Sentenza N. 354 del 2001
Corte Costituzionale
Data generale
07/11/2001
Data deposito/pubblicazione
07/11/2001
Data dell'udienza in cui è stato assunto
06/11/2001
Presidente: Fernando SANTOSUOSSO;
Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY,
Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA,
Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria
FLICK;
decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di
previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni
fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre
1992, n. 438, promosso, con ordinanza emessa il 21 dicembre 1999, dal
tribunale di Ancona nel procedimento civile vertente tra Mazzoni
Guido e l’INPS, iscritta al n. 488 del registro ordinanze 2000 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima
serie speciale, dell’anno 2000.
Visti gli atti di costituzione di Mazzoni Guido e dell’INPS
nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 25 settembre 2001 il giudice
relatore Massimo Vari;
Uditi gli avvocati Rino Pirani per Mazzoni Guido, Paolo Marchini
e Fabio Fonzo per l’INPS e l’avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per
il Presidente del Consiglio dei ministri.
6 luglio 2000), emessa nel corso di un giudizio civile promosso da un
assicurato nei confronti dell’INPS, il tribunale di Ancona, in
funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 3-bis della legge 14 novembre
1992, n. 438 (recte: art. 3-bis del decreto-legge 19 settembre 1992,
n. 384, recante “Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità
e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali”, convertito, con
modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438).
Premette il giudice a quo che il ricorrente nel giudizio
principale ha versato all’INPS, in relazione agli anni 1993-1994,
“oltre la legittima contribuzione dovuta per l’assicurazione I.V.S.
Gestione commercianti in qualità di agente di commercio”, anche
quella relativa al reddito di socio accomandante di una società in
accomandita semplice, vedendosi negare, dal medesimo INPS, il
rimborso contributivo successivamente richiesto in via
amministrativa. E ciò in forza del denunciato art. 3-bis del
decreto-legge n. 384 del 1992, il quale dispone che “il contributo
annuo per i soggetti iscritti alle gestioni previdenziali degli
artigiani e dei commercianti è rapportato alla totalità dei redditi
di impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi
stessi si riferiscono” (comma 1); redditi di impresa tra i quali
vanno inclusi, ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 917 del 1986,
“anche i redditi del socio accomandante di società in accomandita
semplice”.
2. – Secondo il rimettente la disposizione censurata,
“assoggettando dunque alla contribuzione previdenziale anche i
redditi di società di persone”, come società in nome collettivo e
società in accomandita semplice, e non potendosi interpretare nel
senso di escludere tali redditi dall’ammontare del contributo
percentuale annuo, si pone in contrasto con gli artt. 3, 38, secondo
comma, e 53 della Costituzione.
La norma verrebbe, infatti, a determinare una ingiustificata
discriminazione tra socio accomandante di società semplice e socio
di società di capitali, “in quanto soltanto il reddito societario
del primo è sottoposto a contribuzione INPS, e ciò benché vi sia
sostanziale identità di natura tra le due tipologie di reddito (e
quindi identità di posizione, sotto il profilo che interessa, tra le
due categorie di soci), nel senso che entrambe si determinano senza
il concorso di alcuna attività lavorativa, ma in conseguenza della
sottoscrizione di quote di capitale sociale con versamento degli
importi corrispondenti e a seguito della formazione degli utili”.
Quanto all’art. 38, secondo comma, della Costituzione, il
rimettente sostiene che tale disposizione, nel prevedere il diritto
al trattamento pensionistico per i lavoratori, “esclude che al
sistema contributivo previdenziale possa concorrere un reddito non da
lavoro”; sicché, non si comprende “a quale titolo un reddito non
ricollegabile ad una prestazione lavorativa, come quello appunto di
socio accomandante di una società in accomandita semplice, debba
contribuire al sistema pensionistico”.
Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata “mal pare
accordarsi”, inoltre, “con l’art. 53 della Costituzione che sancisce
il principio della capacità contributiva complessiva ai soli fini
fiscali e non anche contributivo-previdenziali”, sicché, se ai fini
fiscali, “è corretto ritenere qualunque reddito oggetto di
tassazione”, ai fini previdenziali “soltanto i redditi da lavoro
possono costituire oggetto di prelievo contributivo”.
Secondo l’ordinanza l’art. 3-bis censurato non si sottrae,
infine, a dubbi di “manifesta irragionevolezza”, giacché, “al solo
malcelato scopo di ampliare la base contributiva, assoggetta a
contribuzione quello che nella sostanza, al di là della
qualificazione formale operata dall’art. 6, terzo comma, del d.P.R.
n. 917 del 1986 a soli fini fiscali, è un mero reddito da capitale”.
3. – Si è costituito il ricorrente nel giudizio a quo per sentir
“dichiarare l’incostituzionalità dell’interpretazione attribuita
dall’INPS” alla disposizione denunciata, ovvero per sentir dichiarare
l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione, in
ragione degli stessi profili di censura argomentati dal rimettente.
4. – Si è costituito anche l’INPS, concludendo per
l’inammissibilità o l’infondatezza della questione.
Ad avviso della difesa dell’Ente previdenziale, la censura di
violazione dell’art. 3 della Costituzione sarebbe “inammissibile per
errata individuazione del tertium comparationis”, a causa della
sostanziale differenza tra i redditi (ed il relativo regime fiscale)
del socio di società di persone e quelli del socio di società di
capitali, tale da non consentire di porre in relazione “i due
trattamenti” ai fini del giudizio di legittimità costituzionale.
Quanto, poi, all’art. 38, secondo comma, della Costituzione,
l’INPS nega che tale norma ponga “limiti al legislatore nella
individuazione delle basi imponibili contributive”, il cui gettito
vale a finanziare la spesa pensionistica.
Nel sostenere, inoltre, che la sollevata questione involge un
vaglio sulla discrezionalità legislativa che non può essere rimesso
alla Corte costituzionale, la parte osserva, quanto alla censura di
violazione dell’art. 53 della Costituzione, che il principio della
capacità contributiva, ammesso che sia “invocabile in materia
contributivo-previdenziale”, postula un “sacrificio in assenza di
corrispettività e divisibilità dei servizi sociali approntati dallo
Stato; mentre nella fattispecie, all’aumento del montante
contributivo” fa riscontro “un miglior trattamento economico
previdenziale futuro”.
5. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha concluso per la manifesta infondatezza della questione.
Secondo la difesa erariale l’asserito vulnus all’art. 3 della
Costituzione risulta “ictu oculi insussistente”, essendo poste in
comparazione due “situazioni giuridiche oggettivamente disomogenee”.
Quanto alle ulteriori censure, l’Avvocatura dello Stato ritiene
che rientri nella discrezionalità legislativa determinare,
razionalmente e tenuto conto delle disponibilità finanziare,
l’ammontare delle prestazioni previdenziali, non senza rilevare che
lo stesso art. 38 della Costituzione “non garantisce la
corrispondenza tra prestazioni e contributi essendo sufficiente che
al soggetto destinatario siano attribuite adeguate prestazioni
previdenziali”.
6. – In prossimità dell’udienza hanno depositato memorie
illustrative entrambe le parti del giudizio a quo.
6.1. – La difesa del ricorrente, nell’insistere nelle conclusioni
già rassegnate, rileva che la norma denunciata sottopone a
contribuzione previdenziale “un reddito non di lavoro prodotto dal
capitale investito in società in accomandita semplice da socio
accomandante” che non è né lavoratore, né gestore della società.
Donde, in primo luogo, la violazione dell’art. 3 della
Costituzione, per ingiustificata disparità di trattamento tra socio
di società in accomandita semplice e socio di società di capitali.
La memoria, nel sostenere, altresì, che la disposizione
censurata sarebbe “del tutto irrazionale”, imponendo l’obbligo di
contribuzione a chi non è lavoratore, ma soltanto percettore di un
reddito di capitale, e, dunque, “in carenza del presupposto
essenziale, costituito dalla prestazione di lavoro nella società”,
evidenzia, infine, la violazione dell’art. 53 della Costituzione, in
quanto la norma denunciata estende “anche a fini contributivi il
principio di reddito complessivo da assoggettare a contribuzione,
deformando il criterio fissato” dal predetto articolo.
6.2. – L’INPS, nell’insistere per l’inammissibilità o, comunque,
per la manifesta infondatezza della sollevata questione, ribadisce le
eccezioni già proposte, con ulteriori più diffuse argomentazioni,
osservando, tra l’altro, che l’eventuale accoglimento della questione
comporterebbe “un’irrazionale difformità del sistema normativo”, in
quanto “i redditi di cui trattasi non verrebbero compresi …
nell’imponibile contributivo, mentre rimarrebbero assoggettati alla
disciplina fiscale dei redditi di impresa, proprio nel momento in
cui, fra l’altro, il legislatore ha voluto e disciplinato
l’armonizzazione degli imponibili fiscali e contributivi”.
In riferimento, poi, al prospettato vulnus dell’art. 38, secondo
comma, della Costituzione, la memoria rileva che la norma non pone
“vincoli al legislatore quanto alle fonti di finanziamento del
sistema previdenziale obbligatorio”, sì da consentire l’adozione di
“forme alternative di finanziamento che comportino la traslazione di
parte degli oneri sociali dalle retribuzioni dei lavoratori (autonomi
o subordinati) al cd. valore aggiunto aziendale, ossia al reddito di
impresa” (come ad es. nel caso dell’obbligo, stabilito dall’art. 2,
comma 29, della legge n. 335 del 1995, di finanziamento dell’intero
sistema previdenziale a carico dei lavoratori autonomi
parasubordinati).
solleva questione di legittimità costituzionale del comma 1
dell’art. 3-bis del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure
urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego,
nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella
legge 14 novembre 1992, n. 438.
La norma denunciata dispone che, per i soggetti di cui all’art. 1
della legge 2 agosto 1990, n. 233 – e cioè quelli iscritti alle
gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli
artigiani e degli esercenti attività commerciali, titolari,
coadiuvanti e coadiutori – l’ammontare del contributo annuo dovuto a
fini pensionistici “è rapportato alla totalità dei redditi di
impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi
stessi si riferiscono”. Redditi di impresa, fra i quali vanno
annoverati, secondo l’art. 6 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, “i
redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice,
da qualsiasi fonte provengano e quale sia l’oggetto sociale”.
2. – Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione denunciata
si pone in contrasto con:
l’art. 3 della Costituzione, per l’ingiustificata
discriminazione tra socio accomandante di società in accomandita
semplice e socio di società di capitali, “in quanto soltanto il
reddito societario del primo è sottoposto a contribuzione INPS, e
ciò benché vi sia sostanziale identità di natura tra le due
tipologie di reddito”, … “nel senso che entrambe si determinano
senza il concorso di alcuna attività lavorativa”;
l’art. 38, secondo comma, della Costituzione, che, nel
prevedere il diritto al trattamento pensionistico per i lavoratori,
“esclude che al sistema contributivo previdenziale possa concorrere
un reddito non da lavoro”;
l’art. 53 della Costituzione – “che sancisce il principio
della capacità contributiva complessiva ai soli fini fiscali e non
anche contributivo-previdenziali” – sicché, se ai fini fiscali “è
corretto ritenere qualunque reddito oggetto di tassazione”, ai fini
previdenziali “soltanto i redditi da lavoro possono costituire
oggetto di prelievo contributivo”;
il principio di “ragionevolezza”, giacché, “al solo
malcelato scopo di ampliare la base contributiva, assoggetta a
contribuzione quello che nella sostanza, al di là della
qualificazione formale operata dall’art. 6, terzo comma, del d.P.R.
n. 917 del 1986 a soli fini fiscali, è un mero reddito da capitale”.
3. – La questione non è fondata, sotto alcuno dei prospettati
profili.
4. – Nell’ipotizzare, anzitutto, la discriminazione tra socio di
società in accomandita semplice e socio di società di capitali, in
vista dell’apporto al sistema contributivo della gestione
previdenziale degli esercenti attività commerciali previsto dalla
disposizione denunciata per i redditi di impresa di cui sia titolare
l’iscritto, il rimettente muove dal presupposto della “sostanziale
identità di natura tra le due tipologie di redditi” e, quindi, di
una identità di posizioni fra i relativi percettori, giacché in
entrambi i casi non vi sarebbe “il concorso di alcuna attività
lavorativa”, bensì la mera sottoscrizione di quote del capitale
sociale.
Giova rammentare che, secondo il d.P.R. n. 917 del 1986, cui la
norma denunciata fa rinvio, mentre i redditi da capitale
costituiscono gli utili che il socio consegue per effetto della
partecipazione in società dotate di personalità giuridica
(art. 41), soggette, a loro volta, all’imposta sul reddito dalle
stesse conseguito, i redditi c.d. di impresa di cui fruisce il socio
delle società in accomandita semplice (così come, del resto, il
socio delle società in nome collettivo) sono i redditi delle stesse
società, inclusi nella predetta categoria, come già visto,
dall’art. 6 del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986, e, al tempo stesso,
da imputare “a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione”,
proporzionalmente alla “quota di partecipazione agli utili”, in forza
del precedente art. 5 (redditi prodotti in forma associata). Ciò fa
sì, appunto, che il reddito prodotto dalle società in accomandita
semplice sia reddito proprio del socio, realizzandosi, in virtù del
predetto art. 5, come questa Corte ha già avuto occasione di
rilevare, sia pure agli specifici fini tributari, “l’immedesimazione”
fra società partecipata e socio (ordinanza n. 53 del 2001).
Così richiamato, sia pure in estrema sintesi, il quadro
normativo in cui si collocano le situazioni poste a raffronto, non
può reputarsi discriminatoria una disposizione quale quella
denunciata, atteso il preminente rilievo che, nell’ambito delle
società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo),
assume, a differenza delle società di capitali, l’elemento
personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice
apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più
persone, in vista dello svolgimento di una attività produttiva
riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il
vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante.
5. – Le ragioni di cui sopra portano ad escludere, al tempo
stesso, la fondatezza della censura formulata sotto il profilo della
“manifesta irragionevolezza” della disposizione medesima, che avrebbe
assoggettato “a contribuzione quello che nella sostanza … è un
mero reddito da capitale”; censura che, a ben vedere, non rappresenta
altro che una riproposizione, in termini diversi, di quella testé
esaminata.
Ad ulteriore e decisivo supporto della non irragionevolezza della
scelta operata dal legislatore, nell’esercizio della discrezionalità
di cui gode in materia, va soggiunto che all’onere contributivo si
correla un vantaggio in termini di prestazione previdenziale,
essendo, in virtù dell’art. 5 della legge n. 233 del 1990, anche la
misura dei trattamenti rapportata al reddito annuo di impresa.
Sicché, all’ampliamento della base contributiva corrisponde,
appunto, l’ampliamento della base pensionabile, con evidente riflesso
positivo sulla misura della prestazione e, dunque, in armonia con la
garanzia previdenziale assicurata dall’art. 38, secondo comma, della
Costituzione.
6. – Del pari infondata è la censura di violazione dell’art. 38,
secondo comma, della Costituzione, prospettata dal rimettente sul
presupposto che detta norma, prevedendo il diritto al trattamento
pensionistico per i lavoratori, escluderebbe che al sistema
contributivo possa concorrere un reddito non di lavoro.
Senonché l’intima ed indefettibile correlazione, postulata dal
rimettente, tra contribuzione e reddito di lavoro non trova riscontro
nel modello di previdenza sociale che è dato desumere dall’invocato
precetto costituzionale. Precetto, rivolto, oltretutto, più che a
definire le fonti di finanziamento del sistema, a segnare il livello
di tutela che deve essere garantito attraverso le prestazioni
previdenziali.
Un modello, dunque, che, come si evince dall’evoluzione
legislativa avutasi in materia, non ha impedito, in virtù dei
principi solidaristici cui si ispira, da un lato, l’estensione della
protezione a categorie contigue a quelle caratterizzate dagli schemi
più consolidati in cui si risolve lo svolgimento di attività
lavorativa; e dall’altro, accanto alla previsione di un apporto
finanziario al sistema da parte della stessa collettività generale,
anche la commisurazione della contribuzione a basi di riferimento non
costituite, solo ed esclusivamente, dal reddito che trova causa nel
rapporto di lavoro. In proposito, è sufficiente rifarsi alle più
recenti riforme in materia che evidenziano, infatti, il passaggio ad
una più ampia accezione di base contributiva imponibile, tale da
ricomprendere non solo il corrispettivo dell’attività di lavoro, ma
anche altre attribuzioni economiche che nell’attività stessa
rinvengono soltanto mera occasione.
Ed è in forza di siffatta evoluzione che si è venuta a
realizzare, nel tempo, anche la convergenza, pur nella rispettiva
autonomia di regimi, tra disciplina fiscale e disciplina
previdenziale, quanto alla definizione proprio della base imponibile,
a testimonianza di una esigenza di tendenziale armonizzazione in
materia. Convergenza ascrivibile, in primo luogo, proprio alla
disposizione censurata, la quale, nel rapportare la contribuzione
previdenziale alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini
IRPEF, e non più soltanto al reddito annuo derivante dall’attività
d’impresa che dà titolo all’iscrizione (art. 1 della legge n. 233
del 1990), assume una base imponibile corrispondente a quella
dell’ambito tributario; e, successivamente, al decreto legislativo
2 settembre 1997, n. 314, recante “Armonizzazione, razionalizzazione
e semplificazione delle disposizioni fiscali e previdenziali
concernenti i redditi di lavoro dipendente e dei relativi adempimenti
da parte dei datori di lavoro”, che ha accolto una nozione di reddito
da lavoro utilizzabile, in linea di massima, sia a fini contributivi
che a fini tributari.
7. – Infine, è da ritenere inconferente il riferimento
all’art. 53 della Costituzione. E ciò a causa della non
assimilabilità all’imposizione tributaria vera e propria della
contribuzione previdenziale (da ultimo, cfr. sentenza n. 178 del
2000); contribuzione, nel cui ambito, una volta disatteso il
presupposto della imprescindibile correlazione tra prelievo
contributivo e reddito di lavoro dal quale muove il giudice a quo va
fatto rientrare l’obbligo imposto dalla norma denunciata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 3-bis del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure
urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego,
nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella
legge 14 novembre 1992, n. 438, sollevata, in riferimento agli
artt. 3, 38, secondo comma, e 53 della Costituzione, dal Tribunale di
Ancona, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2001.
Il Presidente: Santosuosso
Il redattore: Vari
Il cancelliere: Fruscella
Depositata in cancelleria il 7 novembre 2001.
Il cancelliere: Fruscella