Sentenza N. 335 del 2002
Corte Costituzionale
Data generale
12/07/2002
Data deposito/pubblicazione
12/07/2002
Data dell'udienza in cui è stato assunto
08/07/2002
Presidente: Cesare RUPERTO;
Giudici: Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA,
Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK,
Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA;
di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 31 ottobre 2001
dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre
Annunziata nel procedimento penale a carico di F. R. e altro,
iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, 1ª serie speciale,
dell’anno 2002.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky.
Annunziata ha sollevato, con ordinanza del 31 ottobre 2001, questione
di legittimità costituzionale dell’art. 34 del codice di procedura
penale, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della
Costituzione.
Il giudice a quo riferisce di avere disposto il rinvio a giudizio
di taluni imputati con un decreto che è stato annullato dal giudice
del dibattimento, a norma dell’art. 429, comma 2, cod. proc. pen., in
relazione al comma 1, lettera c), dello stesso art. 429, per
genericità della formulazione del capo di imputazione. A seguito
dell’annullamento, il procedimento è ritornato allo stesso giudice,
che si trova ora a dovere trattare nuovamente l’udienza preliminare
nei confronti degli stessi imputati.
Il rimettente rileva quindi di essersi già pronunciato,
disponendo la prima citazione a giudizio, sia sulla esistenza di
fonti di prova della responsabilità degli imputati, idonee a
sorreggere l’accusa in giudizio, sia sulla mancanza dei presupposti
per una pronuncia di non luogo a procedere (art. 425 cod. proc.
pen.); reputa, pertanto, che la ripetizione della stessa udienza
preliminare da parte del medesimo giudice-persona fisica a seguito di
un annullamento del decreto che dispone il giudizio, per una causa di
nullità “formale” – nella specie per la genericità del capo di
imputazione – “concernente il diritto di difesa, non già per difetti
relativi al decreto” medesimo, possa fare apparire il giudice non
imparziale, appunto per la convinzione già manifestata in precedenza
circa l’esistenza di elementi di responsabilità degli imputati e
altresì che, dal punto di vista di questi ultimi, l’ulteriore
udienza preliminare possa apparire “del tutto inutile”, perché
iterativa della precedente.
Sotto questo profilo, la mancata previsione di una causa di
incompatibilità alla funzione di trattazione dell’udienza
preliminare in una ipotesi come quella anzidetta appare al rimettente
in contrasto con il principio di imparzialità del giudice, posto
dall’art. 111, secondo comma, della Costituzione (nonché, secondo un
riferimento contenuto nella sola motivazione dell’ordinanza, tutelato
dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dall’art. 14,
paragrafo 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici);
da ciò la sollevata questione di legittimità costituzionale
dell’art. 34 cod. proc. pen., in relazione al parametro
costituzionale anzidetto, “nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità del giudice dell’udienza preliminare che abbia
pronunciato il decreto che dispone il giudizio a celebrare l’udienza
preliminare dello stesso procedimento a seguito di regressione in
conseguenza della dichiarazione di nullità del decreto che dispone
il giudizio ad opera del giudice del dibattimento”, questione la cui
rilevanza – conclude il rimettente – è di tutta evidenza, non
esistendo, allo stato della legislazione, né un obbligo di
astensione né una possibilità di ricusazione del giudice.
2. – Nel giudizio così promosso è intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, che, sul rilievo dell’analogia tra la questione
sollevata e altra già rimessa all’esame della Corte (r.o. n. 345 del
2000), ha fatto rinvio per relationem allegandolo, all’atto di
intervento depositato nel relativo giudizio: in detto atto,
l’Avvocatura, alla stregua della consolidata giurisprudenza
costituzionale circa la non configurabilità come “giudizio” – inteso
quale pieno apprezzamento del merito dell’accusa – della funzione di
trattazione dell’udienza preliminare, aveva concluso per una
declaratoria di infondatezza della questione sollevata.
Annunziata dubita della legittimità costituzionale dell’art. 34 del
codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede, come caso
di incompatibilità all’esercizio di funzioni giudiziarie, quello del
magistrato che nell’udienza preliminare ha pronunciato il decreto che
dispone il giudizio e che, a seguito di dichiarazione di nullità del
decreto stesso a norma dell’art. 429, commi 2 e 1, lettera c), cod.
proc. pen., si trova nuovamente a celebrare nello stesso procedimento
l’udienza preliminare, con poteri di cognizione e decisione identici
a quelli già esercitati nella precedente circostanza. Ad avviso del
giudice rimettente, in questo caso si determinerebbe una violazione
del principio di imparzialità del giudice, di cui all’art. 111,
secondo comma, della Costituzione (nonché agli artt. 6, paragrafo 1,
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, e 14, paragrafo 1, del Patto internazionale
sui diritti civili e politici, evocati nella motivazione
dell’ordinanza), in quanto la mancata previsione dell’anzidetta causa
di incompatibilità consente la seconda celebrazione dell’udienza
preliminare da parte di un giudice che, avendo celebrato la prima ed
essendo pervenuto alla decisione di disporre il giudizio, non può
considerarsi imparziale.
2. – La questione non è fondata, alla stregua
dell’interpretazione che segue.
2.1. – L’incompatibilità all’esercizio di funzioni giudicanti
vale a proteggere l’imparzialità del giudice, impedendo che
quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res
iudicanda. Dal primo giudizio, infatti, potrebbero derivare
convinzioni precostituite sulla materia controversa, determinandosi
così, propriamente, un “pregiudizio” contrastante con l’esigenza
costituzionale che la funzione del giudicare sia svolta da un
soggetto “terzo”, non solo scevro da interessi propri che possano
fare velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da
convinzioni formatesi in occasione dell’esercizio di funzioni
giudicanti in altre fasi del giudizio (sentenza n. 155 del 1996).
L’udienza preliminare disciplinata dal titolo IX del libro V del
codice di procedura penale, secondo la sua originaria configurazione,
era caratterizzata principalmente dalla funzione di verifica della
domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero, relativamente
all’inesistenza di alcuna delle ragioni del “non luogo a procedere”
previste dall’art. 425 dello stesso codice. Conseguentemente, la
giurisprudenza di questa Corte ha per lungo tempo, e costantemente,
affermato che tanto il decreto che dispone il giudizio quanto la
sentenza di non luogo a procedere, conclusivi dell’udienza
preliminare, non comportano una decisione sostanziale sul contenuto
dell’accusa, trattandosi di decisioni di natura essenzialmente
processuale, finalizzate a dare ingresso al dibattimento o a
impedirlo. Su questa base si è inizialmente negato che le
statuizioni conclusive dell’udienza preliminare presentassero un
contenuto decisorio del merito del giudizio penale tale da imporre,
per necessità costituzionale, il riferimento ad esse della ratio
dell’incompatibilità. L’udienza preliminare, pertanto, è stata
esclusa dall’ambito di operatività della giurisprudenza di questa
Corte che, in numerose circostanze, ha portato all’estensione
dell’art. 34 cod. proc. pen. a situazioni non espressamente
contemplate e le uniche incompatibilità esistenti in materia sono
(a) quella prevista originariamente dal legislatore nel comma 2 del
medesimo articolo, il quale vieta la partecipazione al giudizio al
giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza
preliminare, e (b) quella del comma 2-bis dell’art. 34, introdotto
con l’art. 171 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme
in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), che
esclude, con talune eccezioni (indicate nei successivi commi 2-ter e
2-quater) che il giudice che ha svolto funzioni di giudice per le
indagini preliminari possa, nel medesimo procedimento, tenere
l’udienza preliminare.
L’esclusione dell’udienza preliminare dall’ambito concettuale del
giudizio, ai fini dell’operatività del principio costituzionale di
imparzialità, è stata tenuta ferma anche dopo gli interventi del
legislatore (rispettivamente, l’art. 1 della legge 8 aprile 1993,
n. 105, e l’art. 2, comma 2, della legge 7 agosto 1997, n. 267) che
hanno modificato, nel senso di renderli più ampi e incisivi, i
poteri del giudice dell’udienza preliminare (ordinanze n. 207 del
1998 e n. 112 del 2001 e, da ultimo, ordinanza n. 185 del 2001).
2.2. – Successivamente, però, l’udienza preliminare – in
conseguenza soprattutto della legge 16 dicembre 1999, n. 479, e, poi,
anche della legge 7 dicembre 2000, n. 397 – ha subito profonde
trasformazioni le cui conseguenze, in riferimento ai problemi della
garanzia dell’imparzialità del giudice, sono state tratte da questa
Corte con la sentenza n. 224 del 2001. L’udienza preliminare nella
vigente disciplina ha perduto la sua iniziale connotazione quale
momento processuale fondamentalmente orientato al controllo
dell’azione penale promossa dal pubblico ministero, in vista
dell’apertura della fase del giudizio. Infatti, “l’alternativa
decisoria che si offre al giudice quale epilogo dell’udienza
preliminare riposa […] su una valutazione del merito della accusa
[…] non più distinguibile […] da quella propria di altri
momenti” del processo, momenti “già ritenuti non solo “pregiudicanti
, ma anche “pregiudicabili , ai fini della sussistenza della
incompatibilità”.
L’udienza preliminare e le decisioni che la concludono sono
venute oggi a caratterizzarsi per la completezza del quadro
probatorio di cui il giudice deve disporre e per il potenziamento dei
poteri riconosciuti alle parti in materia di prova, su cui incide
anche la facoltà, riconosciuta alla difesa delle parti private
dall’art. 391-octies del codice, di presentare direttamente al
giudice elementi di prova. Sul pubblico ministero grava l’obbligo di
riversare nel procedimento tutti gli elementi provenienti dalle
indagini preliminari (art. 416, comma 2, cod. proc. pen.) o comunque
acquisiti dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419, comma 3,
cod. proc. pen.), nell’ambito dell’esigenza di completezza delle
indagini preliminari (sentenze n. 115 del 2001 e n. 88 del 1991);
oltre all’ampliamento delle garanzie difensive per l’imputato,
attraverso la possibilità di rendere dichiarazioni spontanee o di
essere sottoposto all’interrogatorio (art. 421, comma 2, cod. proc.
pen.), il giudice dell’udienza preliminare può disporre
l’integrazione delle indagini (art. 421-bis cod. proc. pen.) e
assumere anche d’ufficio le prove che appaiano con evidenza decisive
ai fini della sentenza di non luogo a procedere (art. 422 cod. proc.
pen.). Come osservato nella richiamata sentenza n. 224 del 2001 di
questa Corte, in questo quadro normativo le valutazioni di merito
affidate al giudice dell’udienza preliminare sono state private di
quei caratteri di sommarietà che, fino alle indicate innovazioni
legislative, erano tipici di una decisione orientata soltanto,
secondo la sua natura, allo svolgimento (o alla preclusione dello
svolgimento) del processo.
Infine, i contenuti delle decisioni che concludono l’udienza
preliminare hanno assunto, in parallelo alle novità appena
segnalate, una diversa e maggiore pregnanza. Il giudice infatti non
è solo chiamato a valutare, ai fini della pronuncia di non luogo a
procedere, se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale
l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere
proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato,
ovvero se risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha
commesso o non costituisce reato o che si tratta di persona non
punibile per qualsiasi causa, tenendo conto, se del caso, delle
circostanze attenuanti e applicando l’art. 69 del codice penale
(art. 425, commi 1 e 2, cod. proc. pen.). Il giudice deve considerare
inoltre se gli elementi acquisiti risultino sufficienti, non
contraddittori o comunque idonei a sostenere l’accusa nel giudizio
(art. 425, comma 3, cod. proc. pen.), dovendosi determinare, se no, a
disporre il non luogo a procedere; se sì, a disporre il giudizio. Il
nuovo art. 425 del codice, in questo modo, chiama il giudice a una
valutazione di merito sulla consistenza dell’accusa, consistente in
una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase
dibattimentale.
2.3. – Alla stregua dunque della fisionomia che l’udienza
preliminare è venuta assumendo, le decisioni che ne costituiscono
l’esito devono così essere annoverate tra quei “giudizi” idonei a
pregiudicarne altri ulteriori e a essere a loro volta pregiudicati da
altri anteriori, con la conseguenza che, per assicurare la protezione
dell’imparzialità del giudice, l’udienza preliminare deve essere
compresa nel raggio d’azione dell’istituto dell’incompatibilità,
disciplinato dall’art. 34 cod. proc. pen., anche al di là della
limitata previsione del comma 2-bis dell’art. 34 medesimo. A questa
stregua, anche la problematica situazione in cui si trova il giudice
dell’udienza preliminare rimettente, e che ha dato luogo alla
presente questione di legittimità costituzionale, può trovare la
sua soluzione.
A tal fine, non è però necessario addivenire a una pronuncia di
incostituzionalità dell’art. 34 cod. proc. pen., quale è quella
indicata nell’ordinanza di rimessione: una pronuncia che aggiunga una
nuova ipotesi, specifica o generale, di incompatibilità a quelle
già previste. Basta assumere che l’udienza preliminare, in
conseguenza dell’evoluzione legislativa sopra accennata, è
(divenuta) anch’essa un momento di “giudizio” perché essa rientri
pienamente nelle previsioni dell’art. 34 del codice che dispongono
per l’appunto l’incompatibilità a giudicare del giudice che già
abbia giudicato sulla medesima res iudicanda.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 34 del codice di procedura penale sollevata, in riferimento
all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, dal giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre Annunziata, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’8 luglio 2002.
Il Presidente: Ruperto
Il redattore: Zagrebelsky
Il cancelliere:Di Paola
Depositata in cancelleria il 12 luglio 2002.
Il direttore della cancelleria:Di Paola