Sentenza N. 326 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
29/07/1996
Data deposito/pubblicazione
29/07/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
18/07/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA,
prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare
MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott.
Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY,
prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il
22 luglio 1995 dal Tribunale di Alessandria sull’istanza proposta da
Gatti Elio, curatore del fallimento di Picariello Paolo, iscritta al
n. 713 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno
1995;
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 20 marzo 1996 il giudice
relatore Francesco Guizzi.
1994, revocava il fallimento di Picariello Paolo e, disattendendo la
domanda dell’opponente volta alla condanna per colpa del creditore
istante, avanzata ai sensi dell’art. 21, terzo comma, del regio
decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del
concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della
liquidazione coatta amministrativa), compensava le spese del giudizio
di opposizione nella misura del 50 per cento e poneva la parte
residua a carico del fallimento e del creditore procedente in solido.
Allo stesso giudice, in sede amministrativa, venivano sottoposte le
questioni attinenti al compenso richiesto dal curatore, alle spese
sostenute dalla procedura, alla destinazione del denaro restante dopo
le operazioni fallimentari e giacente sul libretto aperto dal
curatore.
Con provvedimento del 10 luglio 1995, il Tribunale disponeva che,
ai sensi dell’art. 91 della legge fallimentare, si facesse carico
all’erario delle spese sostenute dal curatore e che le somme residue
– accreditate sul libretto di deposito intestato al fallito – fossero
restituite al Picariello, mentre non vi fosse luogo a provvedere, per
effetto della sentenza di questa Corte n. 46 del 1975, sulla domanda
di compenso presentata dal curatore. In ordine alle spese legali
accollate al fallimento dalla sentenza di revoca, in solido con il
creditore istante, il Tribunale ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 35 e 36 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 91 della legge fallimentare di cui al regio
decreto n. 267 del 1942.
2. – Va ricordato che il decreto legislativo del Capo provvisorio
dello Stato 23 agosto 1946, n. 153 (Norme circa la soppressione del
ruolo degli amministratori giudiziari e la liquidazione del fondo
speciale) ha soppresso il ruolo degli amministratori giudiziari e ha
stabilito la liquidazione del fondo speciale, entrambi previsti dalla
legge 10 luglio 1930, n. 995 (Disposizioni sul fallimento, sul
concordato preventivo e sui piccoli fallimenti); e va soggiunto che
la citata sentenza n. 46 del 1975 ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 21 della legge fallimentare, nella parte in
cui consentiva che le spese inerenti alla procedura e al compenso del
curatore fossero da ascrivere al debitore, anche in caso di
accoglimento dell’opposizione alla dichiarazione di fallimento.
Ad avviso del Collegio rimettente, la rigorosa applicazione della
sentenza n. 46, quando la pronuncia di accoglimento dell’opposizione
non affermi la responsabilità del creditore procedente, farebbe
sorgere il problema della imputazione delle spese. Sebbene
considerato non responsabile della dichiarazione di fallimento, il
creditore è stato infatti condannato, nel caso di specie, al
pagamento di una parte soltanto delle spese processuali sostenute
dall’opponente, non potendosi queste accollare al debitore che abbia
visto prevalere le proprie ragioni, in base alla sentenza n. 46, né
tanto meno potendosi imputare ad altri per l’impossibilità di far
ricorso al disposto dell’art. 91 della legge fallimentare – il quale
non fa più gravare sull’erario le spese di cui si tratta – essendo
stata abrogata la citata legge n. 995 del 1930.
È vero che alcuni giudici di merito hanno applicato l’art. 91
della legge fallimentare al fine di ricomprendere gli oneri in
questione nell’ambito delle spese anticipate dall’erario, ma a tale
interpretazione il Collegio rimettente non ritiene di aderire. Sia
perché l’art. 91 regolerebbe soltanto il caso in cui manchi danaro
liquido nella disponibilità della curatela (e l’erario, per il
preminente interesse pubblico, non potrebbe che effettuare
l’anticipazione); sia perché la dottrina e la giurisprudenza della
Cassazione si sarebbero da tempo orientate univocamente, adottando
un’interpretazione restrittiva della norma. Del resto, accogliendo
l’opposta interpretazione non si saprebbe se nel concetto di “spese
giudiziali” possano rientrare anche gli onorari e i compensi di
qualsiasi specie.
Nel caso in esame la questione verte su titoli incontestabili, in
quanto attiene al compenso richiesto da professionisti che hanno
svolto la loro attività in favore della massa. Sì che – non essendo
utilizzabile l’art. 91 della legge fallimentare – ne conseguirebbe
l’impossibilità di decidere sulle richieste avanzate dai
professionisti, con evidente lesione dei principi di cui agli artt.
3, 35 e 36 della Costituzione.
La disparità di trattamento nei confronti di questa categoria di
lavoratori autonomi si paleserebbe a seconda che il fallimento sia o
meno capiente; e vi sarebbe, comunque, un’ingiustificata minor tutela
di tale attività autonoma, che questa Corte ha invero ritenuto
meritevole di attenzione.
3. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, concludendo per
l’inammissibilità e, nel merito, per la infondatezza della
questione.
Secondo l’interventore vi sarebbero tre motivi di inammissibilità.
Il primo, poiché il giudice a quo non avrebbe adeguatamente
argomentato sulle ragioni che non gli hanno consentito di accollare
al debitore le spese: la citata sentenza n. 46 del 1975, infatti, non
avrebbe carattere assoluto e non impedirebbe di porre a carico del
debitore le spese del fallimento revocato se e in quanto “sia incorso
in comportamenti che abbiano indotto il giudice all’errato
convincimento dell’esistenza degli estremi necessari per la
dichiarazione successivamente revocata”. Avendo la Corte pronunciato
una declaratoria parziale di illegittimità costituzionalità
dell’art. 21, terzo comma, della legge fallimentare, la norma residua
permetterebbe, tuttora, l’accollo delle spese di procedura al
debitore responsabile della dichiarazione di fallimento risultata
illegittima: l’ordinanza di rimessione non avrebbe invero esaminato –
come pure avrebbe dovuto – la sussistenza d’una eventuale
responsabilità, escludendo a priori che le spese potessero restare a
carico del debitore.
Il secondo, per la richiesta d’una sentenza additiva al fine di
applicare l’art. 91 della legge fallimentare, recuperandone la
disciplina al caso in esame. Ma tale soluzione rappresenta uno dei
possibili rimedi, ben potendosi, ad esempio, con altro tipo
d’intervento, modificare la prima parte del terzo comma dell’art. 21
della stessa legge, in modo da uniformarne la disciplina al principio
generale della soccombenza contenuto nell’art. 91, primo comma, del
codice di procedura civile.
Il terzo, perché il giudice a quo avrebbe omesso di apprezzare la
“salvezza” posta nel citato primo comma dell’art. 21, con riferimento
agli effetti degli atti già compiuti legalmente dagli organi del
fallimento anteriormente alla revoca. Fra questi dovrebbe
ricomprendersi anche l’autorizzazione a resistere alla richiesta
revoca della sentenza dichiarativa di fallimento, sì che il giudice
– prima di disporre le restituzioni conseguenti alla revoca della
stessa – avrebbe dovuto indagare se l’obbligazione contratta dagli
organi fallimentari non potesse ritenersi conservata e, pertanto,
posta a carico delle attività residue, costituite dalle somme
affluite sul deposito acceso a nome della curatela.
Nel merito la questione sarebbe infondata, perché basata
sull’accostamento di due situazioni fra loro diverse, e dunque non
comparabili, qual è quella del fallimento capiente e quella del
fallimento revocato. Sarebbe, inoltre, del tutto fuori causa il
diritto del professionista a svolgere un’attività lavorativa
liberamente scelta, in quanto oggetto della tutela accordata
dall’art. 35, primo comma, della Costituzione; né sarebbe pertinente
il riferimento all’art. 36, primo comma, giacché non verrebbe in
rilievo alcun problema di remunerazione della prestazione d’opera, ma
soltanto quello di sopportazione del relativo onere.
36 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 91 della legge fallimentare di cui al regio decreto 16
marzo 1942, n. 267, avente a oggetto le anticipazioni delle spese del
fallimento effettuate dall’erario, nella parte in cui non estende
l’applicazione anche all’ipotesi del fallimento revocato con
sentenza, a seguito di opposizione del debitore, la quale ultima non
abbia attribuito, ai sensi dell’art. 21 della stessa legge, la
responsabilità al creditore procedente, così assicurando minore
tutela all’attività lavorativa dei professionisti legali e
determinando, conseguentemente, una evidente disparità di
trattamento a seconda che il fallimento sia o meno capiente.
2. – Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di
inammissibilità sollevate dall’Avvocatura dello Stato – due per
irrilevanza e una per pluralità di soluzioni – innanzitutto perché
il giudice a quo non avrebbe preventivamente valutato la possibilità
di accollare al debitore gli onorari del difensore della procedura;
quindi, perché non avrebbe esaminato quella del pagamento con il
residuo esistente sul deposito intestato al fallimento; e, infine,
perché la soluzione prospettata non sarebbe l’unica possibile.
3. – Le eccezioni per irrilevanza della questione vanno entrambe
disattese. La prima, in quanto la possibilità di accollare al
debitore il pagamento degli onorari del difensore della procedura
fallimentare, costituitasi nel giudizio di opposizione, non
eliminerebbe il problema dell’imputazione della metà delle spese
sostenute dal debitore medesimo e poste, dalla sentenza di
accoglimento dell’opposizione, a carico del fallimento in solido con
il creditore istante. La seconda, in quanto la revoca della sentenza
di fallimento fa tornare in bonis il debitore, al quale soltanto
spetta il potere di disporre dei propri beni, ivi comprese le somme
depositate sul libretto intestato alla procedura.
4. – La terza eccezione va invece accolta, perché il problema che
è alla base della questione è ascrivibile alla piena
discrezionalità del legislatore, pure nei limiti e con l’osservanza
dei principi costituzionali: primo fra tutti quello della
ragionevolezza, in considerazione della normativa vigente in materia
di regolamento delle spese giudiziali nel processo civile.
La questione all’esame delle Corte attiene all’art. 91 della legge
fallimentare, che regola l’anticipazione delle spese occorrenti allo
svolgimento e all’autoalimentazione della procedura effettuata
dall’erario. Il giudice rimettente ne propone l’estensione del campo
di applicazione – fino a ricomprendere al suo interno anche il caso
del fallimento chiuso per revoca della sentenza dichiarativa – e
chiede una pronuncia di accoglimento, non essendo possibile
l’espansione della norma né per via interpretativa né per via
analogica. Ma l’art. 91 denunciato è del tutto estraneo al problema
che s’intende risolvere nel giudizio a quo, giacché non riguarda la
materia dell’anticipazione delle spese bensì quella del loro
definitivo regolamento. La disposizione censurata è normalmente
applicabile quando la procedura concorsuale si conclude in uno dei
suoi modi “fisiologici” – che, certo, non è quello della revoca
della dichiarazione di fallimento – e vi si ricorre per la momentanea
difficoltà di far procedere l’esecuzione concorsuale. In tale
ipotesi l’anticipazione delle spese da parte dell’erario risponde a
una finalità pubblicistica, destinata ad alimentare la procedura,
che sarà poi in grado di autoalimentarsi, tanto da permettere la
restituzione all’erario di ciò che ha anticipato.
5. – La mancanza d’una soluzione ragionevole al caso sorto nel
corso della procedura pendente davanti al Tribunale di Alessandria, e
in quelli di fallimento incapiente o revocato, anche in ragione delle
vicende normative già ricordate, non può, tuttavia, condurre
all’accoglimento della questione. Anzitutto, perché il problema, che
pure esiste e necessita di una soluzione adeguata, non potrebbe
essere affrontato, per la sua evidente estraneità al caso, facendo
ricorso alla cennata disposizione; in secondo luogo, perché
comporterebbe la scelta fra una molteplicità di soluzioni possibili,
tutte ascrivibili alla discrezionalità del legislatore quali, ad
esempio, il pagamento a carico dell’erario o il diverso regolamento
delle spese.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 91 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata,
in riferimento agli artt. 3, 35 e 36 della Costituzione, dal
Tribunale di Alessandria con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Guizzi
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 29 luglio 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola