Sentenza N. 352 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
21/11/1997
Data deposito/pubblicazione
21/11/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
13/11/1997
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, prof. Guido
NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI;
del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 26
giugno 1996 dal giudice per le indagini preliminari presso il
tribunale di Roma, nel procedimento penale a carico di Pulcini
Antonio, iscritta al n. 1015 del registro ordinanze 1996 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie
speciale, dell’anno 1996;
Udito nella camera di consiglio del 18 giugno 1997 il giudice
relatore Guido Neppi Modona.
costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, il Collegio per i reati
ministeriali presso il tribunale di Roma disponeva l’archiviazione
nei confronti di un ministro e altri indagati “laici”, in ordine ai
reati di peculato e falso ideologico. Con lo stesso provvedimento
veniva ordinata la separazione della posizione di un indagato “laico”
in ordine al reato di cui agli artt. 48, 61 n. 2, 81, 476, 482 e 485
del codice penale e l’invio dei relativi atti al procuratore della
Repubblica di Roma a norma dell’art. 2, comma 1, della legge 5 giugno
1989, n. 219.
Esercitatasi l’azione penale nei confronti dell’indagato “laico”,
all’udienza preliminare il giudice per le indagini preliminari presso
il tribunale di Roma, considerato che egli aveva fatto parte in
precedenza del Collegio per i reati ministeriali che aveva preso in
esame la posizione dell’imputato, presentava dichiarazione di
astensione ex artt. 34, comma 3, e 36, comma 3, del codice di
procedura penale. Il Presidente del Tribunale rigettava la
dichiarazione, ritenendo che tra le ipotesi di incompatibilità di
cui all’art. 34 cod. proc. pen., da considerare tassative, non era
compresa quella dedotta.
Nella successiva udienza del 26 giugno 1996, preso atto di tale
decisione, il giudice per le indagini preliminari sollevava, in
riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 25, primo
comma, 27, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, cod.
proc. pen., “nella parte in cui non prevede l’incompatibilità ad
esercitare nel medesimo procedimento l’ufficio di giudice nei
confronti del Collegio per i reati ministeriali”.
2. – Sottolinea il giudice a quo che egli è stato investito della
funzione di giudice dell’udienza preliminare in ordine alla decisione
circa il rinvio a giudizio di Pulcini Antonio, avendo appunto fatto
parte in precedenza del Collegio per i reati ministeriali che aveva
trattato il medesimo procedimento, compiendo atti istruttori,
acquisendo documentazione e in particolare contestando al Pulcini
quello specifico episodio da cui era sorto il procedimento; atti che
costituivano fonte di prova nell’attuale processo.
E dal momento che, in base all’art. 1, comma 2, della legge 5
giugno 1989, n. 219, il Collegio esercita, come anche reiteratamente
riconosciuto dalla giurisprudenza, i poteri che spettano al pubblico
ministero nella fase delle indagini preliminari, appare evidente,
secondo il giudice rimettente, che egli aveva in precedenza svolto
funzioni inquirenti. Tali funzioni sono peraltro incompatibili con
quelle giudicanti proprie del giudice dell’udienza preliminare, come
deriva dall’art. 34, comma 3, cod. proc. pen., norma finalizzata a
realizzare la assoluta separazione tra funzioni requirenti e
giudicanti, e pertanto da interpretarsi nel senso che rientrano
nell’area dell’incompatibilità anche i casi in cui il giudice abbia
di fatto svolto, attraverso l’esercizio dei relativi poteri, funzioni
di pubblico ministero.
Peraltro, osserva ancora il giudice a quo, il principio generale
enunciato dall’art. 34, comma 3, cod. proc. pen. non è di immediata
estensione al caso di specie, soprattutto per la considerazione delle
peculiari caratteristiche del procedimento innanzi al Collegio per i
reati ministeriali, costituente, in relazione alla incerta natura di
detto organo, un unicum nel nostro ordinamento.
Risulterebbe peraltro indubbio che la normativa sulle cause di
incompatibilità vada estesa al caso di specie, trattandosi di
salvaguardare il principio di imparzialità e terzietà del giudice.
L’omessa previsione in tal senso violerebbe gli artt. 3, primo comma,
24, secondo comma, 25, primo comma, 27, secondo comma, 101, secondo
comma, della Costituzione, per l’ingiustificata disparità di
trattamento fra fattispecie sostanzialmente analoghe, tale da
inficiare il rispetto delle regole sul giudice naturale, sul diritto
di difesa, sulla presunzione di innocenza e sull’indipendenza di
giudizio del giudice.
Osserva ancora il giudice a quo che la questione è certamente
rilevante, trattandosi di superare la situazione di stallo
processuale venutasi a creare a seguito della decisione del
presidente del tribunale che ha respinto la dichiarazione di
astensione e che è opportuno che al riguardo si pronunci la Corte
costituzionale “non solo per risolvere il conflitto (improprio) ma
altresì per chiarire, anche se al limitato fine
dell’incompatibilità, in via definitiva i poteri e la natura del
Collegio per i reati ministeriali”.
Roma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3,
del codice di procedura penale, “nella parte in cui non prevede
l’incompatibilità ad esercitare nel medesimo procedimento l’ufficio
di giudice nei confronti dei componenti del Collegio per i reati
ministeriali”.
La questione è sollevata con riferimento agli artt. 3, primo
comma, 24, secondo comma, 25, primo comma, 27, secondo comma, 101,
secondo comma, della Costituzione, in quanto la disciplina
denunciata, creando una ingiustificata disparità di trattamento tra
fattispecie sostanzialmente analoghe, violerebbe il diritto di
difesa, il rispetto delle regole del giudice naturale e
l’indipendenza di giudizio del giudice. In particolare, i principi
della imparzialità e terzietà del giudice risulterebbero
compromessi dall’omessa inclusione tra i casi di incompatibilità
previsti dall’art. 34, comma 3, cod. proc. pen. della situazione in
cui viene chiamato a svolgere l’ufficio di giudice chi in precedenza,
nella sua qualità di componente del Collegio per i reati
ministeriali, ha di fatto svolto funzioni di pubblico ministero:
verrebbero così a sovrapporsi le funzioni requirenti e quelle
giudicanti in capo al medesimo soggetto, in contrasto con la ratio
dell’art. 34, comma 3, cod. proc. pen., che tra le cause di
incompatibilità indica l’esercizio nel medesimo procedimento delle
funzioni di pubblico ministero e dell’ufficio di giudice, ma non
prevede espressamente, quale termine pregiudicante della relazione di
incompatibilità, lo specifico caso dei componenti del Collegio per i
reati ministeriali, che di fatto svolgono funzioni di pubblico
ministero.
2. – La questione non è fondata.
Il giudice rimettente ha correttamente individuato nell’art. 34,
comma 3, cod. proc. pen. la norma ove sono disciplinate situazioni di
incompatibilità del tipo di quella denunciata, attinenti, cioè, a
funzioni esercitate o uffici ricoperti nell’ambito del medesimo
procedimento, capaci di pregiudicare l’imparzialità e la terzietà
di chi verrà poi chiamato a svolgere l’ufficio di giudice. Non ha
però colto che nel caso di specie la situazione di incompatibilità
va logicamente ravvisata in via preliminare ed assorbente per avere
il Collegio per i reati ministeriali proposto un atto di denuncia,
mediante l’individuazione degli estremi di un reato non ministeriale
a carico di un concorrente “laico” e la conseguente trasmissione
degli atti al Procuratore della Repubblica.
Dall’ordinanza di rimessione emerge, infatti, che il Collegio per i
reati ministeriali – compiute, a norma degli artt. 8, commi 1 e 2,
della legge della Costituzione 16 gennaio 1989, n. 1; 1, commi 2 e 5,
e 2, comma 1, della legge 5 giugno 1989, n. 219, le indagini
preliminari – ha disposto l’archiviazione per i reati ministeriali e
nel contempo ha ordinato la separazione nei confronti di un
concorrente “laico” per un diverso reato, enucleando gli estremi del
fatto di reato e ordinando, a norma dell’art. 2, comma 1, della legge
n. 219 del 1989, la trasmissione degli atti al Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Roma.
Così operando, il Collegio per i reati ministeriali ha assolto
all’obbligo, imposto dall’art. 331 cod. proc. pen. nei confronti dei
pubblici ufficiali che nell’esercizio o a causa delle loro funzioni
hanno notizia di un reato perseguibile d’ufficio, di farne denuncia e
di trasmettere gli atti al pubblico ministero; tale situazione, così
come affermato in via generale dalla giurisprudenza di questa Corte
(v. sentenza n. 292 del 1992), configura appunto il caso di
incompatibilità, espressamente previsto dall’art. 34, comma 3, cod.
proc. pen., di avere proposto denuncia.
Ai fini della decisione della questione oggetto del presente
giudizio, non è quindi necessario prendere in esame la peculiare
fisionomia, i poteri e le funzioni del Collegio per i reati
ministeriali (v. sentenze n. 403 del 1994 e n. 265 del 1990);
l’ipotesi di incompatibilità consistente nell’avere presentato una
denuncia obbligatoria assume, infatti, un valore assorbente e
logicamente preliminare rispetto alla supposta funzione pregiudicante
individuata dal giudice rimettente nell’avere il Collegio svolto
funzioni di pubblico ministero.
Ciò è quanto basta per dichiarare non fondata la censura di
illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 3, cod. proc. pen.
nei termini prospettati dal rimettente, in quanto la situazione di
incompatibilità con l’ufficio di giudice dell’udienza preliminare in
cui viene a trovarsi il componente del Collegio per i reati
ministeriali che ha ravvisato gli estremi di un reato a carico di un
concorrente “laico” ed ha presentato la relativa denuncia al
Procuratore della Repubblica già comporta l’obbligo di astensione a
norma del combinato disposto degli artt. 34, comma 3, e 36, comma 1,
lettera g), cod. proc. pen.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 34, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in
riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 25, primo
comma, 27, secondo comma e 101, secondo comma, della Costituzione,
dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Roma,
con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 13 novembre 1997.
Il presidente: Granata
Il redattore: Neppi Modona
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 21 novembre 1997.
Il direttore della cancelleria: Di Paola