Sentenza N. 354 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
22/10/1996
Data deposito/pubblicazione
22/10/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
14/10/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
e 71 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il
30 ottobre 1995 dal pretore di Milano nel procedimento penale a
carico di Saltini Alfonso, iscritta al n. 949 del registro ordinanze
1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4,
prima serie speciale, dell’anno 1996;
Udito nella camera di consiglio del 2 ottobre 1996 il giudice
relatore Giuliano Vassalli.
di un imputato nato nel 1907 che presenta – come è stato accertato
in sede di perizia medico-legale – una patologia grave, irreversibile
ed evolutiva al punto da consentire “di ritenere che nel futuro il
medesimo non possa presenziare in aula”, ha sollevato, dopo numerosi
rinvii del dibattimento, questione di legittimità costituzionale,
per violazione degli artt. 3 e 112 della Costituzione, degli artt.
486, 477, 70 e 71 del codice di procedura penale “nella parte in cui
non prevedono la sospensione del dibattimento in caso di imputato
permanentemente impossibilitato in modo assoluto a comparire per
legittimo impedimento dovuto a malattia irreversibile, la
possibilità di assumere prove alle condizioni dell’art. 70 comma 2,
la possibilità di adottare in esito sentenza di proscioglimento e di
non doversi procedere e l’inapplicabilità dell’art. 75 comma 3
c.p.p. quanto alla parte civile”. Rileva il giudice a quo che nel
caso di specie non è consentito sospendere il giudizio né procedere
ad alcuna attività dibattimentale, malgrado l’obbligo di fissare
l’udienza di prosecuzione a data fissa, mentre l’avvenuta
costituzione di parte civile appare priva di qualsiasi possibile
esito e alternativa. Si determina, dunque, una situazione di “stallo”
processuale anomala e irragionevole, in quanto sacrifica sia il
principio di obbligatorietà della azione penale, sia il principio di
eguaglianza, tenuto conto della più equilibrata soluzione data al
caso simile dell’imputato che per infermità mentale non è in grado
di partecipare coscientemente al processo, per il quale è invece
consentito assumere prove a norma dell’art. 70, comma 2, cod. proc.
pen. e adottare all’esito un pronuncia favorevole all’imputato.
imputato di età avanzata e che presenta patologie di gravità tale
da rendere prevedibile che anche in futuro il medesimo non possa
presenziare alla attività di udienza, il pretore di Milano, dopo
alcuni rinvii disposti per impedimento dell’imputato, solleva, in
riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale degli art. 486, 477, 70 e 71 del codice
di procedura penale nella parte in cui non prevedono: a) la
sospensione del dibattimento in caso di imputato permanentemente
impossibilitato a comparire per legittimo impedimento dovuto a
malattia irreversibile; b) la possibilità di assumere prove alle
condizioni previste dall’art. 70, secondo comma, cod. proc. pen.; c)
la possibilità di adottare all’esito sentenza di proscioglimento e
di non doversi procedere; d) l’inapplicabilità della disciplina
dettata dall’art. 75, terzo comma, cod. proc. pen., quanto alla parte
civile. A parere del giudice rimettente, infatti, l’impedimento
irreversibile dell’imputato determinerebbe una “paradossale”
situazione di stasi processuale che non consente alcun tipo di
attività, malgrado l’obbligo di “fissare udienza di proseguimento a
data fissa”, rendendo al tempo stesso priva di esiti e alternative
l’avvenuta costituzione di parte civile; il tutto, soggiunge il
rimettente, con effetti tali da compromettere sia il principio di
obbligatorietà dell’azione penale, sia quello di uguaglianza, a
proposito del quale evoca la diversa e “più equilibrata” disciplina
che regola il “caso affine” dell’imputato che per infermità mentale
non sia in grado di partecipare coscientemente al processo e della
quale si chiede, in sostanza, l’estensione alla ipotesi dedotta.
2. – Il quesito che il giudice a quo sottopone quale tema dello
scrutinio di costituzionalità si presenta, dunque, quanto mai
composito sotto il profilo dei riferimenti normativi attinti da
censura ed altrettanto variegato sul piano degli istituti che vengono
ad essere coinvolti, richiedendosi a questa Corte un intervento
manipolativo sul tessuto codicistico che rimodelli, sotto
differenziati aspetti, la disciplina dell’impedimento a comparire
dell’imputato (art. 486), la durata e la prosecuzione del
dibattimento (art. 477), nonché il regime e gli effetti stabiliti
dalla legge per l’ipotesi in cui l’imputato, per infermità mentale,
non sia in grado di partecipare coscientemente al processo (artt. 70
e 71). Infine, nel dispositivo, l’ordinanza del giudice rimettente fa
testuale riferimento all’art. 75, terzo comma, cod. proc. pen.,
lamentandone “l’inapplicabilità quanto alla parte civile”,
manifestamente intendendo, con questa sintetica locuzione, lamentare
l’inapplicabilità, alle situazioni come quella denunciata, di una
eccezione alla regola della sospensione del processo civile per
l’azione risarcitoria quando l’azione stessa sia stata proposta in
sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte
civile nel processo penale.
L’intera gamma dei petita va, pertanto, non solamente valutata nel
suo complesso, ma anche analizzata in ciascuno dei singoli
componenti, per verificare se ed in che misura un siffatto intervento
rientri nei poteri spettanti a questa Corte e se, alla stregua delle
differenziate ragioni che stanno al fondo delle censure, le stesse
risultino in tutto o in parte fondate sulla base dei parametri
dedotti.
Può subito rilevarsi, in linea generale, come il giudice a quo
abbia posto quale fulcro della questione una pretesa affinità di
situazioni che, invece, si appalesano fra loro del tutto eterogenee,
tanto sul piano strutturale che su quello logico-sistematico. Dalla
ordinanza di rimessione, infatti, traspare con chiarezza la pretesa
di sovrapporre l’ipotesi dell’imputato che per malattia irreversibile
sia legittimamente impedito a comparire sine die all’udienza, a
quella dell’imputato che, per infermità mentale, non sia in grado di
partecipare coscientemente al processo, al punto da ritenere
automaticamente trasferibile per più profili la peculiare disciplina
dettata per quest’ultima ipotesi anche alla prima. Ma è del tutto
evidente che si tratta di situazioni non comparabili: altro è,
infatti, l’incapacità di partecipare coscientemente al processo che
ineluttabilmente compromette l’idoneità ad esercitare l’autodifesa
e, dunque, giustifica la predisposizione di un composito e peculiare
assetto normativo informato alla tutela della libertà di
autodeterminazione dell’imputato (v. sentenza n. 281 del 1995),
altro è l’impedimento a comparire, posto che una evenienza di tal
genere può rappresentare, ma non necessariamente rappresenta, un
semplice ostacolo all’esercizio del diritto di difesa, che l’imputato
è posto in condizione di rimuovere esercitando la facoltà di
rinuncia a presenziare al dibattimento. L’accoglimento della premessa
da cui muove il giudice a quo comporterebbe, quindi, non
l’armonizzazione di disciplina di fattispecie analoghe, ma la
creazione ex novo di un regime eccezionale che invaderebbe l’area
delle scelte che l’ordinamento riserva alla esclusiva sfera della
discrezionalità legislativa. Deve pertanto ritenersi inammissibile
la richiesta del giudice a quo volta ad introdurre nel sistema la
previsione che il dibattimento sia sospeso “in caso di imputato
permanentemente impossibilitato in modo assoluto a comparire per
legittimo impedimento dovuto a malattia irreversibile”, considerato
anche a tal proposito che, generandosi per questa via una nuova
ipotesi di sospensione del processo, si determinerebbe, come
automatico effetto sul piano del diritto sostanziale, l’inserimento
di un nuovo caso di sospensione del corso della prescrizione del
reato e, quindi, la creazione di conseguenze penali contra reum che
certamente è inibita a questa Corte (cfr., da ultimo, ordinanza n.
315 del 1996 e le ordinanze ivi richiamate).
Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche per ciò che
concerne quella parte del petitum intesa a sollecitare l’adozione di
una pronuncia additiva che consenta la possibilità di assumere prove
alle condizioni previste dall’art. 70, secondo comma, cod. proc.
pen., e di adottare all’esito “sentenza di proscioglimento o di non
doversi procedere”. Al di là, infatti, delle considerazioni già
svolte in linea generale, va osservato che l’art. 70, comma 2,
richiamato, poi, dall’art. 71, comma 4, cod. proc. pen., consente al
giudice di assumere, a richiesta del difensore o del curatore
speciale, le prove che possono condurre al proscioglimento
dell’imputato, e, quando vi è pericolo nel ritardo, ogni altra prova
richiesta dalle parti. Un regime, dunque, del tutto eccezionale e che
si salda intimamente alla particolare situazione di impedita
autodifesa in cui versa l’imputato che non è in grado di partecipare
coscientemente al processo, ma che non può certo ritenersi
replicabile per l’ipotesi di semplice impedimento a comparire, ove
gli effetti preclusivi alla celebrazione dell’udienza vengono
collegati anche ad una libera e consapevole scelta dell’imputato
stesso. L’accoglimento di un simile petitum, dunque, lungi dal
profilarsi come unica soluzione costituzionalmente imposta, finirebbe
esso stesso per generare conseguenze di forte disarmonia sul piano
degli equilibri del sistema, giacché introdurrebbe una non
giustificata compressione del diritto alla prova delle restanti parti
del processo.
3. – Le considerazioni sin qui svolte non possono invece valere per
ciò che concerne l’ultimo dei profili che il giudice a quo ha
dedotto a sostegno della pur sintetica ordinanza di rimessione. La
situazione di “stallo” processuale che si determina nel caso in cui
l’imputato, per malattia irreversibile, si trovi impossibilitato a
comparire, effettivamente determina per la parte civile
l’impossibilità di dare concreto seguito alla propria domanda
risarcitoria, giacché, anche nell’ipotesi in cui ritenesse di optare
per l’esercizio della azione civile in sede propria, il processo
civile così introdotto sopporterebbe gli effetti sospensivi
stabiliti dall’art. 75, comma 3, cod. proc. pen., non rientrando
l’ipotesi di specie tra le “eccezioni previste dalla legge” che la
norma stessa enuncia quali deroghe a quegli effetti.
Sotto il circoscritto profilo che viene qui in discorso, si
appalesano, dunque, forti analogie tra la stasi del processo
determinata dalla incapacità psichica dell’imputato e quella che
scaturisce dall’impedimento a comparire dell’imputato il quale non
consenta che il dibattimento prosegua in sua assenza, giacché
entrambe le situazioni di paralisi processuale ineluttabilmente
determinano una sostanziale sterilizzazione della azione civile
esercitata nel processo penale. Considerato, quindi, che nel primo
caso l’art. 71, comma 6, cod. proc. pen., fa salvi i diritti della
parte civile sancendo l’inapplicabilità dell’art. 75, comma 3, dello
stesso codice e, dunque, consentendo il trasferimento della azione in
sede civile senza che il relativo processo venga sospeso, si rivela
fondata la doglianza del giudice a quo nella parte in cui sollecita
l’adozione del medesimo regime anche nell’ipotesi che qui rileva.
Come questa Corte ha infatti avuto modo di puntualizzare in una
fattispecie del tutto analoga a quella oggetto del presente giudizio,
ancorché riferita alla disciplina – peraltro a questi fini non
difforme – dettata dal codice di rito previgente, “è certo che una
stasi del processo che si accerti di durata indefinita ed
indeterminabile, non possa non vulnerare il diritto di azione e di
difesa della parte civile cui pure l’assetto del codice abrogato
apprestava tutela, svincolandola dal processo penale nel caso di
sospensione del processo per infermità di mente dell’imputato” (v.
sentenza n. 330 del 1994). Con ciò il perturbamento del canone
dell’uguaglianza, che il rimettente deduce come parametro, finisce
per assumere nella specie connotazioni di ancor più incisivo
risalto, in quanto intimamente correlato ad altro valore
costituzionale, quale è il potere di agire a tutela dei propri
diritti, che nell’ipotesi in esame risulta dunque compromesso in
eguale misura.
Anche se il giudice a quo propone quindi, e come già si è detto,
un articolato quesito inteso a rielaborare la disciplina dettata dal
codice di rito per il caso di incapacità processuale, così da
includervi anche l’ipotesi dell’imputato permanentemente impedito a
comparire, il petitum che nella sostanza si intende perseguire mira
più semplicemente ad iscrivere quest’ultima ipotesi, in aggiunta
alla prima, fra le “eccezioni” che rendono inoperante il particolare
regime dei rapporti tra azione civile e azione penale previsto
dall’art. 75, comma 3, del medesimo codice.
Tale disposizione andrà pertanto dichiarata costituzionalmente
illegittima in parte qua per contrasto con gli indicati principi
costituzionali.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 3, del
codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che la
disciplina ivi contenuta non trovi applicazione nel caso di accertato
impedimento fisico permanente che non permetta all’imputato di
comparire all’udienza, ove questi non consenta che il dibattimento
prosegua in sua assenza;
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 486, 477, 70 e 71 del codice di procedura penale,
sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dal
pretore di Milano con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 ottobre 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Vassalli
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 22 ottobre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola