Sentenza N. 355 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
22/10/1996
Data deposito/pubblicazione
22/10/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
14/10/1996
Presidente: prof. Enzo Cheli;
Giudici: dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.
Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando
SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
5, della legge della Regione Lazio 5 maggio 1993, n. 27 (Norme per la
coltivazione delle cave e torbiere della Regione Lazio), promosso con
ordinanza emessa il 28 giugno 1995 dal pretore di Roma nel
procedimento penale a carico di Piero Mantoni ed altro, iscritta al
n. 602 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno
1995;
Udito nella camera di consiglio del 29 maggio 1996 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
imputate, tra l’altro, della contravvenzione di cui agli artt. 110
del codice penale e 1-sexies del d.-l. 25 giugno 1985, n. 312
(Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare
interesse ambientale), aggiunto dalla legge di conversione 8 agosto
1985, n. 431, per avere intrapreso e condotto un’attività di cava in
un territorio sottoposto a vincolo paesaggistico, ai sensi della
legge n. 431 del 1985, in quanto zona dichiarata di notevole
interesse pubblico e ricompresa nel comprensorio della Valle del
Tevere, il pretore di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 25
e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 39, commi 4 e 5, della legge della Regione Lazio 5 maggio
1993, n. 27 (Norme per la coltivazione delle cave e torbiere della
Regione Lazio).
Tale legge, nel dettare una nuova disciplina dell’attività di
coltivazione delle cave, prevede un regime transitorio per le
attività di cava in corso al momento della entrata in vigore della
legge stessa, e stabilisce, all’art. 39, comma 4, che in presenza di
vincoli ambientali imposti successivamente al legittimo inizio della
attività estrattiva, i lavori di coltivazione possano proseguire,
restando, però, a carico dell’esercente l’onere di presentare entro
novanta giorni, all’autorità competente in materia di tutela
ambientale, un progetto corredato dallo studio di impatto ambientale.
Per l’ipotesi di mancato rilascio del nulla-osta dell’autorità
competente entro centottanta giorni dalla richiesta, il quinto comma
dello stesso articolo prevede che i lavori di coltivazione delle cave
debbano cessare e che l’interessato sia tenuto alla sistemazione
dell’area.
Il giudice a quo, quanto alla rilevanza della questione, afferma di
dover dare applicazione alle disposizioni ora indicate, sia perché
l’attività di cavazione dovrebbe ritenersi, nella specie,
legittimamente iniziata prima della imposizione del vincolo
paesaggistico, avvenuta attraverso l’inserimento dell’area
interessata nel comprensorio della Valle del Tevere, sia perché
sarebbe stata tempestivamente proposta l’istanza di cui al comma 4
del citato art. 39, sulla quale la Regione si è poi riservata di
provvedere, in attesa del parere della commissione regionale
consultiva, ritenendo comunque sospeso il termine di centottanta
giorni previsto dall’art. 39, comma 5. Dall’applicazione di tali
disposizioni, ad avviso del giudice remittente, discenderebbe la
liceità della prosecuzione dell’attività e risulterebbe preclusa
qualsiasi valutazione di compromissione ambientale, in contrasto con
l’interpretazione delle sezioni unite della Corte di cassazione,
secondo la quale, viceversa, spetterebbe al giudice accertare, ai
fini della sussistenza del reato di cui all’art. 1-sexies, se sia o
meno già avvenuta una compromissione dell’ambiente e si sia già
verificato un danno ambientale.
Né la rilevanza della questione potrebbe ritenersi esclusa sulla
base del rilievo che sulla istanza presentata dall’imputato non sia
ancora intervenuto un provvedimento della Regione; un provvedimento
di diniego renderebbe illecita la prosecuzione dei lavori de futuro,
ma non anche dei lavori pregressi, dei quali si controverte, che
risulterebbero dalla norma stessa retroattivamente autorizzati e
quindi resi leciti.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva
che le disposizioni impugnate, proprio perché renderebbero lecite
condotte sanzionate penalmente dalla legislazione statale, si
porrebbero in contrasto con la previsione generale di cui agli artt.
117 e 25, secondo comma, della Costituzione, per i quali solo lo
Stato può legiferare in materia penale.
in riferimento agli artt. 25 e 117 della Costituzione, dell’art. 39
della legge della Regione Lazio 5 maggio 1993, n. 27 (Norme per la
coltivazione delle cave e delle torbiere della Regione Lazio), il
quale prevede che, in presenza di vincoli ambientali imposti
successivamente al legittimo inizio dell’attività estrattiva, i
lavori di coltivazione proseguano, restando a carico dell’interessato
l’onere di presentare all’autorità competente alla gestione del
vincolo, entro il termine di novanta giorni dall’entrata in vigore
della legge, un progetto corredato dallo studio di impatto ambientale
(comma 4), e che, solo in caso di mancato rilascio del nulla-osta
entro centottanta giorni dalla richiesta, i lavori cessino e
l’interessato provveda alla sistemazione dell’area (comma 5).
Ad avviso del giudice a quo, le disposizioni censurate, in quanto
riferibili a vincoli paesaggistici imposti prima della loro entrata
in vigore, sarebbero lesive degli artt. 25 e 117 della Costituzione,
poiché renderebbero lecita per il passato un’attività sanzionata
penalmente dalla legge dello Stato (art. 1-sexies del d.-l. 25 giugno
1985, n. 312, aggiunto dalla legge di conversione 8 agosto 1985, n.
431).
2. – La questione è infondata, perché muove da premesse
interpretative che non possono essere a pieno condivise.
L’ordinanza di rimessione si basa, in punto di diritto, sulla
sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione 7 marzo 1992,
Midolini, il cui contenuto viene inteso nel senso che, in relazione
ad attività di coltivazione di cava legittimamente iniziata prima
della entrata in vigore della legge n. 431 del 1985, o comunque prima
della imposizione di un vincolo paesaggistico, e proseguita
successivamente, il giudice dovrebbe accertare, ai fini della
sussistenza del reato di cui all’art. 1-sexies del d.-l. 25 giugno
1985, n. 312, aggiunto dalla legge n. 431 del 1985, se vi sia stata
o meno compromissione ambientale. Da una simile premessa l’ordinanza
trae la conseguenza che la legge regionale, consentendo la
prosecuzione dell’attività estrattiva fino al completamento del
complesso procedimento in essa previsto, violerebbe la riserva
statale in materia penale, poiché precluderebbe al giudice la
valutazione che la legge gli affida.
Come si è detto, però, tali interpretazioni della sentenza delle
sezioni unite e della legge regionale, date dal giudice a quo, non
appaiono esatte.
La Corte di cassazione, nella sentenza del 7 marzo 1992,
nell’affrontare il problema derivante dalla assenza di una disciplina
transitoria per l’ipotesi di vincoli paesaggistici sopravvenuti al
legittimo inizio di attività di cavazione, lo ha risolto sulla base
della netta distinzione tra lavori autorizzati ma non ancora iniziati
e lavori autorizzati e già iniziati. In relazione ai primi,
l’imposizione del vincolo preclude la possibilità di dare inizio
all’attività prima di una specifica autorizzazione proveniente
dall’autorità preposta alla tutela del paesaggio; in relazione ai
secondi, il sopravvenire del vincolo non determina, ipso iure, né la
caducazione del provvedimento autorizzatorio già assentito, né
l’illiceità della prosecuzione dell’attività di cavazione. In tali
casi, infatti, la valutazione se la prosecuzione dei lavori
legittimamente iniziati possa determinare l’aggravarsi di un danno
ambientale non può che essere rimessa alla pubblica amministrazione,
che è dotata dei poteri di sospensione dei lavori e di revoca delle
autorizzazioni.
Secondo la sentenza richiamata dal giudice a quo, discernere se
l’attività già compiuta al sopravvenire del vincolo abbia
determinato un pregiudizio irreversibile del bene protetto, ovvero se
questo possa subire danni ulteriori, non è compito che si addica al
giudice, in considerazione della molteplicità degli interessi
coinvolti e della esigenza di certezza, particolarmente stringente in
materia penale. Ed in effetti, il compito del giudice penale deve
essere limitato all’accertamento, ancorato ad un parametro preciso ed
oggettivo, se, nel momento in cui il vincolo paesaggistico è entrato
in vigore, vi sia già stata una reale e rilevante modificazione
dell’ambiente. L’ulteriore valutazione della incidenza della
prosecuzione dei lavori di cavazione sul paesaggio e la scelta degli
strumenti più appropriati di salvaguardia oltrepassa la competenza
del giudice penale ed investe appieno i poteri e i doveri di
ponderazione propri dell’amministrazione preposta alla tutela del
vincolo ambientale.
L’anzidetto criterio di ripartizione delle competenze tra giudice
penale e pubblica amministrazione, appare a questa Corte ragionevole,
pur nella consapevolezza dell’esistenza di indirizzi
giurisprudenziali differen-ziati. Si versa, infatti, in una materia
in cui la già avvenuta alterazione dell’ambiente nel legittimo
esercizio di un’attività produttiva, richiede, proprio al fine di
una migliore tutela dell’ambiente stesso, strumenti di intervento
flessibili ed adeguati (quali ad esempio la temporanea sospensione
dei lavori, ovvero l’adozione di prescrizioni puntuali tese ad
alleviare l’impatto delle opere, ovvero ancora la revoca immediata
nei casi in cui appaia più manifesto l’aggravarsi del danno
all’ambiente), dei quali il giudice penale non dispone.
Peraltro, affinché tale riparto di compiti e funzioni risulti
equilibrato e conforme all’assetto dell’insieme dei valori
costituzionali coinvolti (certezza delle fattispecie incriminatrici,
contenimento della discrezionalità del giudice penale in presenza di
valutazioni complesse, ma anche tutela efficace del paesaggio e
dell’ambiente a fronte di un legittimo esercizio di attività
economiche), la pubblica amministrazione è costituzionalmente
vincolata, al di là della disciplina posta dalle leggi che regolano
in via generale i procedimenti di controllo, ad impiegare con
prontezza e sollecitudine tutti gli strumenti repressivi e di
salvaguardia dei quali dispone, quando se ne ravvisi la necessità
(v., ad esempio, art. 8 della legge n. 1497 del 1939).
3. – La legge regionale, di cui si controverte, innova occorre
sottolinearlo una precedente legge della stessa Regione, che già
prevedeva, ai fini dell’autorizzazione dell’attività di cavazione,
uno scrutinio, da parte dell’amministrazione, circa l’impatto
ambientale e paesaggistico di tale attività (legge reg. 16 gennaio
1980, n. 1, Norme per la coltivazione di cave e torbiere nella
Regione Lazio).
L’impugnato art. 39 della legge regionale n. 27 del 1993, nel
regolamentare, nell’ambito di una disciplina complessiva della
coltivazione delle cave, un procedimento finalizzato all’adozione di
un eventuale provvedimento di revoca, per il caso che un vincolo
ambientale sia stato imposto successivamente al legittimo inizio
dell’attività (provvedimento che può intervenire anche nelle forme
del silenzio-diniego, trascorsi centottanta giorni dalla
presentazione della domanda da parte dell’interessato), altro non fa
se non organizzare il doveroso esercizio delle competenze della
Regione nella materia interessata dal vincolo. Non si tratta, quindi,
di una legge regionale di sanatoria indiscriminata, volta a rendere
retroattivamente lecite condotte penalmente sanzionate, in quanto
presupposto delle fattispecie da essa regolate è il legittimo inizio
dell’attività di cavazione, da intendersi, però, lo si è detto,
come già intervenuta e rilevante modificazione dell’ambiente, che
segna il discrimine tra valutazione rimessa alla pubblica
amministrazione competente e illecito penale.
In considerazione dei fondamentali valori coinvolti nella materia
disciplinata dalle disposizioni censurate, si deve sottolineare, da
una parte, che la legge regionale non fa venir meno i concorrenti
poteri di salvaguardia e di tutela del paesaggio che spettano
comunque alla Regione, e, dall’altra, che, essendo il procedimento
ordinato secondo scansioni temporali rigorose, lo spirare del termine
stabilito per il suo compimento comporta il formarsi di un
provvedimento di diniego e, nell’ipotesi del protrarsi dell’attività
di cavazione, la sicura configurabilità del reato previsto dall’art.
1-sexies del decreto-legge n. 312 del 1985, aggiunto dalla legge di
conversione n. 431 del 1985.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 39, commi 4 e 5, della legge della Regione Lazio 5 maggio
1993, n. 27 (Norme per la coltivazione delle cave e delle torbiere
della Regione Lazio), sollevata, in riferimento agli artt. 25 e 117
della Costituzione, dal pretore di Roma con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 ottobre 1996.
Il Presidente: Cheli
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 22 ottobre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola