Sentenza N. 321 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
30/10/1997
Data deposito/pubblicazione
30/10/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
16/10/1997
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI;
comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle
disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello
Stato), promosso con ordinanza emessa il 22 marzo 1996 dal Consiglio
di Stato sul ricorso proposto dall’Azienda unità locale
socio-sanitaria n. 19 (ora 15) del Veneto contro Lia Pistore ved.
Tosto, iscritta al n. 948 del registro ordinanze 1996 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie
speciale, dell’anno 1996;
Visti gli atti di costituzione dell’Azienda unità locale
socio-sanitaria n. 15 del Veneto e di Lia Pistore ved. Tosto nonché
l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 6 maggio 1997 il giudice relatore
Cesare Mirabelli;
Uditi gli avvocati Luigi Manzi per l’Azienda unità locale
socio-sanitaria n. 15 del Veneto, Giuseppe Cultrera per Lia Pistore
ved. Tosto e l’avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente
del Consiglio dei Ministri.
giudizio promosso dalla vedova di un medico, dipendente di una unità
sanitaria locale, per ottenere l’equo indennizzo per la morte del
coniuge dovuta a causa di servizio, il Consiglio di Stato ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo
comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 68, ottavo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo
unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati
civili dello Stato), nella parte in cui prevede l’equo indennizzo a
favore dei familiari superstiti, o degli eredi, dell’impiegato
deceduto per causa di servizio, in seguito ad un evento dal quale sia
conseguita la morte senza soluzione di continuità con l’evento
menomante.
Il Consiglio di Stato precisa che la disposizione denunciata si
applica non solo agli impiegati statali, ma anche ai dipendenti delle
unità sanitarie locali, giacché la disciplina del loro stato
giuridico prevede che in materia di infermità dipendenti da causa di
servizio e per gli accertamenti relativi operano le norme in vigore
per i dipendenti civili dello Stato (art. 48 del d.P.R. 20 dicembre
1979, n. 761), le quali regolano le modalità e le procedure di
concessione dell’equo indennizzo, la cui misura è invece stabilita
dall’accordo nazionale unico, stipulato con le organizzazioni
sindacali del comparto (art. 30 dello stesso d.P.R. n. 761 del 1979).
Il giudice rimettente ricorda che l’istituto dell’equo indennizzo
ha avuto origine dall’evoluzione della disciplina della
risarcibilità del danno alla persona, subito dal pubblico impiegato
a causa dell’esercizio delle sue funzioni. Inizialmente l’impiegato
statale, divenuto inabile a prestare servizio per le ferite riportate
o per le infermità contratte a cagione dell’esercizio delle sue
funzioni, aveva esclusivamente diritto ad essere collocato a riposo
ed a conseguire la pensione privilegiata, qualunque fosse la sua età
e la durata del servizio, senza percepire altro risarcimento (secondo
la disciplina degli artt. 16 e ss. e 100 e ss. del testo unico delle
pensioni civili e militari approvato con r.d. 21 febbraio 1895, n. 70
e dell’art. 1 del r.d.-l. 6 febbraio 1936, n. 313, convertito nella
legge 28 maggio 1936, n. 1126).
Le norme che escludevano ogni risarcimento, o rendevano meramente
apparente l’indennizzo, per eventi lesivi di cui l’impiegato fosse
stato vittima, sono state dichiarate costituzionalmente illegittime,
in riferimento agli artt. 3 e 28 della Costituzione (sentenza n. 1
del 1962), perché esoneravano da responsabilità la pubblica
amministrazione e determinavano una disparità di trattamento tra il
privato che fosse vittima di un fatto colposo imputabile
all’amministrazione ed il dipendente statale vittima dello stesso
fatto.
Ma già l’art. 68 dello statuto degli impiegati civili dello Stato
(d.P.R. n. 3 del 1957) aveva introdotto l’equo indennizzo per la
perdita dell’integrità fisica eventualmente subita dall’impiegato,
quando l’infermità sia riconosciuta dipendente da causa di servizio.
Tale indennizzo che per un verso include anche le menomazioni non
imputabili a responsabilità dell’amministrazione e, per altro verso,
non esclude che si possa chiedere il risarcimento dei danni dovuti a
colpa dell’amministrazione coprirebbe rischi corrispondenti a quelli
ai quali, nel settore privato, si riferisce l’assicurazione
obbligatoria per gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali.
Il giudice rimettente sottolinea che l’equo indennizzo costituisce
il ristoro di una inabilità parziale, compatibile con il servizio, e
quindi un diritto proprio dell’impiegato. La corresponsione
dell’indennizzo ai superstiti, quando la conseguenza dell’evento
lesivo sia la morte del dipendente statale, non è prevista
espressamente. Tuttavia l’interpretazione giurisprudenziale
consolidata e la costante prassi amministrativa ritengono l’equo
indennizzo dovuto anche per l’evento mortale, che segua senza
soluzione di continuità alla menomazione, considerando la morte come
perdita dell’integrità fisica nel massimo grado.
Il cumulo tra equo indennizzo e pensione privilegiata per i
superstiti determinerebbe, in violazione dell’art. 3, primo comma,
della Costituzione, una irragionevole disparità di trattamento con i
lavoratori privati, nei cui confronti non è ammesso il cumulo tra
pensione privilegiata e rendita per l’infortunio sul lavoro (art. 12
della legge 21 luglio 1965, n. 903). L’ingiustificato privilegio per
i superstiti dei pubblici dipendenti sarebbe aggravato
dall’interpretazione giurisprudenziale che esclude, per essi, la
riduzione dell’equo indennizzo prevista, invece, quando la pensione
privilegiata venga attribuita direttamente al dipendente (art. 50 del
d.P.R. 3 maggio 1957, n. 686).
La disciplina denunciata contrasterebbe anche con l’art. 38,
secondo comma, della Costituzione. Ad avviso del giudice rimettente
la garanzia, per i lavoratori, del diritto a mezzi adeguati alle
esigenze di vita in caso di infortunio, malattia o invalidità, può
essere violata anche “per eccesso”, quando in capo ad uno stesso
soggetto e per uno stesso evento si cumulano più trattamenti
concepiti in funzione della copertura di rischi diversi. Tale cumulo
determinerebbe, inoltre, un maggior onere per le finanze pubbliche,
che, in presenza di risorse necessariamente limitate, sottrarrebbe i
mezzi finanziari per l’adeguata copertura di analoghi rischi di altri
soggetti.
2. – Si è costituita dinanzi alla Corte la ricorrente nel giudizio
principale, per chiedere che la questione sia dichiarata non fondata,
sottolineando, in particolare, che equo indennizzo e pensione
privilegiata rispondono a finalità diverse. Il primo sarebbe diretto
a riparare il danno prodotto da una menomazione fisica, dipendente da
causa di servizio, nell’ulteriore vita di relazione del pubblico
impiegato, indipendentemente dalla continuazione del rapporto di
servizio. La pensione, invece, avrebbe sempre carattere retributivo,
venendo corrisposta per il servizio prestato. Il danno cui fa fronte
l’equo indennizzo non verrebbe riparato dalla pensione privilegiata,
caratterizzata dall’essere liquidata nella misura massima quando il
servizio prestato dia già titolo, come nel caso oggetto del
giudizio, alla pensione ordinaria nella misura massima. Non si
potrebbe, quindi, affermare che la pensione copra lo stesso rischio
dell’equo indennizzo.
3. – Si è costituita in giudizio anche l’Azienda unità locale
socio-sanitaria n. 15 del Veneto (Cittadella-Padova), parte già
costituita nel giudizio principale, aderendo alle argomentazioni
svolte nell’ordinanza di rimessione e sostenendo, nell’atto di
costituzione ed in una memoria depositata in prossimità
dell’udienza, la fondatezza della questione di legittimità
costituzionale.
In particolare il diritto all’equo indennizzo compenserebbe la
menomazione dell’integrità fisica subita dal dipendente a causa del
servizio e non potrebbe sorgere, quindi, a titolo originario in capo
agli eredi, i quali potrebbero pretenderne la corresponsione solo se
il diritto facesse parte del patrimonio del dipendente deceduto.
Sarebbe, quindi, dubbia la stessa configurabilità dell’indennizzo,
quando non intercorra un apprezzabile intervallo temporale tra la
lesione o la menomazione e la morte. In ogni caso, attribuire tale
indennizzo anche ai superstiti dell’impiegato deceduto sarebbe privo
di razionale giustificazione e determinerebbe una situazione di
privilegio per gli eredi dei pubblici dipendenti, rispetto agli altri
cittadini cui non è riconosciuto lo stesso vantaggio. La duplicità
di prestazioni, per il medesimo evento, finirebbe anche con il
sottrarre risorse finanziarie pubbliche, necessarie per la copertura
dei medesimi rischi di altri soggetti.
4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Ad avviso dell’Avvocatura non sarebbe possibile alcuna valutazione
dell’asserita violazione del principio di eguaglianza, giacché
l’ordinanza di rimessione non ha indicato la normativa da assumere
come elemento di comparazione.
Quanto alla denunciata violazione dell’art. 38 della Costituzione,
la corresponsione di una equa indennità ai superstiti in caso di
decesso del dipendente costituirebbe la logica e naturale estensione
all’intero nucleo familiare del principio di solidarietà posto a
base della previdenza sociale.
disciplina dell’equo indennizzo per la perdita dell’integrità fisica
eventualmente subita dall’impiegato dello Stato a seguito di
infermità dipendenti da causa di servizio. Il Consiglio di Stato
considera l’art. 68, ottavo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3
(Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli
impiegati civili dello Stato), che disciplina questo istituto, da
applicare anche ai dipendenti delle unità sanitarie locali, per
effetto del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del
personale delle unità sanitarie locali), che rinvia alle norme
vigenti per i dipendenti dello Stato in materia di infermità
dipendenti da causa di servizio e per la concessione dell’equo
indennizzo (artt. 48 e 49).
Lo stesso giudice ritiene che l’equo indennizzo, espressamente
previsto solo per le menomazioni dell’integrità fisica, comprenda
anche l’evento mortale che segua senza soluzione di continuità alla
menomazione stessa, giacché l’interpretazione giurisprudenziale da
tempo consolidata e la costante prassi amministrativa – che il
giudicerimettente, pur manifestando riserve, ritiene di non poter
contrastare – considerano la morte come perdita dell’integrità
fisica in massimo grado. In caso di morte l’equo indennizzo verrebbe
a cumularsi, in capo ai familiari superstiti dell’impiegato deceduto
per causa di servizio, con la pensione privilegiata che sarebbe
dovuta per il medesimo evento, sicché si determinerebbe:
a) la violazione dell’art. 3, primo comma, della Costituzione,
perché la corresponsione dell’equo indennizzo rappresenterebbe un
irragionevole privilegio ed una disparità di trattamento in favore
dei pubblici dipendenti rispetto ai lavoratori del settore privato,
per i quali sarebbe vietato il cumulo tra rendita per infortunio sul
lavoro e pensione privilegiata;
b) la violazione dell’art. 38, secondo comma, della Costituzione,
perché la protezione accordata con l’equo indennizzo eccederebbe la
necessità di copertura del rischio protetto, attribuendo per un
medesimo evento ed in capo allo stesso soggetto più prestazioni a
carico delle finanze pubbliche, con la conseguenza che, essendo
limitate le risorse disponibili, potrebbero non essere adeguatamente
coperti i medesimi rischi per altri soggetti.
2. – La questione, nei termini in cui è stata proposta, non è
fondata.
Il dubbio di legittimità costituzionale riguarda esclusivamente la
corresponsione dell’equo indennizzo ai familiari, eredi del
dipendente pubblico deceduto a seguito di infortunio derivante da
causa di servizio, ai quali sia attribuita anche la pensione
privilegiata di reversibilità; non si estende, quindi, alla mancata
previsione della riduzione dell’ammontare dell’indennizzo, effettuata
invece quando al dipendente infortunato sia corrisposta la pensione
privilegiata.
3. – Il diritto all’equo indennizzo per la menomazione
dell’integrità fisica viene riconosciuto anche in caso di morte,
considerando che la menomazione non è necessariamente correlata alla
capacità lavorativa e che il diritto all’indennizzo, dovuto per
legge, sorge nel momento stesso in cui si manifesta la perdita
dell’integrità fisica; momento che necessariamente precede la morte
dell’infortunato, giacché il decesso presuppone l’infermità, anche
se lo stato patologico possa essere di brevissima durata.
Questa ricostruzione della disciplina – operata dalla
giurisprudenza, seguita dalla prassi amministrativa e non
contraddetta dall’ordinanza di rimessione – offre il contenuto
prescrittivo della disposizione denunciata, quale è effettivamente
applicata ed operante. In coerenza con questa ricostruzione si
afferma che il diritto all’equo indennizzo precede la morte ed
appartiene alla sfera patrimoniale dell’infortunato; da questi è
acquisito in vita ed è trasmesso agli eredi, ai quali spetta per
diritto di successione e non come diritto proprio.
Muovendo in questo contesto normativo ed interpretativo, fatto
proprio anche dal giudice rimettente, l’indennizzo, non privo di
connotazioni equitative oltre che risarcitorie, rimane temporalmente
e concettualmente collegato ad un evento lesivo distinto dalla morte
e ad uno stato patologico che la precede. L’attribuzione patrimoniale
riguarda, quindi, direttamente l’impiegato che ha subito la
menomazione così indennizzata, anche se, a seguito della morte,
l’importo dell’indennizzo venga corrisposto agli eredi.
Sulla base di questa premessa interpretativa, diritto
all’indennizzo e diritto alla pensione privilegiata, nonostante la
immediata successione temporale dei rispettivi momenti genetici, non
si sovrappongono e sorgono, anzi, direttamente in capo a soggetti
diversi.
Difatti la pensione di reversibilità, quando ricorrano le
condizioni per la sua concessione, è un diritto proprio del coniuge
o degli altri congiunti che ne abbiano titolo. Sicché, seguendo la
interpretazione della disciplina dalla quale muove l’ordinanza di
rimessione, è da distinguere l’indennizzo, dovuto al dipendente e
corrisposto ai suoi eredi, dalla pensione privilegiata, che è
diritto proprio del coniuge o degli altri aventi titolo. In questa
prospettiva le due prestazioni sono diverse e non determinano una
irragionevole duplicazione di attribuzioni patrimoniali in capo al
medesimo soggetto e per il medesimo evento.
La duplicità di prestazioni non consente neppure di ritenere che
sussista la denunciata disparità di trattamento tra dipendenti
pubblici e privati. Le analoghe finalità di protezione dei
lavoratori in caso di infortunio, malattia ed invalidità sono
perseguite, nell’ambito dei due settori, con sistemi di garanzia che
danno corpo a differenti discipline degli indennizzi per le
menomazioni dell’integrità fisica o per l’invalidità permanente. La
comparazione tra le discipline non può essere fatta prendendo in
considerazione uno solo degli elementi che concorrono a differenziare
i due diversi sistemi.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 68, ottavo comma, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo
unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati
civili dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo
comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, dal Consiglio di
Stato con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 ottobre 1997.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Capotosti
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 30 ottobre 1997.
Il direttore della cancelleria: Di Paola