Sentenza N. 32 del 1965
Corte Costituzionale
Data generale
23/04/1965
Data deposito/pubblicazione
23/04/1965
Data dell'udienza in cui è stato assunto
08/04/1965
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO – Prof. ANTONINO PAPALDO – Prof. NICOLA JAEGER
– Prof. BIAGIO PETROCELLI – Prof. ALDO SANDULLI – Prof. GIUSEPPE BRANCA
– Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE
CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO, Giudici,
terzo comma, della legge 4 aprile 1952, n. 218, dell’art. 16 del D.L.L.
19 novembre 1945, n. 788, e dell’art. 24 del R.D. 17 giugno 1937, n.
1048, promossi con due ordinanze emesse il 18 marzo 1964 dal Pretore di
Siracusa nei procedimenti penali a carico di Santuccio Rodolfo e di
Giannetto Salvatore, iscritte ai nn. 103 e 104 del Registro ordinanze
1964 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 157 del
27 giugno 1964.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell’udienza pubblica del 17 marzo 1965 la relazione del
Giudice Giuseppe Branca;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
1. – Nel corso d’un procedimento penale, apertosi a carico del sig.
Rodolfo Santuccio, il Pretore di Siracusa ha emesso il 18 marzo 1964
un’ordinanza di rinvio alla Corte costituzionale denunciando gli artt.
23, terzo comma, della legge 4 aprile 1952, n. 218; 16 del D.L.L. 19
novembre 1945, n. 788; 24 del R.D. 17 giugno 1937, n. 1048:
disposizioni che puniscono con un’ammenda chi, datore di lavoro o
preposto al lavoro, rifiuti di prestarsi alle indagini di funzionari ed
agenti, incaricati della sorveglianza, o di fornir loro dati e
documenti necessari all’applicazione d’altre norme contenute in quelle
leggi.
Secondo l’ordinanza, queste disposizioni contrastano con l’art. 13
della Costituzione, che “sancisce la inviolabilità della libertà
personale” salvo “atto motivato dell’autorità giudiziaria”: infatti
esse coartano la volontà del cittadino obbligandolo, sotto la minaccia
d’una pena, a collaborare coi funzionari e con gli agenti che conducono
indagini a suo danno; la legge ordinaria non può colpire con sanzioni
penali chi, non volendo prestarsi ad accertamenti svolti contro di lui,
difende la stessa inviolabilità della propria persona: un tale
comportamento omissivo tutt’al più potrebbe essere sottoposto a
congrue sanzioni civili.
Un’analoga denuncia, contemporaneamente, lo stesso Pretore di
Siracusa ha avanzato nel corso d’un altro procedimento penale apertosi
a carico del signor Salvatore Giannetto: essa è diretta contro due
delle tre disposizioni impugnate nell’altra ordinanza (artt. 23, terzo
comma, della legge 4 aprile 1952, n. 218 e 24 del R.D. 17 giugno 1937,
n. 1048).
Le due ordinanze sono state ritualmente notificate e pubblicate.
2. – Il Presidente del Consiglio dei Ministri è intervenuto, a
mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, in tutt’e due le cause, con
deduzioni che sono state depositate contemporaneamente il 9 luglio
1964.
L’Avvocatura dello Stato premette che l’art. 13 della Costituzione
tutela specificatamente ed esclusivamente la persona fisica del
cittadino; rileva come tutto ciò non abbia niente da spartire con le
ispezioni che, a scopi economici e fiscali, possono e devono essere
disciplinate con legge (art. 14 della Costituzione), e con le
prestazioni personali, che possono e devono essere disciplinate pur
esse con legge (art. 23 della Costituzione); ricorda che le norme
denunciate si limitano a sanzionare penalmente l’obbligo imposto ai
datori di lavoro di “fornire i dati e i documenti” necessari per
l’applicazione di leggi di previdenza: quest’obbligo dunque, si
giustifica con la finalità pubblica d’uno svolgimento regolare del
rapporto di lavoro e del rapporto previdenziale, che sono anzi
costituzionalmente tutelati; d’altra parte quei dati e quei documenti,
secondo l’Avvocatura dello Stato, non si riferiscono alla sfera
personale del datore di lavoro, ma alla sua attività imprenditoriale
che è attività di interesse comune e di rilievo pubblico; né, per
chiunque non sia imputato, esiste nel nostro ordinamento un diritto a
rifiutare una risposta che potrebbe incriminarlo, cioè, nel caso, un
diritto a non fornire elementi che potrebbero tradursi in suo danno.
L’Avvocatura, che ha depositato anche una breve memoria
illustrativa il 4 marzo 1965, conclude chiedendo il rigetto della
questione di legittimità costituzionale.
1. – Le due cause, avendo per oggetto le stesse questioni di
legittimità costituzionale, vengono decise con unica sentenza.
2. – Le ordinanze di rinvio denunciano gli artt. 23, terzo comma,
della legge 4 aprile 1952, n. 218; 16 del D.L.L. 9 novembre 1945, n.
788; 24 del R.D. 17 giugno 1937, n. 1048: essi, obbligando il
cittadino, sotto la minaccia d’una sanzione penale, a fornire dati e
documenti in proprio danno, coarterebbero la volontà della persona,
cioè quella sua libertà di autodeterminazione che sarebbe sicuramente
tutelata dall’art. 13 della Costituzione.
La questione è infondata.
Le norme impugnate fanno parte di leggi che, per scopi di
previdenza e di integrazione dei salari, impongono determinati obblighi
ai datori di lavoro. Tali leggi hanno attribuito a funzionari o ad
agenti, appositamente preposti o incaricati, il compito di sorvegliare
le imprese perché siano adempiuti quegli obblighi e di raccogliere
dati e documenti necessari all’attuazione dei fini previdenziali e
retributivi. Inoltre il legislatore ha ritenuto, giustamente, che lo
svolgimento di questo compito richieda la collaborazione di chi
risponde dinanzi alla legge dell’attività dell’impresa e perciò gli
ha imposto quel comportamento positivo che forma oggetto delle norme
impugnate (egli si deve prestare alle indagini condotte da funzionari
ed agenti e deve fornire quei dati e quei documenti).
In tal modo la libertà della persona non risulta vincolata né
più né meno di quanto lo sia per effetto di una qualunque altra norma
precettiva; e il vincolo consiste in un obbligo specifico, d’estensione
limitata, suggerito da motivi di interesse generale e previsto
espressamente dalla legge. La violazione di questo obbligo, data la sua
gravità, costituisce reato ed è punita con ammenda.
Le norme impugnate, pertanto, non consentono all’Amministrazione di
colpire la libertà fisica della persona: infatti non attribuiscono a
funzionari o ad agenti poteri di costrizione materiale del cittadino;
né annullano la libertà psichica o morale, la personalità,
dell’individuo, poiché piuttosto lo costringono soltanto e
saltuariamente a collaborare con un’attività di Controllo resa
necessaria da precise esigenze pubbliche: il legislatore non punisce
il rifiuto del datore di lavoro di “fornire elementi in proprio danno”,
come ritiene invece l’ordinanza di rinvio; ma il rifiuto di aderire a
indagini e a richieste dalle quali dipende l’attuazione della legge
previdenziale o retributiva (poco importa poi se da esse può
discendere inoltre l’accertamento di eventuali inadempienze dello
stesso datore di lavoro).
In conclusione l’art. 13 della Costituzione non risulta neanche
sfiorato (v. da ultimo sentenza n. 30 del 1962 della Corte
costituzionale).
LA CORTE COSTITUZIONALE
riunite le due cause, dichiara non fondata, in riferimento all’art.
13 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 23, terzo comma, della legge 4 aprile 1952, n. 218; 16 del
D.L. L. 9 novembre 1945, n. 788; 24 del R.D. 17 giugno 1937, n. 1048,
proposta con le ordinanze citate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’8 aprile 1965.
GASPARE AMBROSINI – GIUSEPPE CASTELLI
AVOLIO – ANTONINO PAPALDO – NICOLA
JAEGER – BIAGIO PETROCELLI – ALDO
SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA – MICHELE
FRAGALI – COSTANTINO MORTATI –
GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE VERZÌ
– GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI –
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO.