Sentenza N. 313 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
25/07/1996
Data deposito/pubblicazione
25/07/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/07/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA,
prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare
MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott.
Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY,
prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
comma, lettera b) (recte: lettera a)), della legge 23 ottobre 1992,
n. 421 (Delega al governo per la razionalizzazione e la revisione
delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di
previdenza e di finanza statale), 2, commi secondo e quarto, 12,
commi secondo e quarto, 16, 17 e 20, primo comma, del decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione
dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della
disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2
della legge 23 ottobre 1992, n. 421), promosso con ordinanza emessa
il 5 luglio 1995 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sul
ricorso proposto da Fidei Giacomo ed altri contro il Presidente del
Consiglio dei Ministri, iscritta al n. 286 del registro ordinanze
1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14,
prima serie speciale, dell’anno 1996;
Visti gli atti di costituzione di Fidei Giacomo ed altri nonché
gli atti di intervento della C.G.I.L. – Confederazione generale
italiana del lavoro, della C.I. S.L. – Confederazione italiana
sindacato lavoratori – e della U.I.L. – Confederazione unione
italiana del lavoro – e del Presidente del Consiglio di Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 25 giugno 1996 il giudice relatore
Cesare Ruperto;
Uditi gli avvocati Federico Sorrentino e Massimo Luciani per Fidei
Giacomo ed altri, Sandro M. Carucci, Massimo D’Antona e Luigi
Fiorillo per la C.G.I.L. – C.I. S.L. – U.I.L. e l’Avvocato dello
Stato Ivo M. Braguglia per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
dirigenti o dirigenti superiori dell’amministrazione centrale e
periferica della Pubblica Istruzione – avevano richiesto
l’annullamento della circolare 4 marzo 1993 n. 6/1993 della
Presidenza del Consiglio dei Ministri (concernente indirizzi per la
fase di prima applicazione della nuova disciplina della dirigenza),
il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con ordinanza emessa
il 5 luglio 1995, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 97
della Costituzione – questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2, primo comma, lettera b) (recte: a)) della legge 23
ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la
revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico
impiego, di previdenza e di finanza statale) nonché degli artt. 2,
commi secondo e quarto, 12, commi secondo e quarto, 16, 17 e 20,
primo comma, del d.P.R. (recte: decreto legislativo) 3 febbraio 1993,
n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni
pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico
impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n.
421).
Premette il rimettente, in punto di rilevanza, che l’impugnata
circolare reca alcune disposizioni circa l’immediata applicabilità
del decreto legislativo n. 29 del 1993, idonee ad innovare lo stato
giuridico dei dirigenti dello Stato, in particolare condizionandone
complessivamente l’attività quanto alla organizzazione ed
all’esercizio delle funzioni; per cui il Tribunale amministrativo
regionale non potrebbe pronunciarsi sulla legittimità della
circolare stessa, se non tenendo conto delle norme oggetto della
censura.
Nel merito osserva il giudice a quo come, con l’art. 2 della legge
n. 421 del 1992, il governo sia stato delegato al riordino del
settore pubblico, mediante la prevista riconduzione alla disciplina
dettata dal codice civile dei rapporti di lavoro dei pubblici
dipendenti, mantenendosi nel contempo la vigente disciplina del
rapporto d’impiego solo per alcune categorie di personale quali i
magistrati, gli avvocati e procuratori dello Stato, i militari, il
personale delle forze di polizia, delle carriere diplomatiche e
prefettizie, nonché i “dirigenti generali ed equiparati”, cui ne
sono state successivamente aggiunte altre dal decreto legislativo n.
29 del 1993 attuativo della menzionata legge delega.
Secondo il Tribunale amministrativo regionale rimettente, l’art.
97 della Costituzione – col demandare alla legge la definizione delle
sfere di competenza, delle attribuzioni e delle responsabilità dei
funzionari – garantisce tanto l’autonomia di questi ultimi, quanto
l’imparzialità della amministrazione poiché, creando in favore dei
funzionari stessi una sfera di attribuzioni di cui essi sono
personalmente responsabili in tutta autonomia, pone la loro azione al
riparo dalle “esigenze contingenti degl’indirizzi politici di una
maggioranza espressione degli organi di governo”. Con tali premesse,
al giudice a quo non pare conciliabile la privatizzazione dei
dirigenti diversi dai dirigenti generali, soprattutto in ragione del
permanere, anzi dell’ampliarsi, dei loro poteri di rilevanza esterna
e perciò di natura pubblicistica. In particolare, un regime di
recedibilità caratterizzato dal venir meno del rapporto di fiducia
potrebbe rivelarsi pregiudizievole per l’indipendenza di giudizio dei
dirigenti, posto che, in àmbito privatistico, il dirigente è colui
che si sostituisce al datore di lavoro in alcune scelte decisionali.
Altrettanto potrebbe argomentarsi con riguardo all’affidamento a
nuclei di valutazione, anche esterni all’amministrazione, della
verifica dei risultati ottenuti. Le ampie attribuzioni assegnate ai
dirigenti, strumentali ad una puntuale soddisfazione dei pubblici
interessi, non sarebbero insomma garantite dall’inserimento del
rapporto nella contrattazione collettiva di diritto comune con la
conseguente perdita della “forte stabilità del rapporto d’impiego”.
Il Tribunale amministrativo regionale osserva poi, con riguardo
all’art. 3 della Costituzione, che la differenziazione tra le due
categorie, attesa l’unitarietà della dirigenza, appare irragionevole
ed arbitraria. Unica è infatti la responsabilità dirigenziale della
gestione e dei relativi risultati (ex art. 3, secondo comma, del
decreto legislativo n. 29 del 1993) ed unico è l’albo dei dirigenti.
La diversità di compiti affidati ai dirigenti generali esprimerebbe
soltanto una necessaria “articolazione” dell’unica carriera in due
livelli, di cui solo uno apicale, ma non potrebbe giustificare una
radicale differenziazione di stato giuridico.
Il rimettente si richiama quindi al principio di ragionevolezza,
osservando che se le garanzie implicate nel rapporto di pubblico
impiego sono state ritenute necessarie per i dirigenti generali, a
fortiori esse avrebbero dovuto essere assicurate anche agli altri
dirigenti, “in quanto le possibilità di condizionamento su di essi
da parte del potere politico sono ancora maggiori”.
Il giudice a quo individua infine un ulteriore profilo di
violazione del principio d’eguaglianza, in confronto con l’esclusione
dalla privatizzazione di una serie di categorie di personale,
adombrando altresì la violazione dell’art. 76 della Costituzione per
l’inserimento, tra quelle non privatizzate, di categorie non comprese
nella previsione della delega contenuta nell’art. 2 del decreto
legislativo n. 29 del 1993 (in particolare i dipendenti che svolgono
la loro attività nell’àmbito della tutela del credito e del
risparmio, della vigilanza sulle società e sulla borsa ed infine
sulla concorrenza ed il mercato).
2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso
per l’infondatezza della questione, in quanto l’autonomia e
l’indipendenza del pubblico funzionario non possono ritenersi
compromesse dalla privatizzazione del rapporto di lavoro, anche
considerando che “negli ultimi tempi” le differenze tra i due tipi di
rapporti sono andate nettamente affievolendosi.
Secondo l’Avvocatura, peraltro, la riconduzione del rapporto dei
dirigenti al diritto civile andrebbe circoscritta, quanto ad
operatività della contrattazione collettiva, “pressoché
esclusivamente alla sfera del trattamento economico”. Per il resto la
dirigenza risulterebbe sotto diversi aspetti legislativamente
disciplinata, mentre sarebbero stati mantenuti i profili di
responsabilità caratteristici della disciplina pregressa. Il
richiamo al diritto civile per quanto concerne le modalità di
cessazione del rapporto, oltre ad esprimere il senso di una
evoluzione di quest’ultimo, anche alla luce della soppressione delle
cause estintive già contenute nell’art. 2 della legge n. 93 del
1983, indicherebbe la ratio di una privatizzazione limitata alla
legge ma non estesa in modo generalizzato alla contrattazione
collettiva.
Pur dando atto della unitarietà della categoria dei dirigenti,
l’Autorità intervenuta ritiene che la diversificazione di funzioni e
di compiti ben possa giustificare una differenziazione di regime
giuridico anche sotto il profilo della fonte che disciplina il
rapporto.
Quanto all’eccesso di delega, l’Avvocatura, oltre a rilevare
l’omessa motivazione sub art. 76 della Costituzione, osserva che
l’impugnato art. 2, primo comma, lettera a) fa comunque “salvi i
limiti collegati al perseguimento degl’interessi generali cui
l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono
indirizzate”. In tale sfera rientrerebbero le tre categorie sopra
citate, in relazione alle quali non sarebbe possibile instaurare un
giudizio di comparazione, atteso che coloro che operano nel settore
del credito e del risparmio già non erano soggetti alla legge-quadro
sul pubblico impiego (ex art. 26 legge n. 93 del 1983).
3. – I ricorrenti si sono costituiti nel giudizio davanti a questa
Corte, preliminarmente osservando che la circolare impugnata davanti
al Tribunale amministrativo regionale determina la diretta e
immediata compromissione dei legittimi interessi dei ricorrenti
stessi, che “vedono cristallizzato dall’atto impugnato un trattamento
giuridico irragionevolmente differenziato rispetto a quello praticato
ai dirigenti generali”, sì che essa è direttamente applicativa
della normativa primaria impugnata, con la conseguente rilevanza
della questione.
Nel merito, a sostegno dell’illegittimità costituzionale, la parte
privata ricorda come la scelta di procedere alla privatizzazione
della dirigenza, dividendo la stessa in due tronconi, sia stata
operata dal legislatore trascurando i rilievi della dirigenza stessa,
ma soprattutto disattendendo le contrarie osservazioni mosse sul
punto al disegno di legge, poi presentato al Parlamento,
dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato nel parere del 31
agosto 1992. Premesso che non è qui in contestazione la ratio di
fondo della privatizzazione, bensì il circoscritto aspetto afferente
la dirigenza, che si chiede di ricondurre a coerenza interna, la
parte richiama le considerazioni di cui al citato parere, in
particolare là dove coglie il vulnus dell’art. 97 della
Costituzione, che si realizzerebbe nell’assoggettamento del rapporto
d’impiego dei dirigenti alla disciplina privatistica e nel
mantenimento contemporaneo, in capo ai medesimi, di numerosi poteri
di tipo pubblicistico. La distinzione tra organizzazione della p.a. e
rapporto di lavoro, valorizzata dalla scelta di privatizzare, non
avrebbe quindi un senso per le categorie titolari di una pubblica
potestas.
Ulteriore profilo di condizionamento dell’attività dei dirigenti
“privatizzati” sarebbe poi ravvisabile nel fatto che la verifica dei
risultati da questi ottenuti può essere affidata a nuclei di
valutazione composti da soggetti privati, così dimostrandosi
“l’illegittimo disconoscimento della differenza tra
un’amministrazione pubblica e una società per azioni”; e parimenti
violandosi l’art. 97 della Costituzione per l’omessa determinazione
dei parametri di valutazione.
La rottura del nesso tra garanzie di status dei funzionari pubblici
e garanzie d’imparzialità nell’esercizio delle loro funzioni sarebbe
altresì confermata dal fatto che la delicatissima materia
disciplinare viene interamente affidata alla contrattazione
collettiva.
Quanto ai profili di lesione dell’art. 3 della Costituzione, essi
sarebbero ravvisabili in una discriminazione tra dirigenti,
introdotta in una logica – ribadita anche dalla novella degli
impugnati artt. 16 e 17, introdotta dagli artt. 9 e 10 del d.lgs. 23
dicembre 1993, n. 546 – che presuppone invece l’unicità della
funzione dirigenziale, confermata dalla presenza di un unico albo,
che, per definizione, raggruppa figure omogenee. Sì che, anche se
non censurabile sotto il profilo della lesione del principio di
eguaglianza, la normativa de qua incorrerebbe nella violazione del
canone di ragionevolezza. Le garanzie legate al rapporto di
servizio, infatti, avrebbero dovuto essere mantenute per i dirigenti
generali a maggior ragione che per gli altri, proprio per la minor
forza della loro posizione giuridica.
Peraltro l’inclusione di altre categorie – citate in ordinanza –
tra quelle “salvate” dalla privatizzazione e dai conseguenti rischi
di condizionamento “getta una luce ancor più sinistra sul deteriore
trattamento riservato alla categoria dei dirigenti”, risolvendosi in
un irragionevole privilegio, dovuto alla cura d’interessi totalmente
privi di copertura costituzionale.
L’esclusione di tali categorie dalla privatizzazione concreterebbe
altresì la violazione della delega, anche se il parametro costituito
dall’art. 76 è citato soltanto nella motivazione dell’ordinanza di
rimessione.
4. – Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono altresì
costituite la C.G.I.L., la C.I. S.L. e la U.I.L., chiedendo di
essere ammesse a partecipare al presente giudizio di
costituzionalità. Ma, con ordinanza dibattimentale, l’intervento è
stato dichiarato inammissibile, non essendo state tali confederazioni
ritenute parti del giudizio principale o titolari di una situazione
giuridica soggettiva diretta e individualizzata, su cui il presente
giudizio possa incidere.
artt. 2, primo comma, lettera b) (recte: lettera a)) della legge 23
ottobre 1992, n. 421, e 2, commi secondo e quarto, 12, commi secondo
e quarto, 16, 17 e 20, primo comma, del decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29, nella parte in cui mantengono il rapporto
pubblicistico di servizio per i soli dirigenti generali e
privatizzano viceversa lo status degli altri dirigenti, violerebbero
gli artt. 97 e 3 della Costituzione
Per quanto concerne l’asserita lesione del primo dei parametri
evocati, il Tribunale rimettente ritiene che la “privatizzazione” dei
dirigenti (diversi da quelli generali) si porrebbe in contrasto con
l’art. 97 della Costituzione nella parte in cui quest’ultimo,
demandando alla legge la determinazione delle sfere di competenza,
delle attribuzioni e delle responsabilità dei funzionari, sarebbe
volto a garantire sia l’autonomia dei funzionari stessi, sia
l’imparzialità dell’amministrazione, per il fatto di sottrarre in
tal modo l’azione amministrativa alle indebite influenze dei
contingenti indirizzi politici degli organi di governo.
La violazione si concreterebbe, in particolare, nella previsione
d’un “regime di recesso dal rapporto di lavoro, incentrato nell’area
contrattualistica privata sul venir meno del rapporto di fiducia nei
confronti del dirigente”, e nell’affidamento a nuclei di valutazione,
anche esterni all’amministrazione, della verifica dei risultati
raggiunti. In proposito il rimettente esprime il dubbio che “il
novero di attribuzioni, ampie e significative, assegnate ai dirigenti
dall’art. 17 …, possa essere condizionato” da una tale scelta
legislativa, “non correlata esclusivamente all’imparziale ed
efficiente svolgimento delle attribuzioni stesse e non limitata da
una forte stabilità del rapporto d’impiego pubblico”.
Per quanto concerne la lesione dell’art. 3 della Costituzione, essa
viene prospettata sotto il profilo dell’irragionevolezza della
differenziazione del regime giuridico afferente al rapporto di lavoro
relativo a due categorie – quella dei dirigenti e quella dei
dirigenti generali – da considerare quali mere articolazioni interne
di una figura concepita come sostanzialmente unitaria. Tanto più
irragionevole apparirebbe tale differenziazione considerando che – a
séguito di essa – delle garanzie proprie del rapporto di impiego
pubblico, assicurate ai dirigenti generali, sarebbero privati gli
altri dirigenti, maggiormente esposti al condizionamento del potere
politico. In definitiva, secondo il giudice a quo, il nuovo assetto
colliderebbe con il principio della separazione tra amministrazione e
politica, ribadito anche dalla sentenza n. 68 del 1980 di questa
Corte.
Ulteriore profilo di contrasto con l’art. 3 della Costituzione
starebbe nella esclusione dalla privatizzazione imposta ai dirigenti,
di altre categorie di dipendenti pubblici (peraltro non indicate
nella legge di delega): esclusione non giustificabile, trattandosi di
soggetti pure esercenti funzioni riconducibili allo Stato e connotate
da un alto grado di imparzialità, senza peraltro essere dotate di
alcuna “copertura costituzionale”.
2. – Preliminarmente va confermata, nelle motivazioni e nelle
conclusioni, l’ordinanza dibattimentale con cui questa Corte ha
negato l’ammissibilità dell’intervento delle tre Confederazioni
sindacali C.G.I.L., C.I. S.L. e U.I.L.
3. – Nel merito va anzitutto precisato che, pur nell’imperfetta
identificazione delle norme ritenute lesive degli evocati parametri,
la sollevata questione è riconducibile all’unico thema decidendum
della legittimità costituzionale della duplicazione di regime
giuridico cui è stato assoggettato il rapporto di lavoro
dirigenziale. Restano pertanto estranei al presente giudizio, sia
ogni valutazione circa la ratio di fondo della privatizzazione del
rapporto di pubblico impiego, sia il tema dell’eccesso di delega, cui
infatti il rimettente fa cenno solo quale sintomo di irragionevolezza
della denunciata normativa.
Inammissibile, perché egualmente estranea all’oggetto del
giudizio, deve poi considerarsi l’impugnativa dell’art. 12, commi
secondo e quarto.
4. – Così circoscritta, la questione non è fondata.
4.1. – A partire dal nuovo ordinamento delle autonomie locali
(legge 8 giugno 1990, n. 142) e dalla riforma del procedimento
amministrativo (legge 7 agosto 1990, n. 241), il legislatore,
attraverso una molteplicità di interventi – quali, ad es., la
limitazione dei controlli preventivi -, si è indirizzato verso un
nuovo modello di organizzazione, vòlto ad alleggerire
progressivamente l’apparato amministrativo dal suo carico di vincoli
sostanziali e procedimentali.
In tale processo si inserisce la delega di cui alla legge n. 421
del 1992, incentrata sulla cosiddetta privatizzazione del pubblico
impiego. Una scelta, questa, diretta a valorizzare la distinzione tra
organizzazione della pubblica amministrazione, la cui disciplina
viene affidata in primo luogo alla legge, e rapporto di lavoro dei
pubblici dipendenti, tendenzialmente demandato allo strumento della
contrattazione collettiva (v. anche sentenza n. 88 del 1996). Il
decreto legislativo n. 29 del 1993, sia pure entro un quadro
strutturale della pubblica amministrazione rimasto sostanzialmente
inalterato, attua il disegno del legislatore delegante, abbandonando
il tradizionale statuto del pubblico impiego in favore della regola –
temperata da alcune eccezioni – del rapporto di lavoro subordinato
privato, ritenuta più idonea alla realizzazione delle esigenze di
flessibilità nella gestione del personale sottese alla riforma.
Flessibilità, vista come strumentale ad assicurare il buon andamento
dell’amministrazione, salvi peraltro restando i limiti collegati al
perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e
l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate (v. art. 2,
primo comma, lettera a), della legge n. 421 del 1992). In questo
quadro, la legge, in vista del rispetto anche degli altri princìpi
posti dal medesimo art. 97 della Costituzione, non rinuncia tuttavia
a disciplinare nel merito – e sovente non soltanto con norme di mero
principio – numerosi aspetti dei rapporti privatizzati più
strettamente legati a profili organizzativi dell’attività
dell’amministrazione: tra i quali, in particolare, quelli concernenti
la dirigenza.
La disciplina della dirigenza non può essere avulsa dal
complessivo sistema instaurato con la riforma, per isolare il solo
aspetto della diversità di regimi giuridici cui sono assoggettati i
dirigenti generali da un lato e gli altri dirigenti dall’altro. Una
consimile unilaterale prospettazione – che è quella ricavabile
dall’ordinanza di rimessione – cristallizzerebbe infatti il tema in
termini di status e non coglierebbe viceversa l’aspetto
dinamico-funzionale dell’attuale collocazione della dirigenza.
4.1.1. – Una diversificazione del regime del rapporto – con
duplicazione della relativa fonte – non rappresenta di per sé un
pregiudizio per l’imparzialità del dipendente pubblico, posto che
per questi (dirigente o no) non vi è – come accade per i magistrati
– una garanzia costituzionale di autonomia da attuarsi
necessariamente con legge attraverso uno stato giuridico particolare
che assicuri, ad es., stabilità ed inamovibilità.
Vero è invece che la scelta tra l’uno e l’altro regime resta
affidata alla discrezionalità del legislatore, da esercitarsi in
vista della più efficace ed armonica realizzazione dei fini e dei
princìpi che concernono l’attività e l’organizzazione della
pubblica amministrazione. In particolare, il corretto bilanciamento
tra i due termini dell’art. 97 della Costituzione, imparzialità e
buon andamento, può attuarsi – e tanto è avvenuto con la normativa
in esame – riservando alla legge una serie di profili ordinamentali;
sì che, per converso, risultino sottratti alla contrattazione tutti
quegli aspetti in cui il rapporto di ufficio implica lo svolgimento
di compiti che partecipano del momento organizzativo della pubblica
amministrazione.
Ai dirigenti non generali l’impugnato decreto legislativo riserva
infatti, come garantita, solo un’area del tutto peculiare di
contrattazione, che limita lo spazio negoziale pressoché
esclusivamente al trattamento economico e che comunque non incide
sugli aspetti ordinamentali e funzionali della dirigenza.
Inoltre, mancando ancora una concreta attuazione dell’art. 46 del
citato decreto legislativo, deve escludersi, allo stato, che il
combinato disposto degli artt. 59, terzo comma, e 20, primo comma,
consenta di introdurre – come invece paventato dalle parti private –
una regolamentazione contrattuale della responsabilità disciplinare
dei dirigenti. Salva quindi una successiva verifica di tale aspetto,
sempre possibile nel futuro, deve rilevarsi come la disciplina del
rapporto de quo risulti – e ne sia strutturalmente caratterizzata –
dalla contemporanea esistenza di più fonti regolatrici, venendosi a
collocare a metà strada fra il modello pubblicistico e quello
privatistico: ciò in coerenza, da un lato, con la posizione apicale
propria di tale categoria rispetto al complesso del personale, più
nettamente privatizzato, e, dall’altro lato, con il ruolo di cerniera
tra indirizzo politico ed azione amministrativa che le è assegnato
nel rapporto con la funzione di governo.
D’altronde, è appena il caso di rammentare che l’applicabilità al
rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni
previste dal codice civile comporta non già che la pubblica
amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma
semplicemente che la valutazione dell’idoneità professionale del
dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo
– assistite da un’ampia pubblicità e dalla garanzia del
contraddittorio -, a conclusione delle quali soltanto può essere
esercitato il recesso.
4.1.2. – Conclusivamente, deve quindi escludersi il prospettato
vulnus all’art. 97 della Costituzione. In particolare va ribadito che
il valore dell’imparzialità può essere in astratto – e viene dalla
normativa in esame – non irrazionalmente integrato con quello
dell’efficienza: essendo da ritenere che l’imparzialità stessa non
debba essere garantita necessariamente nelle forme dello statuto
pubblicistico del dipendente, ben potendo viceversa trovare
attuazione – come nel caso di specie – in un equilibrato dosaggio di
fonti regolatrici.
4.2. – Da escludere è anche la violazione dell’art. 3 della
Costituzione, sia sotto il profilo dell’irragionevolezza della
dicotomia di regime operata dal legislatore all’interno di una
categoria unitaria come sarebbe quella dei dirigenti, sia sotto
quello della disparità di trattamento rispetto agli stessi dirigenti
generali e ad altre diverse categorie di personale, non assoggettate
al regime privatistico.
4.2.1. – Nell’a’mbito della dirigenza, il quadro delle attribuzioni
è tracciato dagli artt. 3, secondo comma, 16 e 17 del decreto
legislativo n. 29 del 1993, secondo uno schema così riassumibile:
formulazione delle proposte, adozione dei progetti, assegnazione
delle risorse, gestione, attuazione e verifica dei risultati. Ma solo
ai dirigenti generali competono, fra tali funzioni, quelle che –
siccome di attribuzione e d’impulso – sono più direttamente
raccordabili all’attività politica di definizione degli obiettivi,
secondo la previsione di cui alle lettere a) e b) del citato art. 16.
Tale contiguità con l’Esecutivo individua dunque una collocazione
del tutto peculiare dei dirigenti generali, la quale trova riscontro
nella norma di accesso alla relativa qualifica, che non consegue ad
un ordinario sviluppo di carriera, bensì ad un reclutamento basato
su una scelta largamente discrezionale entro gli ampi limiti
tracciati dall’art. 21 (che ammette anche la nomina in favore di
soggetti estranei alla pubblica amministrazione). Laddove gli altri
dirigenti – provenienti tutti dal personale inferiore, secondo una
normale progressione di carriera, basata su criteri di merito e
anzianità – operano in spazi predeterminati e con attività
prevalentemente di gestione, essendo solo eventuale la loro
partecipazione ai processi di determinazione degli àmbiti di
organizzazione e delle risorse. Sì da potersi affermare che si è
ormai passati a una terza formula normativa della dirigenza pubblica,
diversa non solo da quella di antico stampo, caratterizzata da una
rigida gerarchia fra Ministro e dirigenti, ma anche da quella
successiva, sperimentata col d.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, che era
stata costruita come ordine di qualifiche e funzioni con
legittimazione autonoma nel quadro della carriera direttiva. Insomma
il distacco fra dirigenti e dirigenti generali s’è accentuato
notevolmente, finendo questi ultimi con l’essere conformati quale
raccordo tra potere politico e comune dirigenza, la cui attività
essi “verificano e controllano… anche con potere sostitutivo in
caso d’inerzia” (v. lettera h) del citato art. 16).
Risulta allora evidente, ai fini che qui interessano, come non
siano confrontabili le rispettive posizioni e come, in ogni modo, sia
giustificabile la denunciata diversità di regimi; la quale,
d’altronde, anche sulla base delle anzidette considerazioni in tema
di contrattazione, finisce per essere assai meno marcata di quanto
sembra ritenere il rimettente. A riguardo può anche osservarsi che
il meccanismo di valutazione dei risultati ex art. 20 è comune ad
entrambe le categorie, residuando una sostanziale differenza –
peraltro coerente con le due matrici, pubblicistica e codicistica,
delle situazioni soggettive – soltanto con riguardo, da un lato, alla
messa a disposizione e, dall’altro, alla risoluzione del rapporto.
L’unitarietà della dirigenza – su cui molto insiste il giudice a
quo – resta dunque un concetto accettabile solo se riferito agli
indubbi elementi di omogeneità professionale che sono ravvisabili
fra tutti i dirigenti, e che sono espressi dall’iscrizione ad un
unico albo; come tale, non suscettibile di essere assunta a valore
assoluto o considerata teleologicamente connessa con l’art. 97 della
Costituzione.
4.2.2. – Ancor meno confrontabile risulta poi la posizione dei
dirigenti non generali con quella delle altre categorie di personale
di cui all’art. 2, quarto comma, del decreto legislativo n. 29 del
1993.
Ciò appare evidente per quanto concerne i magistrati ed
assimilati, i militari, i professori universitari, i diplomatici ed
il personale della carriera prefettizia: categorie, ognuna delle
quali esprime una propria ed evidente specificità rispetto alla
dirigenza in esame. Per quanto riguarda invece i dipendenti che
svolgono le loro attività nell’a’mbito della tutela del credito e
del risparmio, della vigilanza sulle società e sulla borsa e infine
sulla concorrenza ed il mercato, basta qui rilevare che la loro
sottrazione alla privatizzazione non implica affatto l’applicazione
dello statuto del pubblico impiego, ma rappresenta solo la presa
d’atto di come per essi siano già in essere moduli proprii,
fortemente caratterizzati da elementi privatistici in correlazione
con l’autonomia su cui le Autorità indipendenti fondano la loro
presenza nell’ordinamento: autonomia, che non può non riflettersi
anche sul momento conformativo del rapporto di lavoro del personale.
Relativamente poi in particolare ai dipendenti degli istituti per il
credito e il risparmio, è appena il caso di rammentare che essi
erano stati già espressamente esclusi dalla disciplina della legge
quadro del pubblico impiego (v. art. 26 della legge 29 marzo 1983, n.
93).
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 2, primo comma, lettera a), della legge 23 ottobre 1992,
n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione
delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di
previdenza e di finanza statale), 2, commi secondo e quarto, 16, 17 e
20, primo comma, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29
(Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni
pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico
impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421),
sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal
Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con l’ordinanza di cui
in epigrafe;
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 12, commi secondo e quarto, del decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle
amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di
pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n.
421), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione,
dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con l’ordinanza di
cui in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Ruperto
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 25 luglio 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola