentazione della
relativa domanda” (comma nono).
Orbene la ragione del sospetto di illegittimità di tali
disposizioni, con riguardo ai due parametri costituzionali su indicati,
sarebbe appunto duplice.
Per un verso, infatti, la qualità delle acque e la pubblica salute
verrebbero compromesse dal lungo termine concesso per l’adeguamento ai
valori tabellari degli scarichi delle imprese già operanti, e dal
sistema dell’autorizzazione provvisoria allo scarico che nella
previsione del pretore assumerà per molto tempo la forma normale
dell’autorizzazione tacita non essendo possibile (nel sistema stesso
della legge che “pone per ciò da se stessa le premesse per risultare
inoperante”) l’acquisizione da parte delle autorità competenti degli
elementi e dati tecnici necessari in ordine alla concessione od al
diniego del provvedimento.
E, per altro verso, verrebbe a crearsi una situazione di irrazionale
disparità di trattamento tra insediamenti futuri ed attuali in danno
dei primi, essendo questi tenuti a differenza dei secondi all’immediata
osservanza dei limiti di accettabilità ed alla richiesta ed
ottenimento dell’autorizzazione, sempre esplicite, previamente alla
apertura di nuovi scarichi (argomentando ex artt. 21 e 23 che
sanzionano il contrario comportamento).
Laddove il principio di eguaglianza non potrebbe, ad avviso del
pretore, essere ristabilito altrimenti che attraverso il riconoscimento
della soggezione delle imprese già operanti agli stessi obblighi
imposti nei confronti di quelle future. Soltanto così potendo
risultare “rispettati pari grado, l’art. 3, comma primo, e l’art. 32
Costituzione, in relazione al criterio che l’iniziativa economica
privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale né, a
maggior ragione, con il fondamentale interesse sociale alla salute”.
La delibazione della questione di costituzionalità delle
disposizioni sin qui esaminate non potrebbe, d’altra parte, sempre
secondo il giudice a quo, prescindere dalla considerazione:
a) dello scarso fondamento scientifico del criterio nella specie
adottato, di fissare valori limiti di tollerabilità non in relazione
direttamente alle acque, sibbene agli scarichi, e in maniera uniforme
per tutto il territorio nazionale, trascurando dati decisivi come
quelli inerenti alla portata dello scarico stesso , alla sua
periodicità e prossimità ad immissioni analoghe, nonché alle
caratteristiche del corso d’acqua ricettore;
b) della più accentuata permissività dei valori indicati nella
legge in questione rispetto a quelli stabiliti da precedenti circolari
ministeriali come la n. 166 del 2 ottobre 1971 e la n. 105 del 2 luglio
1973 (risultando la tolleranza di alcune sostanze inquinanti,
attualmente anche di 20 volte superiore a quella precedentemente
ammessa);
c) dalla più che probabile incompatibilità dei detti valori
previsti dalla l. n. 319 con quelli imperativi indicati dalla CEE nel
documento ENV/107/731.
I quali ultimi, pur inerendo alla qualità delle acque e non essendo
a rigore direttamente confrontabili con i dati delle tabelle in esame
attinenti ( come detto) alle caratteristiche degli scarichi, denotano
una evidente maggiore severità di valutazione.
E tali considerazioni, mentre avallerebbero il sospetto di
incostituzionalità dei su citati artt. 13 e 15 l. n. 319/76 anche in
relazione all’art. 11, secondo inciso, della Costituzione,
autorizzerebbero il dubbio altresì di illegittimità, per contrasto
con gli artt. 32 e 11 della Costituzione, dell’art. 3 della legge
suddetta, quanto al comma terzo, “per la parte in cui faculta – e non
obbliga – il competente Comitato dei Ministri ad adeguare i valori dei
limiti di accettabilità degli scarichi di cui alle tabelle A e C a
quelli corrispondenti, definiti dalle apposite direttive della
Comunità Economica Europea, qualora questi ultimi risultino più
restrittivi”; e, quanto ai commi primo e secondo “per la parte in cui
esclude che i limiti della tab. A possano essere adeguati alle nuove
acquisizioni scientifiche e tecnologiche, prima di otto anni
dall’entrata in vigore della legge; e, inoltre esclude che eventuali
ulteriori modifiche possano essere apportate, se non a intervalli di
tempo superiori ai quattro anni”.
Infine, con riguardo alle norme sanzionatorie contenute nella legge
impugnata, formula il pretore un’ultima ipotesi di illegittimità che
investe in particolare gli artt. 21,22 e 23, per la parte in cui –
comminando sanzioni per l’omissione della richiesta di autorizzazione,
per la mancata concessione o per il diniego o la revoca della medesima,
o per la inosservanza delle prescrizioni relative – non prevedono
invece alcuna pena autonoma per il superamento dei sia pur generosi
limiti di accettabilità previsti dalle tabelle allegate, lasciando
così impuniti proprio gli attentati più gravi per la pubbllca salute.
Il che contrasterebbe con l’art. 11, secondo inciso, oltreché con
l’art. 32 della Costituzione.
Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto, per il tramite
dell’Avvocatura Generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei
ministri che ha concluso per la piena legittimità di tutte le norme
impugnate.
Infondate innanzitutto, sarebbero, secondo l’Avvocatura, le
questioni sub art. 26 (“non avendo senso sul piano della legittimità
costituzionale una constatazione, non interessa quanto fondata anche
sul piano politico, secondo la quale la precedente disciplina appariva
migliore”) e sub art. 25 l. n. 319/1976 (dacché “non par dubbio che
il giudice possa sindacare l’atto autorizzativo, disapplicando in caso
di ritenuta illegittimità e condannare il pubblico funzionario ed il
privato per il concorso nella commissione di reati non giustificati da
autorizzazione legittima”).
Del pari destituita di fondamento sarebbe l’altra questione sub art.
13 legge cit., sia in riferimento all’art. 3 della Costituzione
(sussistendo obiettiva diversità di situazioni tra insediamenti
esistenti ed insediamenti nuovi ed apparendo ragionevole che il
legislatore abbia concesso ai titolari dei primi un margine di tempo
entro cui adeguarsi alla nuova disciplina), sia in riferimento all’art.
32 della Costituzione (non potendosi disconoscere la tendenza della
norma in questione alla tutela della salute anche se entro certi
termini di tempo per il contemperamento di interessi contrastanti) sia,
infine, in riferimento all’art. 11, secondo inciso, della Costituzione
(poiché, a prescindere da ogni valutazione sulla rilevanza
nell’ordinamento giuridico italiano del documento CEE richiamato dal
pretore, non se ne comprenderebbe comunque l’attinenza all’obiettivo
della pace e giustizia fra le Nazioni, cui ha riguardo l’art. 11).
Ai formulati rilievi di illegittimità si sottrarrebbe, poi, anche
l’art. 15 della legge, sia quanto alla concessione del termine per la
richiesta di autorizzazione accordato agli insediamenti esistenti
(comma secondo, lett. a), “essendo nella prassi normale che il
legislatore dia al cittadino un termine ragionevole entro il quale
orientarsi per predisporre le determinazioni che gli competono”; sia
quanto alla previsione dell’autorizzazione provvisoria anche tacita
(commi ottavo e nono) che traduce “la prevalenza di certi interessi
rispetto ad altri che il legislatore ha posto a raffronto con risultati
non irrazionali”.
Analogamente infondate sarebbero le questioni sub art. 3 legge cit.
Quanto al comma terzo, perché il termine (può) ivi adoperato
intenderebbe “richiamare l’attenzione dell’operatore del diritto sul
fatto che la disciplina della materia può essere attuata anche al di
fuori della procedura legislativa” e non già significare che il
Comitato possa intervenire a suo criterio.
Quanto ai commi primo e secondo, poiché nulla vieterebbe al
legislatore ordinario di intervenire sulla materia più sollecitamente
qualora se ne presenti la necessità, “mentre appare ragionevole il
fatto che egli abbia vincolato all’osservanza di certi termini il
Comitato dei Ministri, al fine di evitare il rischio di ricorrenti
modifiche della normativa, che potrebbero risolversi in danni di non
scarso conto sugli interessi economici, non meno meritevoli di
attuazione”.
Completamente destituita di fondamento sarebbe infine anche l’ultima
sollevata questione sub artt. 21, 22, 23 legge cit., dacché – “a
prescindere dal fatto che con essa si prospetta un problema di politica
legislativa sul piano della critica ad una pretesa mancata previsione
di fattispecie che dovrebbe, ad avviso del pretore, essere penalmente
sanzionata” – non apparirebbe neppure esatta l’affermazione secondo la
quale non sarebbe prevista alcuna pena autonoma per il superamento dei
limiti di accettabilità indicati nelle tabelle allegate. Atteso che
l’art. 22 della legge in esame prevederebbe, invece, la fattispecie
criminosa costituita, appunto, della condotta di colui che effettui o
mantenga uno scarico senza osservare le prescrizioni indicate nel
provvedimento di autorizzazione.
1. – Il pretore di Padova, con decreto di citazione 17 marzo 1976,
aveva tratto in giudizio innanzi a sé Greggio Rino, Olivato Rina,
Leggio Giuliana, Baso Loris e Fidelio Corrado imputando loro di aver
violato in periodi precedenti al 13 e 20 marzo 1975 una serie di
disposizioni del codice penale, del testo unico delle leggi di P.S.,
del testo unico delle leggi sulla pesca, del testo unico delle leggi
sanitarie, del regolamento di bonificazione delle paludi.
Successivamente alla data di commissione dei fatti imputati e al
decreto di citazione veniva pubblicata la legge 10 maggio 1976, n. 319
(Norme per la tutela delle acque dall’inquinamento) la quale entrava in
vigore il 13 giugno dello stesso anno, e cioè nove giorni prima che il
pretore di Padova emanasse l’ordinanza con la quale ha chiamato
d’ufficio la Corte a pronunziarsi sulla legittimità costituzionale di
tutte quelle disposizioni della legge n. 319 che sono state indicate in
narrativa.
Il pretore sottopone pressoché l’intera legge a critica
serratissima, nella convinzione che la disciplina con essa introdotta
in sostituzione della normativa prima esistente, costituita da
molteplici disposizioni sia del codice penale sia di leggi speciali –
delle quali la giurisprudenza aveva fatto applicazione in materia di
repressione degli inquinamenti – fosse inidonea a salvaguardare il bene
costituzionalmente garantito della salute e si ponesse in contrasto con
altri principi costituzionali. In realtà il pretore, avendo chiamato
gli imputati a rispondere di fatti integranti la violazione di
determinate disposizioni legislative vigenti anteriormente alla legge
n. 319 del 1976, era venuto a trovarsi, al momento di pronunziare la
sentenza, di fronte all’ostacolo di due disposizioni della legge n. 319
appena entrata in vigore: quella dell’art. 26 (“Gli scarichi di cui
all’art. 1, lett. a, sono disciplinati esclusivamente dalla presente
legge. Sono pertanto abrogate tutte le altre norme che, direttamente o
indirettamente, disciplinano la materia degli scarichi sul suolo o nel
sottosuolo e del conseguente inquinamento. Restano in vigore le
disposizioni del codice penale in materia di delitti contro la vita,
l’incolumità personale e pubblica”), e inoltre quella dell’art. 25,
ultimo comma, (“Quando si verifichi l’osservanza delle norme e
prescrizioni di cui all’art. 15, secondo comma, lett. a e lett. b, ed
al presente articolo, non sono punibili i fatti connessi con
l’inquinamento delle acque di cui all’art. 1, lett. a, previsti come
reato da precedenti disposizioni di legge”).
2. – Il primo problema che il pretore doveva risolvere in sede
interpretativa consisteva dunque nello stabilire se alcune delle
imputazioni sulle quali era chiamato a giudicare sopravvivessero alle
disposizioni della nuova legge sopra richiamata. E il pretore lo
risolve in senso negativo, traendone la conseguenza che “non appare
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 26, comma primo, della legge, in quanto abroga le norme che
disciplinano la materia degli scarichi, senza prevedere sanzioni
sostitutive per i corrispondenti attentati al bene collettivo della
salute (art. 32 Cost.); e, inoltre, dell’art. 25, ultimo comma, della
legge stessa, in quanto limita gravemente la punibilità dei fatti di
inquinamento – ai quali risultino applicabili norme del codice penale,
segnatamente quelle poste a tutela della vita, della incolumità
personale o pubblica – escludendola nell’ipotesi di scarico autorizzato
(anche tacitamente) che, inoltre, non violi le prescrizioni delle
amministrazioni locali”.
La Corte è quindi chiamata a pronunziarsi innanzi tutto sulla
questione di legittimità relativa ai commi degli artt. 26 e 25 della
legge n. 319 soprariprodotti.
3. – Tale questione è stata recentemente affrontata dalla Corte
(sent. n. 226 del 1983) che ne ha dichiarato la non fondatezza, con
riferimento agli artt. 2, 3, 9 e 32 della Costituzione, allora invocati
nelle ordinanze di rimessione della Corte di cassazione e del pretore
di Vigevano.
Va innanzitutto precisato che il pretore di Padova ha, sì, nel
dispositivo dell’ordinanza di rimessione richiamato come parametri di
riferimento quanto alla denuncia dell’art. 26, comma primo, della
legge, gli artt. 3, comma primo, 32 e 11, secondo inciso, della
Costituzione, e quanto alla denuncia dell’art. 25, ultimo comma, della
legge, gli artt. 32,11, secondo inciso, e 101, comma secondo, della
Costituzione. Ma nella motivazione della pretesa illegittimità delle
due norme di legge il solo parametro invocato per la impugnativa
dell’art. 26 è l’art. 32 della Costituzione; mentre per la impugnativa
dell’art. 25 della legge, insieme con l’art. 32, viene invocato anche
l’art. 101 della Costituzione (non l’art. 11, secondo inciso, indicato
nel dispositivo).
Pertanto la Corte deve limitarsi ad esaminare le questioni
sottopostele, per quanto riguarda l’art. 26 della legge, soltanto con
riferimento all’art. 32 della Costituzione, e per quanto riguarda
l’art. 25, con riferimento ai soli artt. 32 e 101 della Costituzione.
Nella recente citata sentenza n. 226 del 1983 la Corte, come si è
detto, in riferimento, fra l’altro, all’art. 32 della Costituzione ha
dichiarato non fondate le questioni. “È ben vero – si legge nella
sentenza a conclusione dell’esame della questione – che la tutela della
salute implica ‘la promozione e la salvaguardia della salubrità e
dell’igiene dell’ambiente naturale di vita e di lavoro’, come ora è
chiarito dall’art. 2, primo comma, n. 5, della legge 23 dicembre 1978,
n. 833 (sull’istituzione del servizio sanitario nazionale). Ma non si
può certo affermare… che le norme impugnate, fingendo di tutelare
l’ambiente, finiscano in realtà per comprometterlo”.
Questo giudizio non può non essere confermato dalla Corte, non
riscontrandosi nella motivazione con la quale il pretore di Padova ha
denunciato la incostituzionalità degli artt. 26 e 25 della legge n.
319, con riferimento all’art. 32 della Costituzione, profili o
argomentazioni che inducano a mutare avviso.
4. – Né a tale risultato può indurre il riferimento all’art. 101
della Costituzione, sommariamente fatto dal pretore a proposito
dell’art. 25, ultimo comma, della legge n. 319, laddove esso prescrive
che “quando si verifichi l’osservanza delle norme e prescrizioni di cui
all’art. 15, secondo comma, lett. a e lett. b, ed al presente articolo,
non sono punibili i fatti connessi con l’inquinamento delle acque, di
cui all’art. 1, lett. a, previsti come reato da precedenti disposizioni
di legge”.
In sostanza, il pretore di Padova ritiene che la punibilità di un
reato non possa essere subordinata alla mancata osservanza delle “mere
formalità amministrative previste”, senza violare l’art. 101 della
Costituzione.
La questione della cosiddetta subordinazione della punibilità di
reati pregressi alla inosservanza delle prescrizioni dell’art. 15 e
dell’art. 25, primo comma, della legge, è stata già dichiarata priva
di fondamento dalla citata sentenza n. 226 del 1983 della Corte. “Si
intende – vi si legge – che il momento amministrativo è stato così
privilegiato – come si è detto in dottrina – rispetto al momento
repressivo, affidato ai giudici penali, ma questa scelta legislativa
non può ritenersi priva di giustificazioni. Nel sindacato sulla
legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 25,
ultimo comma, e 26, primo comma, non devono infatti trascurarsi la
considerazione del sistema normativo in cui tali disposti si
inseriscono e la valutazione complessiva delle finalità che la legge
n. 319 ha perseguito e tuttora persegue (malgrado i gravi ritardi
verificatisi in sede attuativa)”.
Ora se l’art. 25 è legge di per sé non in contrasto con gli altri
parametri costituzionali richiamati, non si può invocare contro di
esso – come fa il pretore di Padova – nemmeno l’art. 101 della
Costituzione, perché nell’applicare l’art. 25 il giudice rimane
appunto “soggetto soltanto alla legge”.
Dovendo la Corte, come innanzi rilevato, limitarsi ad esaminare le
questioni relative agli artt. 26 e 25 della legge con riferimento ai
soli parametri richiamati nella motivazione dell’ordinanza, le
osservazioni che precedono consentono di concludere per la non
fondatezza delle questioni.
5. – Alla dichiarazione di non fondatezza del dubbio di
illegittimità costituzionale degli artt. 26 e 25 della legge n. 319 si
accompagna la inammissibilità delle questioni relative agli artt. 13,
nn. 1 e 2, lett. a, 3, commi primo e secondo, 15, comma secondo, lett.
a, 15, commi ottavo e nono, 21, 22 e 23 della stessa legge, sollevate
dal pretore di Padova con riferimento a parametri vari.
Nessuna di queste norme doveva essere applicata nel giudizio nel
quale il pretore di Padova ha emanato l’ordinanza di rimessione. La
violazione di esse non era stata contestata agli imputati nel decreto
di citazione, né poteva essere contestata perché la legge che le
conteneva non era stata ancora pubblicata. Né quelle norme stabilivano
una diversa qualificazione giuridica dei fatti contestati, ma
costituivano e costituiscono ipotesi diverse di reato. Infine i nuovi
reati ipotizzati da quelle norme non avrebbero potuto ratione temporis
essere stati consumati o perfezionati quando il pretore emetteva
l’ordinanza di rimessione. Nella stessa ordinanza ciò è riconosciuto,
laddove si legge: “In sintesi ove le questioni sollevate venissero
riconosciute infondate, gli attuali imputati dovrebbero essere assolti
dalle imputazioni contravvenzionali perché il fatto non è preveduto
attualmente dalla legge come reato; e dalle imputazioni delittuose,
perché non punibili, in base all’art. 25 ultimo comma della legge:
ciò indipendentemente dalla circostanza di avere già presentato
domanda di autorizzazione in quanto, a tutt’oggi, il relativo termine
non è ancora scaduto”. In realtà tutte le censure e le critiche,
contenute nell’ordinanza, di norme della legge n. 319 diverse da quelle
degli artt. 26 e 25 hanno solo il valore di ulteriori argomenti a
sostegno della ritenuta illegittimità costituzionale dei detti artt.
26 e 25, in quanto alle sanzioni delle leggi precedenti abrogate o
dichiarate inapplicabili si sarebbe sostituito un sistema sanzionatorio
inidoneo a salvaguardare il bene della salute e non rispettoso di altri
precetti costituzionali.
Ma riconosciuta la legittimità degli artt. 26 e 25, il nuovo sistema
sanzionatorio entrato in vigore, come si è ricordato, il 13 giugno
1976 non poteva essere applicato a fatti compiuti nel marzo 1975 e
costituenti reati diversi da quelli contestati agli imputati.
6. – Del resto, conferma e ulteriori motivi di inammissibilità delle
questioni ora in esame, si ricavano dalle enunciazioni annesse.
L’art. 13, nn. 1 e 2, lett. a, della legge n. 319 è impugnato “nella
parte in cui concede, agli insediamenti produttivi esistenti, termini
di adeguamento degli scarichi alla allegata tabella C o,
rispettivamente, A, invece di prevederne la conformità immediata”. Si
chiede una anticipazione di operatività (del resto logicamente
impossibile) della sanzione penale. La Corte, cioè, e chiamata a
pronunziare un’additiva in materia penale. Il che non le è consentito.
L’art. 3, comma terzo, della legge n. 319 è impugnato nella parte in
cui stabilisce che “lo stesso Comitato dei Ministri può (invece che
deve) in ogni momento provvedere con decreto del Presidente della
Repubblica ad adeguare i valori dei limiti di accettabilità degli
scarichi di cui alle tabelle A e C della presente legge ai
corrispondenti valori definiti dalle apposite direttive della Comunità
Europea, qualora quest’ultimi valori risultino più restrittivi”. È
evidente la irrilevanza di una simile questione nel giudizio a quo;
l’adeguamento previsto riguardava il preteso rispetto alla legge n. 319
entrata in vigore il 13 giugno 1976: giudicando il 22 giugno 1976 su
fatti del marzo del 1975, il pretore di Padova non poteva proporsi
questioni di mancato adeguamento.
Queste considerazioni sono ancora più calzanti a proposito della
presunta illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi primo e
secondo, della legge n. 319, “nella parte in cui esclude che i limiti
della tabella A possano essere adeguati alle nuove acquisizioni
scientifiche e tecnologiche, prima di otto anni dall’entrata in vigore;
e, inoltre, esclude che eventuali ulteriori modifiche possano essere
apportate, se non ad intervalli di tempo superiori ai quattro anni”.
Qui c’è la conferma che il pretore di Padova nella sua contestazione
totale della legge n. 319, non si è voluto porre alcun limite di
rilevanza.
Ancora una conferma di ciò è evidenziata dalla censura di
illegittimità dell’art. 15, comma secondo, lett. a, della legge n. 319
“nella parte in cui accorda agli insediamenti produttivi esistenti, non
muniti di autorizzazione allo scarico, un termine per farne richiesta e
non pretende, invece, una domanda immediata”; e dall’art. 15, commi
ottavo e nono, della detta legge “nella parte in cui consente la
possibilità di una autorizzazione provvisoria allo scarico
indipendentemente dal rispetto attuale dei limiti indicati nella
tabella C e, rispettivamente, A; e inoltre prevede che tale
autorizzazione possa essere tacita, invece di sancire la necessità di
un’autorizzazione espressa e subordinata alla immediata osservanza
della corrispondente tabella”. Si tratta di norme – entrate in vigore
circa un anno e tre mesi dopo la commissione dei fatti – la cui
violazione di tutta evidenza non poteva essere e non era stata
contestata agli imputati; donde la loro evidentissima estraneità al
giudizio del pretore. E inoltre si chiederebbe sostanzialmente, anche
qui, un’anticipazione della decorrenza della sanzione, cioè, di nuovo,
un’additiva in materia penale non consentita alla Corte.
Infine, il pretore denunzia la illegittimità costituzionale degli
artt. 21, 22 e 23 della legge n. 319 per il fatto che – secondo la sua
interpretazione – “il superamento dei limiti di accettabilità
prescritti, a seconda dei casi, dalla tabella C o dalla tabella A, non
è previsto come autonoma figura di reato e, di per sé, non risulta
assoggettato a pena. Ciò indipendentemente dal fatto che si tratti di
scarico autorizzato oppure no” (punto VI della motivazione). Quindi il
giudice a quo chiede di istituire un'”autonoma figura di reato” che non
esisterebbe nella legge. Ancora una volta, e chiaramente, si tratta di
un’additiva in materia penale non consentita alla Corte.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 26, comma primo, della legge 10 maggio 1976, n. 319,
sollevata dal pretore di Padova, in riferimento all’art. 32 della
Costituzione con l’ordinanza 22 giugno 1976 (n. 602 del reg. ord. 1976)
di cui in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 25, ultimo comma, della stessa legge n. 319, sollevata, con
la medesima ordinanza, dal pretore di Padova con riferimento agli artt.
32 e 101, comma secondo, della Costituzione;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale,
sollevate dal pretore di Padova con la citata ordinanza, dell’art. 13,
nn. 1 e 2, lett. a, della stessa legge n. 319, con riferimento agli
artt. 3, comma primo, 32 e 11, secondo inciso, della Costituzione;
dell’art. 3, comma terzo, della stessa legge, con riferimento agli
artt. 32 e 11, secondo inciso, della Costituzione; dell’art. 3, commi
primo e secondo della stessa legge, con riferimento all’art. 32 della
Costituzione; dell’art. 15, comma secondo, lett. a, della stessa legge,
con riferimento agli artt. 3, comma primo e 32 della Costituzione;
dell’art. 15, commi ottavo e nono della detta legge, con riferimento
agli artt. 3, comma primo, 32 e 11, secondo inciso, della Costituzione;
degli artt. 21, 22 e 23 della detta legge, con riferimento agli artt.
32 e 11, secondo inciso, della Costituzione; dell’art. 26 della detta
legge con riferimento agli artt. 3, comma primo, e 11, secondo inciso,
della Costituzione; dell’art. 25 della detta legge con riferimento
all’art. 11, secondo inciso, della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 settembre 1983.
F.to: LEOPOLDO ELIA – MICHELE ROSSANO
– GUGLIELMO ROEHRSSEN – ORONZO REALE
– BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI –
ALBERTO MALAGUGINI – LIVIO PALADIN –
ARNALDO MACCARONE – ANTONIO LA
PERGOLA – VIRGILIO ANDRIOLI –
GIUSEPPE FERRARI – FRANCESCO SAJA –
GIOVANNI CONSO – ETTORE GALLO.
GIOVANNI VITALE – Cancelliere