Sentenza N. 361 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
24/10/1996
Data deposito/pubblicazione
24/10/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
17/10/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA,
prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare
MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott.
Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY,
prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di
finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa il 10 maggio 1995
dal Pretore di Parma nei procedimenti civili riuniti vertenti tra
Fochi Lamberto ed altri e l’I.N.P.S., iscritta al n. 782 del registro
ordinanze 1995 e pubbblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 1995;
Visti gli atti di costituzione di Tanzi Anna e dell’I.N.P.S.,
nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 1 ottobre 1996 il giudice relatore
Luigi Mengoni;
Uditi gli avv.ti Franco Agostini e Luciano Ventura per Tanzi Anna,
Carlo De Angelis per l’I.N.P.S. e l’avvocato dello Stato Plinio
Sacchetto per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Fochi e altri contro l’INPS per ottenere la rivalutazione e gli
interessi su somme percepite a titolo di ratei arretrati di pensione,
il pretore di Parma, con ordinanza del 10 maggio 1995, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 6, della legge 30
dicembre 1991, n. 412, nella parte in cui non prevede per i crediti
previdenziali, a differenza dei crediti di lavoro, il cumulo degli
interessi legali con la rivalutazione monetaria in caso di pagamento
ritardato.
Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione impugnata, che ha
ripristinato per i crediti previdenziali la regola del non cumulo
della rivalutazione con gli interessi di mora, ripropone il contrasto
con gli artt. 3 e 38 della Costituzione che questa Corte, con la
sentenza n. 156 del 1991, aveva ravvisato nell’art. 442
cod.proc.civ., conseguentemente dichiarandone l’illegittimità nella
parte in cui, diversamente dall’art. 429, terzo comma, concernente i
crediti di lavoro, non prevedeva anche per i creditori di prestazioni
previdenziali il diritto di ottenere il maggior danno da svalutazione
monetaria in aggiunta agli interessi legali.
In punto di rilevanza si osserva che nei primi tre anni successivi
all’entrata in vigore della legge impugnata era prevalsa nella
giurisprudenza della Corte di cassazione l’interpretazione che,
ritenendo modificata dall’art. 16, comma 6, la stessa fattispecie
della responsabilità del debitore per ritardato pagamento, escludeva
l’applicabilità della nuova disciplina quando i presupposti della
responsabilità si fossero interamente verificati entro il 31
dicembre 1991, sul riflesso che la prestazione previdenziale deve
essere considerata unitariamente nella sua consistenza globale,
indipendentemente dal frazionamento in una pluralità di ratei. In
conformità di tale giurisprudenza, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 16, comma 6, è stata più volte dichiarata
inammissibile per irrilevanza in casi in cui la fattispecie della
responsabilità dell’ente previdenziale risultava perfezionata prima
della data suddetta.
Questa giurisprudenza, ad avviso del giudice a quo, deve ritenersi
ormai superata dall’opposto orientamento che è venuto consolidandosi
a partire della sentenza della Corte di cassazione n. 8826 del 1994,
sicché la distinzione tra fattispecie perfezionatesi entro o dopo il
31 dicembre 1991 non è più un criterio di rilevanza della sollevata
questione di costituzionalità.
2.1. Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si è
costituita una delle parti private chiedendo la dichiarazione di
illegittimità costituzionale della norma impugnata in conformità
dell’ordinanza di rimessione.
In una memoria successiva la parte costituita richiama l’art. 22,
comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (non considerato dal
giudice a quo), secondo cui “l’art. 16, comma 6, della legge n. 412
del 1991 si applica anche ai crediti retributivi, previdenziali e
assistenziali, per i quali non sia maturato il diritto alla
percezione entro il 31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti
pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza”. Si
osserva che, per i crediti previdenziali o assistenziali, è
difficile conciliare questa norma con la legge precedente del 1991
che aveva fissato la cessazione del beneficio del cumulo di interessi
e svalutazione allo scadere del 31 dicembre 1991, mentre la nuova
legge sembra averla spostata al 31 dicembre 1994 allineando i crediti
previdenziali e assistenziali ai crediti di lavoro.
In una ulteriore memoria la parte privata sostiene che la
collocazione del citato art. 22, comma 36, imporrebbe di intenderne
il riferimento ai “dipendenti privati” limitatamente ai lavoratori
assunti da pubbliche amministrazioni con contratti di diritto
privato, sicché la discriminazione censurata dal giudice rimettente
rimarrebbe ferma in rapporto ai crediti di lavoro nel settore
privato.
2.2. – Si è pure costituito l’INPS chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.
L’inammissibilità è eccepita sul rilievo che nella specie si
tratta di pensione riliquidata d’ufficio senza domanda da parte del
titolare, sicché, alla stregua della sentenza n. 156 del 1991 di
questa Corte, mancherebbe il presupposto del diritto agli interessi
di mora e alla rivalutazione.
Nel merito l’Istituto rileva che in materia previdenziale il cumulo
fra rivalutazione monetaria e interessi moratori non grava su un
datore di lavoro privato, ma sul bilancio pubblico, e questo dato fa
una rilevante differenza rispetto ai crediti di lavoro. Con l’art.
16, comma 6, della legge finanziaria per il 1992, orientata a una
più rigorosa programmazione di bilancio imposta dagli impegni
assunti col trattato di Maastricht, il Parlamento ha voluto limitare
l’incidenza degli oneri finanziari derivanti dalla sentenza n. 156
del 1991 senza copertura finanziaria. Il vincolo delle disponibilità
di bilancio, che condiziona l’attuazione dell’art. 38, secondo comma,
Cost., è stato più volte riconosciuto da questa Corte, in
particolare, con specifico riguardo alla legge n. 412 del 1991, dalla
sentenza n. 207 del 1994.
3. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, chiedendo una
dichiarazione di manifesta inammissibilità per irrilevanza.
Secondo l’interveniente, la giurisprudenza su cui si fonda il
precedente specifico di questa Corte, costituito dalla sentenza n.
394 del 1992, non può dirsi superata dalla sentenza della Corte di
cassazione n. 8826 del 1994 richiamata dal giudice rimettente,
considerato che l’originario orientamento è stato ribadito più
volte da sentenze successive.
3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (legge
finanziaria per il 1992), nella parte in cui non prevede per i
crediti previdenziali, diversamente dai crediti di lavoro, il cumulo
degli interessi legali con la rivalutazione monetaria in caso di
pagamento ritardato.
2.1. – Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità
opposta dall’Avvocatura dello Stato. La giurisprudenza della Corte di
cassazione, prevalente fino al 1994, in conformità della quale
questa Corte ha dichiarato inammissibile la questione quando la
fattispecie della responsabilità del debitore per ritardo
dell’adempimento si fosse perfezionata anteriormente all’entrata in
vigore della legge n. 412 del 1991 (cfr. sentenza n. 394 del 1992,
seguita da una serie di ordinanze di manifesta inammissibilità, di
cui l’ultima è l’ordinanza n. 441 del 1995), deve ormai ritenersi
superata dopo la sentenza delle Sezioni unite n. 5895 del 1996. Pur
ribadendo che la portata della norma in esame non si esaurisce in una
semplice modificazione quantitativa degli effetti del ritardo, ma ha
mutato la natura del credito previdenziale rispetto
all’interpretazione dominante dell’art. 429, terzo comma, cod.proc.
civ., la sentenza ha però abbandonato l’altra premessa
dell’orientamento precedente, secondo cui la responsabilità per
ritardato pagamento si stabilisce con riguardo al rapporto
previdenziale unitariamente considerato, indipendentemente dal
frazionamento della prestazione in una pluralità di ratei. Secondo
la nuova giurisprudenza, invece, condivisa dall’ordinanza di
rimessione, le conseguenze del ritardo devono essere valutate in
rapporto alla scadenza dei singoli ratei, con conseguente
applicabilità del ius superveniens anche ai rapporti insorti prima
dell’entrata in vigore della legge, limitatamente ai ratei maturati
dopo.
Inaccoglibile è pure l’eccezione di inammissibilità avanzata
dall’INPS. Essa si fonda su una interpretazione della norma impugnata
– in ordine al requisito della domanda dell’interessato – contraria a
quella seguita dal giudice rimettente, dalla quale, essendo sostenuta
con argomenti non manifestamente implausibili, la Corte non ha
ragione di discostarsi ai fini della valutazione di rilevanza della
questione proposta.
2.2. – Il patrocinio della parte privata ha sollevato un problema
di coordinamento della norma impugnata con l’art. 22, comma 36, della
legge 23 dicembre 1994, n. 724, il quale, nell’estendere il campo di
applicazione dell’art. 16, comma 6, della legge n. 412 del 1991 “agli
emolumenti di natura retributiva … spettanti ai dipendenti pubblici
e privati”, menziona insieme con i crediti di lavoro anche i crediti
previdenziali e assistenziali, sebbene per questi il divieto di
cumulo della rivalutazione con gli interessi fosse operante già dal
1 gennaio 1992. Il problema, quale che ne sia la consistenza, è
irrilevante ai fini del giudizio a quo, nel quale si controverte di
ratei pensionistici maturati anteriormente all’entrata in vigore
della legge n. 724 del 1994 (1 gennaio 1995), onde si spiega
l’assenza nell’ordinanza di rimessione (ancorché emessa in data 10
maggio 1995) di riferimenti a questa legge.
3. – Nel merito la questione non è fondata.
L’illegittimità della norma denunziata è dedotta sul riflesso che
essa ha ripristinato “quella diversità di trattamento fra crediti
previdenziali e crediti di lavoro che la Corte ha giudicato
incostituzionale”. L’argomento trascura alcuni dati di sicura
rilevanza differenziatrice.
L’analogia funzionale delle prestazioni previdenziali con i crediti
di lavoro, ravvisata dalla sentenza n. 156 del 1991, muove
implicitamente dalla premessa della diversità strutturale delle due
categorie di crediti. Ne discende il corollario, esplicitamente
affermato, della non applicabilità diretta dell’art. 36 della
Costituzione ai crediti di pensione: ad essi tale norma è riferibile
solo indirettamente, “per il tramite e nella misura dell’art. 38”.
Ciò significa che l’interpretazione prevalsa dell’art. 429
cod.proc.civ., nel senso del cumulo di interessi e rivalutazione (poi
attenuata in ordine alla base di calcolo degli interessi), non è
trasferibile ai crediti previdenziali argomentando da una pretesa
identità di natura con i crediti di lavoro. Siffatto argomento è
estraneo alla citata sentenza n. 156, che ha fondato l’estensione
della regola del cumulo alle prestazioni previdenziali sul requisito
di adeguatezza alle esigenze di vita del lavoratore, enunciato
nell’art. 38, secondo comma, della Costituzione. Poiché la pensione
ha una funzione sostitutiva di un reddito di lavoro cessato, il detto
requisito richiama l’art. 36 come referente per la determinazione di
quelle esigenze.
Ma la commisurazione del trattamento pensionistico al reddito
percepito in costanza di rapporto di lavoro incontra un limite nel
necessario contemperamento della tutela del pensionato con le
disponibilità del bilancio pubblico, a carico del quale è
finanziato in buona parte il sistema previdenziale (cfr. sentenze nn.
220 del 1988 e 119 del 1991). Questa Corte ha più volte riconosciuto
che “l’art. 38 della Costituzione non esclude la possibilità di un
intervento legislativo che, per una inderogabile esigenza di
contenimento della spesa pubblica, riduca in maniera definitiva un
trattamento pensionistico in precedenza spettante” (sentenze nn. 240
del 1994 e 822 del 1988). Tanto più questa possibilità deve essere
ammessa per gli accessori del credito, in relazione a una normativa
che, in deroga al diritto comune dell’art. 1224 cod.civ., aggrava la
responsabilità dell’ente pubblico previdenziale attribuendo al
creditore il privilegio del coacervo della rivalutazione monetaria
con gli interessi.
Dopo la sentenza n. 156 dell’8 aprile 1991, in un contesto di
progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica, la
necessità di una più adeguata ponderazione dell’interesse
collettivo al contenimento della spesa pubblica è stata fatta valere
dal legislatore con la norma in esame, il cui inserimento nella legge
finanziaria mette in evidenza la “ratio autonoma”, già rilevata
dalla sentenza n. 207 del 1994, che rende la disposizione esaminata
non ingiustificata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412
(Disposizioni in materia di finanza pubblica), sollevata, in
riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione,
dal Pretore di Parma con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Mengoni
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 24 ottobre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola