Sentenza N. 353 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
22/10/1996
Data deposito/pubblicazione
22/10/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
14/10/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
47 e 49 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse
il 12 dicembre 1995 dalla Corte d’appello di Trieste e il 9 gennaio
1996 dal Tribunale di Trieste, nei procedimenti penali a carico di
Pahor Samo, rispettivamente iscritte ai nn. 140 e 208 del registro
ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 9 e 11, prima serie speciale, dell’anno 1996;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 15 maggio 1996 il giudice
relatore Francesco Guizzi.
d’appello di Trieste ha sollevato questione di legittimità
costituzionale degli artt. 46, comma 3, 47 e 49 del codice di
procedura penale. In precedenza, con atti del 9 marzo e del 5
ottobre 1993, l’imputato aveva proposto due istanze di rimessione del
procedimento, rigettate dalla Corte di cassazione con sentenze del 5
maggio 1993 e 19 gennaio 1994; malgrado ciò, egli aveva reiterato
l’istanza, sulla base di “fatti nuovi”, sollecitando il Collegio a
promuovere il giudizio di legittimità costituzionale, conclusosi con
la sentenza d’inammissibilità n. 460 del 1995 di questa Corte.
Avendo il Samo “confermato e ribadito” (all’udienza del 12 dicembre
1995) detta istanza, la Corte triestina ha quindi sollevato la
presente questione.
Osserva il giudice a quo che la Corte di cassazione ha sempre
escluso ogni possibilità di sindacato da parte del giudice di merito
sull’ammissibilità dell’istanza, anche nel caso (come quello in
esame) in cui vi sia una reiterazione della richiesta basata su
motivi “solo apparentemente nuovi”. Sì che, considerando l’evidente
uso strumentale della riproposizione, la Corte d’appello di Trieste
ha sollevato – per contrasto con il principio di obbligatorietà
dell’azione penale sancito dall’art. 112 della Costituzione –
questione di legittimità costituzionale dei citati articoli del
codice di procedura penale, senza peraltro nascondere la finalità
ulteriore di “sterilizzare”, con l’incidente di costituzionalità, il
termine prescrizionale del reato, in modo da evitare che l’imputato
si sottragga al giudizio. E pur non ignorando il contenuto della
citata sentenza n. 460, con specifico riguardo al principio
costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, il Collegio
rimettente rileva come l’accenno al bene (costituzionalmente
protetto) dell'”efficienza del processo penale”, ivi evocato,
dovrebbe indurre il giudice delle leggi a estendere la portata del
richiamato principio oltre il momento dell’impulso processuale, fino
alla soglia della sentenza.
Di qui, la lesione dell’art. 101, secondo comma, della
Costituzione, poiché il giudice non sarebbe soggetto soltanto alla
legge, ma anche alle iniziative dell’imputato; degli artt. 3 e 97,
sia per intrinseca irragionevolezza, sia per violazione dei principi
di uguaglianza e del buon andamento dell’amministrazione; e dell’art.
25, primo comma, per la possibilità, data all’imputato, di sottrarsi
al giudice naturale con una tecnica elusiva finalizzata alla
prescrizione dei reati.
2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che –
riportandosi all’atto d’intervento depositato in occasione del
giudizio definito con la sentenza n. 460 del 1995 – ha concluso per
l’inammissibilità o, in subordine, per l’infondatezza della
questione.
Osserva l’Avvocatura che, spinto alle conseguenze estreme, il
meccanismo della rimessione potrebbe determinare gli effetti negativi
prospettati nell’ordinanza della Corte d’appello. Ma essi non
discenderebbero dalla mancata attribuzione al giudice di merito del
sindacato sull’istanza di rimessione, poiché nulla impedirebbe
all’imputato – dopo la declaratoria di inammissibilità della prima
richiesta – di riproporla sulla base di motivi anche solo
apparentemente nuovi, in modo da impedire di emettere la sentenza.
L’inconveniente segnalato potrebbe essere risolto stabilendo un
sistema di preclusioni, o consentendo al giudice di merito la
decisione del processo, in attesa della pronuncia sulla rimessione,
oppure – nelle ipotesi di rigetto o di inammissibilità dell’istanza
– non computando nei termini di prescrizione il periodo in cui il
giudizio rimane sospeso.
Sebbene esista un problema applicativo, la questione sarebbe
erroneamente formulata: sia perché non risulta censurata la norma
che disciplina il termine di prescrizione dei reati, sia perché si
chiederebbe alla Corte una sentenza in una materia che attiene alla
discrezionalità del legislatore.
3. – Nel corso di altro procedimento penale, a carico dello stesso
imputato, il Tribunale di Trieste ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 47 del codice di procedura
penale per violazione degli artt. 3, 97, primo comma, e 101, primo
comma, della Costituzione.
Per “pretesi nuovi motivi”, l’imputato aveva riproposto, ai sensi
degli artt. 45 e segg. del codice di procedura penale, l’istanza di
rimessione già formulata nel corso del dibattimento (alle udienze
del 9 novembre 1992, 8 novembre 1993 e 11 gennaio 1995), per tre
volte respinta o dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione.
Osserva il Tribunale che l’approssimarsi della prescrizione non
discende tanto dalla mancanza d’una norma che attribuisca al giudice
di merito il potere delibatorio sull’ammissibilità o fondatezza
della questione, quanto dal rigido divieto di pronunciare sentenza
fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile
o rigetta la richiesta: divieto introdotto nel nuovo codice di
procedura penale, con l’art. 47, e ignoto al codice abrogato nel
1989. Onde l’ineludibile contrasto di tale articolo con gli artt. 3,
97 e 101 della Costituzione.
4. – Anche con riferimento a questo giudizio è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei Ministri, concludendo come sopra.
legittimità costituzionale riguardante un aspetto del regime
giuridico della rimessione dei procedimenti, nell’ambito del processo
penale, già considerata dalla sentenza n. 460 del 1995. La Corte
d’appello di Trieste dubita, in particolare, della legittimità
costituzionale degli artt. 46, comma 3, 47 e 49 del codice di
procedura penale, che favorirebbero il decorso del termine di
prescrizione dei reati, consentendo all’imputato di riproporre
(teoricamente ad libitum) una richiesta di rimessione del
procedimento basata, anche solo in apparenza, su motivi nuovi. Le
disposizioni menzionate sarebbero in contrasto con l’art. 112 della
Costituzione, per lesione del principio di obbligatorietà
dell’azione penale; con l’art. 101, secondo comma, poiché il giudice
non sarebbe soggetto soltanto alla legge, ma anche alle iniziative
dell’imputato; con gli artt. 3 e 97, sia per l’intrinseca
irragionevolezza di detto meccanismo, sia per violazione dei principi
di uguaglianza e di buon andamento dell’amministrazione; e, infine,
con l’art. 25, primo comma, per la possibilità data all’imputato di
sottrarsi, con tecnica elusiva finalizzata alla prescrizione dei
reati, al giudice naturale.
Per le medesime ragioni, il Tribunale della stessa città denuncia,
in riferimento agli artt. 3, 97 e 101 della Costituzione, l’art. 47
del codice di procedura penale, nella parte in cui fa divieto di
pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza della
Cassazione che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta.
2. – Prospettate le questioni in termini pressoché identici,
sebbene i dati normativi non siano esattamente sovrapponibili, i
giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente trattati.
3. – Già investita di analoga censura, questa Corte ha
pronunciato, con la sentenza n. 460 del 1995, una declaratoria
d’inammissibilità, rilevando l’imprecisa denuncia della normativa
processuale e l’erronea indicazione del parametro nell’art. 112 della
Costituzione, ma si è detta nel contempo consapevole degli
“inconvenienti lamentati dal giudice a quo” e, cioè, tanto della
“possibilità di un uso distorto della riproposizione, a fini
dilatori, della richiesta di rimessione”, quanto dell’obbligo “per il
giudice di merito di fermarsi, ai sensi dell’art. 47, primo comma,
del codice di rito, alle soglie della sentenza” (cfr. la citata
sentenza n. 460 del 1995).
3.1. – Individuata esattamente la norma, la questione è fondata.
Entrambe le ordinanze censurano, invero correttamente (la Corte
d’appello solo in parte qua), l’art. 47, comma 1, del codice di
procedura penale, vale a dire la disposizione che rende possibile il
lamentato abuso della rimessione.
Pur non trattandosi di un nuovo istituto, quello introdotto dal
codice di procedura penale del 1988 è uno strumento processuale che
contiene una rilevante novità: mentre nella precedente disciplina si
stabiliva, con l’art. 57, che il procedimento per rimessione non
sospendeva l’istruzione o il giudizio (salvo ordinanza di sospensione
della Corte di cassazione), in quella attuale si è invece inserito
il divieto di “pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta
l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta”.
Sotto il vigore del vecchio codice furono rare, significativamente,
le decisioni della Corte di cassazione al riguardo e, fra le poche,
nessuna mise in discussione il potere del giudice di merito di
pronunciare la sentenza. La conseguenza naturale di questo mancato
divieto consisteva nella non “dannosità” di qualsivoglia
reiterazione dell’istanza di rimessione (in caso d’una precedente
richiesta dichiarata inammissibile o infondata dalla Cassazione),
perché non preclusiva della decisione del giudizio di merito.
Nel pur apprezzabile disegno di razionalizzazione del processo
davanti al iudex suspectus, il legislatore ha voluto che – pendente
il giudizio di rimessione – l’effetto sospensivo si produca
automaticamente, e al momento della decisione del processo operi una
preclusione per il giudice del dibattimento. L’innovazione risponde
all’esigenza d’un razionale contemperamento dei principi di economia
processuale e di terzietà del giudice: è infatti la regola che non
si sospenda il processo, in seguito all’istanza di rimessione, mentre
è a fondamento dell’istituto il potere di decidere conferito al
giudice che è estraneo agli interessi in gioco. Ma nell’innovare non
si è tenuto conto degli eventuali abusi derivanti dalla
riproposizione della richiesta su cui la Cassazione si sia già
espressa con una declaratoria di inammissibilità o di rigetto. Ciò
è quanto testimoniano le ordinanze dei Collegi triestini, nelle
quali si sottolinea l’uso scopertamente dilatorio della richiesta
avanzata ex artt. 46 e segg. del codice di procedura penale e
finalizzata ad allontanare nel tempo la decisione di merito, con
l’effetto d’una probabile prescrizione dei reati e di un inevitabile
riflesso negativo sul precario stato di efficienza
dell’amministrazione giudiziaria.
3.2. – La questione sollevata dalle due ordinanze, che denunciano
l’effetto irrazionale dell’art. 47, comma 1, in relazione all’uso
distorto della reiterazione dell’istanza di rimessione ex art. 49 del
codice di procedura penale, è fondata alla luce dell’art. 3 della
Costituzione.
L’equilibrio fra i principi di economia processuale e di terzietà
del giudice è infatti solo apparente nella ponderazione codicistica,
posto che il possibile abuso processuale determina la paralisi del
procedimento, tanto da compromettere il bene costituzionale
dell’efficienza del processo, qual è enucleabile dai principi
costituzionali che regolano l’esercizio della funzione
giurisdizionale, e il canone fondamentale della razionalità delle
norme processuali. Pienamente libero nella costruzione delle
scansioni processuali, il legislatore non può tuttavia scegliere,
fra i possibili percorsi, quello che comporti, sia pure in casi
estremi, la paralisi dell’attività processuale, perché impedendo
sistematicamente tale attività, mediante la riproposizione
dell’istanza di rimessione, si finirebbe col negare la stessa nozione
del processo e si contribuirebbe a recare danni evidenti
all’amministrazione della giustizia.
Occorre, allora, rimuovere la fonte di tali rischi, dichiarando
l’illegittimità costituzionale dell’art. 47, primo comma, del codice
di procedura penale, nella parte in cui fa divieto al giudice di
pronunciare la sentenza fino a che non sia intervenuta l’ordinanza
che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta.
A parte il parametro inadeguato, costituito dall’art. 112, già
oggetto di esame nella sentenza n. 460 del 1995, gli altri (artt. 25
e 101 della Costituzione) restano assorbiti nelle considerazioni
esposte sopra.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 47, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte
in cui fa divieto al giudice di pronunciare la sentenza fino a che
non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta
la richiesta di rimessione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 ottobre 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Guizzi
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 22 otobre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola