Sentenza N. 369 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
02/11/1996
Data deposito/pubblicazione
02/11/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
17/10/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI,
prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare
RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof.
Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
d.-l. 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento nella
finanza pubblica) convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359, come
sostituito dall’art. 1, comma 65, della legge 28 dicembre 1995, n.
549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi
con ordinanze emesse il 17 gennaio 1996 dalla Corte d’appello di
Napoli, il 30 gennaio 1996 dal tribunale di Lecce, l’8 febbraio 1996
dalla Corte d’appello di Salerno, l’8 febbraio 1996 dal tribunale di
Lamezia Terme, il 2 febbraio 1996 (n.3 ordinanze) dal tribunale di
Palmi, il 17 gennaio 1996 dal tribunale di Firenze, il 29 febbraio
1996 (n. 2 ordinanze) dal tribunale di Larino, il 2 febbraio 1996
dalla Corte d’appello di Catania, il 20 febbraio 1996 dal tribunale
di Cosenza, il 30 gennaio 1996 dal tribunale di Benevento, il 24
gennaio 1996 dal tribunale di Napoli, il 5 marzo 1996 dal tribunale
di Messina, il 5 marzo 1996 dalla Corte di appello di Venezia, il 27
febbraio 1996 dal tribunale di Benevento, il 29 gennaio 1996 dal
tribunale di Brindisi e il 12 marzo 1996 dalla Corte di appello di
Roma rispettivamente iscritte ai nn. 269, 270, 352, 361, 370, 371,
372, 389, 397, 398, 403, 415, 447, 493, 494, 495, 522, 595, 601 del
registro ordinanze 1996 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 13, 17, 19, 20, 21, 23, 24, 26 e 27 – prima serie
speciale – dell’anno 1996;
Visti gli atti di costituzione di Vivacqua Lucia, di Como Bianca ed
altra, di Garufi Domenico, di Noli Vittoria, di Ambrosone Nicola, di
Ruggiero Elsa ed altri e di Massimo Lancellotti Paolo Enrico, nonché
gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 1 ottobre 1996 il giudice relatore
Renato Granata;
Uditi gli avv.ti Lucio Marotta e Giovanni Leone per Como Bianca ed
altra, Ivone Cacciavillani e Luigi Manzi per Noli Vittoria, Nicola
Ambrosone per Ambrosone Nicola, Carlo Tatarano e Giuseppe Lavitola
per Ruggiero Elsa ed altri e l’avvocato dello Stato Sergio Laporta
per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
oggetto domande di risarcimento danni da illegittima occupazione
acquisitiva di fondi di proprietà privata interessati dalla
realizzazione di opere pubbliche, le Corti di Appello di Napoli (n.
269 del 17 gennaio 1996), Salerno (n. 352 dell’8 febbraio 1996),
Venezia (n. 495 del 5 maggio 1996), Roma (n. 601 del 12 marzo 1996)
ed i tribunali di Lecce (n. 270 del 30 gennaio 1996), Lamezia Terme
(n. 361 dell’8 febbraio 1996), Palmi (nn. 370, 371, 372 del 2
febbraio 1996), Firenze (n. 389 del 17 gennaio 1996), Larino (nn. 397
e 398 del 29 febbraio 96), Catania (n. 403 del 2 febbraio 1996),
Cosenza (n. 415 del 20 febbraio 1996), Benevento (n. 447 del 30
gennaio 1996 e n. 522 del 27 febbraio 1996), Napoli (n. 493 del 24
gennaio 1996), Messina (n. 494 del 5 maggio 1996) e Brindisi (n. 595
del 28 gennaio 1996) hanno sollevato questione incidentale di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 65, della legge 28
dicembre 1995, n. 549, che ha sostituito il comma 6 dell’art. 5-bis
del precedente d.-l. 11 luglio 1992, n. 333 convertito in legge n.
359 dell’8 agosto 1992 nella parte in cui dispone che la disciplina
del predetto art. 5-bis in tema di stima dell’indennizzo
espropriativo si applica anche “in tutti i casi in cui non è stato
ancora determinato in via definitiva l’entità del risarcimento del
danno alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto (id est: della legge 8 agosto 1992, n. 359 di
conversione del decreto-legge n. 333 cit.). Sulla premessa che il
“risarcimento del danno”, cui fa riferimento la norma denunciata, sia
quello relativo alla perdita di proprietà nei casi di occupazione
acquisitiva (o c.d. accessione invertita) in favore della pubblica
amministrazione, tutte le autorità rimettenti hanno prospettato il
conseguente contrasto, sotto varie angolazioni della norma stessa.
Con l’art. 3 della Costituzione (cui la Corte di Salerno abbina, per
un profilo, l’art. 113), e quasi tutte (esclusi solo la Corte di
Salerno ed il tribunale di Larino) anche con l’art. 42 (cui il
tribunale di Palmi affianca l’art.2).
I tribunali di Lecce, Messina e Brindisi hanno ritenuto poi violato
l’art. 24 (che la Corte di Salerno invoca in combinato contesto con
l’art. 113); la Corte di Salerno ed i tribunali di Cosenza, Messina e
Brindisi hanno evocato inoltre l’art. 28; la Corte di Roma ed i
tribunali di Lecce, Lamezia Terme, Cosenza, Benevento e Messina,
hanno prospettato, la lesione anche dei valori garantiti dall’art.
97 Costituzione; ed il (solo) tribunale di Messina ha fatto, infine,
riferimento, agli artt. 10 e 11 della Costituzione, in relazione
all’art. 1 del Protocollo addizionale di Parigi 20 marzo 1952 della
Convenzione europea, e 17 della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo.
2. – In tutti i giudizi (tranne in quello sollevato con l’ordinanza
n. 447/1996) è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri
per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato.
La quale ha eccepito, in limine, l’inammissibilità in taluni
giudizi (quelli relativi alle ordinanze nn. 361, 415, 493), delle
questioni sollevate; ha preliminarmente, poi, nel merito sostenuto la
possibilità di una diversa esegesi – adeguatrice – del testo
denunciato; e contestato infine, in subordine, la fondatezza di ogni
censura anche alla stregua dell’interpretazione presupposta dai
giudici a quibus.
3. – Nei sei giudizi relativi alle ordinanze nn. 415, 493, 494,
495, 522, 595, 601 del 1996, si sono costituite anche le parti
private con argomentazioni sostanzialmente adesive, a quelle svolte
dai rispettivi giudici a quibus.
Nell’imminenza della udienza di discussione le difese delle parti
private costituite nei giudizi relativi alle ordinanze nn. 493, 494,
495 e 595 del 1996, nonché l’Avvocatura dello Stato, hanno
depositato ampie e articolate memorie che diffusamente ripercorrono i
rispettivi itinerari argomentativi.
Salerno, (rispettivamente) all’art. 5-bis della legge 1992, n. 359
nella sua interezza, ed al (solo) suo secondo comma, tutti i giudici
a quibus convergono, in sostanza, nel denunciare l’equiparazione,
operata dal legislatore del ’95, della disciplina del “risarcimento
del danno” alla disciplina concernente la determinazione della
indennità dovuta nel caso di espropriazione per pubblica utilità:
cioè l’art. 1, comma 6, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, che
ha sostituito l’art. 5-bis, comma 6, del d.-l. n. 333 del 1992,
convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359; quindi, in definitiva,
l’art. 5-bis, comma 6, così sostituito.
2. – L’identità della norma denunciata autorizza la riunione, per
connessione oggettiva, dei giudizi relativi a tutte le ordinanze in
epigrafe.
3. – Di detta norma è stato prospettato – come detto – il
contrasto con gli artt. 2, 3, 10, 11, 24, 28, 42, 97 e 113 della
Costituzione.
3.1. – Premessa ermeneutica condivisa da tutti i giudici a quibus
è quella per cui “il risarcimento del danno”, cui fa riferimento il
nuovo comma 6, dell’art. 5-bis, sia quello relativo alla perdita di
proprietà nei casi di occupazione acquisitiva tenuto conto che nella
materia de qua il solo altro risarcimento ipotizzabile è quello da
occupazione temporanea illegittima, per la determinazione del quale
è inconcepibile il ricorso ai criteri determinativi sopra menzionati
(così testualmente ordinanza n. 269 del 1996); reputandosi per ciò
“evidente l’intenzione del legislatore di equiparare del tutto, sul
piano patrimoniale, le conseguenze delle espropriazioni rituali a
quelle derivanti dalle illegittime ablazioni di fatto poste in essere
dalla pubblica amministrazione o dai soggetti per conto di essa
operanti, facendo salve solo (come già avvenuto nel 1992) le
determinazioni divenute inoppugnabili in sede amministrativa o per
effetto di giudicato”. E questa premessa, appunto, i giudici
remittenti pongono a base comune delle rispettive censure.
3.2. – In tale contesto, la violazione dell’art. 3 della
Costituzione, con varie sfumature argomentative, è denunciata
sostanzialmente sotto un quadruplice profilo di disparità di
trattamento (dei proprietari che abbiano subito illegittima
occupazione acquisitiva di suoli edificatori nei confronti
rispettivamente: a) dei soggetti danneggiati da altro tipo di
illecito; b) dei proprietari del pari illegittimamente privati di
fatto di loro immobili, ma per esigenze di edilizia abitativa nel
regime “risarcitorio” ex art. 3 della legge 1988, n. 458; c) dei
proprietari ritualmente espropriati; d) dei proprietari di suoli
agricoli); sotto un ulteriore profilo di irrazionale parificazione
del trattamento di situazioni ontologicamente diverse, quali quelle
dell’espropriazione secundum ius e dell’ablazione di fatto non iure;
sotto altro connesso aspetto di ingiustificato privilegio riservato
alla pubblica amministrazione; sotto un parallelo profilo,
concernente la applicazione retroattiva della norma nei giudizi
pendenti; e, infine, sotto un ultimo aspetto di irragionevolezza
intrinseca, per irrisolubile contraddizione tra causa e contenuto
della norma medesima.
3.2.1. – Ad illustrazione di tali censure, correlate al parametro
dell’eguaglianza, in particolare tra l’altro si osserva,
relativamente ai riferiti profili discriminatori:
a) che sarebbe “vistosa”, in danno dei titolari di diritti di
proprietà immobiliare illegittimamente acquisiti dalla pubblica
amministrazione, o da chi per essa si sia avvalso dell’istituto
dell’accessione invertita, “la deroga al principio basilare
dell’ordinamento civilistico per cui chi abbia, per effetto della
violazione della fondamentale regola di convivenza sociale del
neminem laedere, subito un danno, ossia una decurtazione del proprio
patrimonio, ha diritto alla integrale ricostituzione dello stesso a
carico dell’autore dell’illecito, soggetto pubblico o privato che
sia” (Appello Napoli; Trib. Benevento; Appello Roma);
b) che del pari manifesta sarebbe la natura deteriore del
trattamento riservato ai titolari di diritti risarcitori, incisi dal
denunciato ius superveniens, rispetto agli altri proprietari che,
analogamente privati del suolo di loro proprietà, per effetto di
provvedimenti previsti da norme dettate per finalità di edilizia
residenziale pubblica agevolata o convenzionata avrebbero, viceversa,
tuttora diritto al pieno risarcimento dei danni causati da
provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza
passata in giudicato oltre alla rivalutazione ed interessi, come
sancito dall’art. 3 della legge 27 ottobre 1988, n. 458, la cui
applicazione è stata estesa a tutti i casi di occupazione
illegittima, per finalità abitative, con sentenze della Corte
costituzionale 31 luglio 1990, n . 384 e 27 dicembre 1991, n. 486
(Appello Salerno);
c) che, per un triplice profilo, rispetto ai proprietari
ritualmente espropriati, ulteriormente discriminati sarebbero i
soggetti in causa. Infatti, solo i primi, e non anche i secondi,
hanno la possibilità di intervenire nel corso del procedimento
ablatorio e di controllarne l’iter quali portatori di interessi
legittimi diversificati e possono effettuare, nel corso della
procedura, quella “cessione volontaria” del bene che, ai fini della
stima, consente di evitare l’ulteriore riduzione del 40% ai sensi del
comma 2 del citato art. 5-bis (v. Appello Venezia). Inoltre “il
regime della prescrizione estintiva è più favorevole nelle ipotesi
di legittima espropriazione, in quanto il diritto alle indennità si
estingue nel termine ordinario decennale di cui all’art. 2946
cod.civ., mentre nel caso di “accessione invertita” conseguente ad
illecita occupazione il termine prescrizionale applicabile al diritto
al risarcimento dei danni è quello quinquennale di cui all’art. 2947
cod. civ.” (App. Napoli);
d) che sotto il già accennato profilo, in particolare, della
possibilità di cessione volontaria con fruizione dei relativi
vantaggi, ulteriore disparità di trattamento si verificherebbe tra
proprietari di fondi agricoli e proprietari di suoli edificabili, “in
quanto, mentre per i suoli agricoli la indennità provvisoria è
correlata a precisi parametri, invece per i suoli edificatori la
somma offerta (per indennità o per risarcimento) è liberamente
quantificata dall’autore della proposta, che può quindi determinarla
in misura talmente irrisoria da costringere il proprietario a
rifiutare l’offerta con conseguente rinuncia alla possibilità di
escludere l’abbattimento del 40%” (App. Salerno).
3.2.2. – Quanto poi alla denunciata “irrazionale, ingiustificata e
totale parificazione, agli effetti patrimoniali, delle conseguenze
delle espropriazioni svoltesi nel rispetto delle regole ad esse
preordinate e di quelle delle ablazioni di fatto, verificatesi in
conseguenza della mancata osservanza delle regole medesime”, tale
parificazione – ancora sempre secondo Appello Napoli – “non può
trovare adeguata giustificazione nelle palesi esigenze di
contenimento della spesa pubblica, che hanno indotto il legislatore
ad introdurre la censurata disposizione, essendo altri i mezzi e le
regole preordinati al corretto prelievo finanziario (v. artt. 23 e 53
Cost.), e non anche il sostanziale avallo dell’illecito posto in
essere dalla pubblica amministrazione, nel quale si risolve l’operata
eliminazione di ogni conseguenza patrimoniale sfavorevole per la
stessa, in dipendenza della mancata osservanza del procedimento
espropriativo, con il conseguente venir meno della principale remora
al compimento di atti illegittimi” (Trib. Benevento e Appello Roma).
3.2.3. – La violazione dell’art. 3 della Costituzione, in termini
di “privilegio ingiustificato” attribuito alla pubblica
amministrazione, rispetto ad altro soggetto od ente autore di
illeciti, è coonestata, a sua volta, dalla considerazione (ancora
nella ordinanza della Corte di Salerno) che tale privilegio viene
irragionevolmente riconosciuto “ad un soggetto – pubblica
amministrazione – che avendo agito al di fuori e contro qualsiasi
prescrizione normativa, che pure aveva l’obbligo di osservare, ed
anzi con l’ingiustificabile lesione dell’ordine giuridico e dei
diritti dei cittadini, si pone nella esecuzione del fatto illecito
volontariamente alla pari di qualsiasi altro soggetto autore di
illeciti, ricevendone, a differenza di ogni altro, un trattamento
differenziato e più favorevole, quasi premio alla sua qualità
pubblica, che dovrebbe tradursi invece in pubblico esempio di
correttezza e di legittimo esercizio del potere”.
3.2.4. – L’ulteriore profilo di violazione dell’art. 3 della
Costituzione, sul piano diacronico, è motivato in base alla
considerazione che, con la disposta applicazione della norma
denunciata anche nei giudizi in corso, “lo Stato si carica di una
doppia iniquità a danno della uguaglianza dei cittadini, quella di
non provvedere per una sollecita ed eguale giustizia in termini
temporali e di ricavare un vantaggio economico dalla sua stessa
inefficienza applicando sui processi, non definiti per sua
inettitudine, ma iniziati sulla applicazione di una ben precisa
anteriore disposizione di legge, una norma nuova, successiva alla
proposizione del giudizio che danneggia solo i protagonisti dei
processi ancora in corso e non quelli coevamente iniziati e
sollecitamente definiti” (App. Salerno).
3.2.5. – Infine, in ordine alla irragionevolezza intrinseca della
norma denunciata, afferma il tribunale di Brindisi che “non può,
considerarsi coerente affermare il diritto del proprietario ad essere
risarcito del danno e nel contempo ridurre unilateralmente, in favore
dello Stato, l’entità del pregiudizio subito dal proprietario”.
3.3. – Parallelamente, la violazione dell’art. 42 della
Costituzione (2 e 42 per trib. Palmi), è conseguenzialmente dedotta
dalla considerazione che l’operata parificazione, agli effetti
patrimoniali, della ablazione non iure alla espropriazione secondum
ius vanificherebbe il principio di legalità delle espropriazioni,
posto a presidio della proprietà privata, se è vero che, anche nel
caso patologico di violazione della legge, la pubblica
amministrazione può acquisire il diritto anzidetto, contraendo nei
confronti degli ex titolari dello stesso obbligazioni
quantitativamente identiche a quelle, più contenute, che avrebbe
assunto nell’ipotesi “fisiologica” di osservanza della legge stessa.
Per cui – come osserva la Corte di Napoli – “svincolando sul piano
pratico la pubblica amministrazione dall’obbligo di osservare le
norme del procedimento espropriativo, si è finito con il creare una
vera e propria fattispecie di “espropriazione di fatto”, che si
affianca a quella rituale e legittima, quale via alternativa e
sommaria ai fini dell’acquisizione della proprietà dei suoli
occorrenti per la realizzazione di opere di pubblico interesse. E
poiché tale forma di ablazione, solo genericamente ed indirettamente
prevista dalla legge, può svolgersi al di fuori di ogni garanzia
formale, il suesposto principio di legalità appare del tutto eluso
dal nuovo disposto normativo”.
3.4. – A sua volta, il vulnus all’art. 24 (o agli artt. 24 e 113)
della Costituzione è in particolare ravvisato nella violazione, che
la disposizione denunciata opererebbe, del diritto fondamentale del
cittadino al corretto procedimento amministrativo, per la sostanziale
soppressione delle garanzie poste dall’ordinamento giuridico a tutela
del cittadino per la sua difesa contro gli atti illegittimi della
pubblica amministrazione.
3.5. – Sulla stessa linea argomentativa, ma verificandone le
implicazioni in tema di art. 28 della Costituzione, si osserva pure
che, se dalla violazione del diritto soggettivo di proprietà
attraverso l’occupazione appropriativa non derivano conseguenze
diverse da quelle tipiche dell’ablazione secondo le procedure di
legge, il pubblico funzionario non potrà essere chiamato a
rispondere di alcun illecito sostanziale, avendo la stessa norma
dichiarato irrilevante l’illecito formale. Dal che appunto, il
paventato vulnus del principio della diretta responsabilità dei
pubblici funzionari.
3.6. – Nella quale ultima prospettiva la Corte di appello di Roma
ed i tribunali di Lecce, Lamezia Terme, Cosenza, Benevento e Messina,
estendono, per logica connessione, la censura di illegittimità anche
in relazione a possibili profili di contrasto con l’art. 97 della
Costituzione, sul rilievo che l’appiattimento dei criteri di
valutazione dei danni cagionati con la propria condotta illegittima
e/o illecita costituirebbe una spinta verso la violazione delle leggi
in materia di espropriazione.
3.7. – Infine, ancora il tribunale di Brindisi ha prospettato che,
con l’introduzione della disposizione in esame, l’ordinamento
giuridico italiano si sarebbe posto in contrasto con l’art. 1 del
Protocollo addizionale di Parigi 20 marzo 1952 della Convenzione
europea: che ricalca l’art. 17 della Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo, per cui “nessun individuo può essere
arbitrariamente privato della sua proprietà”. Ed ha ritenuto, per
tal profilo, conseguentemente violati gli artt. 10 e 11 della
Costituzione.
4. – A tutte queste censure – argomentatamente condivise dai
difensori delle parti costituite (con enucleazione, in taluni casi,
anche di doglianze ulteriori che non possono però esaminarsi, non
essendo consentito alle parti di ampliare il thema decidendum) – ha
replicato invece, il Presidente del Consiglio dei Ministri.
4.1. – Negli atti di intervento relativi alle prime ordinanze
l’Avvocatura ha per altro, in via principale, affidato la difesa
della norma impugnata ad una sua possibile diversa “interpretazione
adeguatrice”, prospettando che, con essa, il legislatore abbia inteso
estendere alla occupazione acquisitiva le sole disposizioni (di cui
ai commi 3 e 5) dell’art. 5-bis del d.-l. 11 luglio 1992, n. 333
convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359, relative ai criteri di
qualificazione dell’area (illegittimamente occupata od espropriata)
ma non anche il meccanismo composito (di cui ai precedenti commi 1 e
2) di quantificazione quale specificamente modellato per l’indennizzo
espropriativo. Per cui nessuna irragionevolezza vi sarebbe nel
novellato comma 6 dell’art. 5-bis una volta che si riconosca, come
unica sua finalità, quella di evitare che, per accadimenti molte
volte casuali nell’iter della procedura espropriativa, alcuni
proprietari – a differenza di altri i cui beni siano interessati dal
medesimo intervento pubblico – possano trovarsi a beneficiare
(ovvero, anche a soffrire) di mutate condizioni di edificabilità del
terreno sopravvenute, eventualmente, tra la dichiarazione di pubblica
utilità ed il perfezionamento della vicenda traslativa della
proprietà. Ma da tale riduttiva proposta interpretativa, la stessa
Avvocatura è poi receduta – prendendo atto che con la sequenza delle
numerose successive ordinanze la diversa esegesi dei giudici a quibus
tendeva a costituire il diritto vivente – per cui ha poi dato
primario rilievo alla confutazione della fondatezza della denuncia di
illegittimità, in ogni suo profilo, della norma in esame nella
accezione presuppostane dalle ordinanze di rinvio.
4.2. – A tal fine l’Avvocatura ha in particolare sostenuto, contro
l’ipotesi di violazione dell’art. 3 della Costituzione, che:
a) la dichiarazione di pubblica utilità è elemento
caratterizzante e, da solo, capace di giustificare una diversità di
trattamento rispetto a quello fatto ai soggetti passivi di qualunque
altro illecito civile (per così dire “non qualificato”), tenuto
conto – in particolare – anche della regola comune posta dall’art.
2045 cod. civ.;
a.1.) l’art. 3 della legge n. 458 del 1958 (quale risultante ad
esito di Corte cost. n. 486 del 1991) regolamenta vicende nelle quali
la trasformazione della proprietà privata e la conseguente –
eccezionale – accessione invertita sono riferibili ad attività
materiali compiute da soggetti privati (nell’ambito di iniziative di
edilizia residenziale “agevolata e convenzionata”) con la
realizzazione di beni non qualificabili come opere pubbliche e non
soggetti al regime pubblicistico (del demanio e del patrimonio
indisponibile);
a.2.) la diversità di trattamento sul piano diacronico sarebbe
“effetto diretto e fisiologico della successione delle leggi nel
tempo così da non integrare violazione del principio di
uguaglianza”;
a.3.) l’equiparazione tra espropriati ritualmente ed ablati di
fatto, la cui irragionevolezza si critica, sarebbe non correttamente
assunta, poiché ciò che in sostanza rileverebbe, ai fini dello
scrutinio di ragionevolezza della scelta legislativa, è che
“l’effetto economico-sociale (lato sensu ablativo) sia direttamente
collegato in entrambe le vicende considerate all’esistenza –
formalmente dichiarata – d’un interesse pubblico capace di
legittimare, alla luce dei precetti costituzionali, il sacrificio del
diritto del singolo; ed altresì che la devianza, in un caso, dagli
schemi predeterminati dall’ordinamento avvenga solo nella fase
conclusiva del procedimento;
a.4.) il privilegio riservato alla pubblica amministrazione
troverebbe, quindi, adeguata giustificazione nel pubblico interesse
(accertato e dichiarato nelle forme dovute) che contraddistingue
l’occupazione appropriativa rispetto agli “analoghi illeciti” – in
realtà, non riducibili nello schema dell’istituto di creazione
giurisprudenziale dell’accessione invertita – commessi da qualsiasi
altro soggetto;
a.5.) a sua volta, anche l’impossibilità, per il danneggiato, di
evitare la riduzione del 40% del ristoro patrimoniale spettantegli
sarebbe, almeno in astratto, suscettibile di configurare una “voce”
del risarcimento e di essere, pur essa, ristorata come “danno”
(conseguente all’occupazione appropriativa). Mentre il valore di
mercato, da assumere a primo termine della semisomma, è pur sempre
un dato oggettivamente verificabile, per cui neppure sussisterebbe la
discriminazione adombrata, per tal profilo, dalla Corte di Salerno;
b) non sarebbe poi pertinente il riferimento alla garantita
tutela giudiziale delle situazioni giuridiche soggettive (di cui al
primo comma dell’art. 24 Cost.), posto che – pur nell’assunto dei
remittenti – non si scorgerebbe come la norma denunciata possa
riuscire di ostacolo all’esercizio dello ius persequendi iudicio o
possa – addirittura – determinare la “mancanza dell’oggetto” della
tutela (invocata o da invocare).
Né la denuncia formulata in relazione agli artt. 24 e 113 della
Costituzione sarebbe dotata di miglior consistenza, giacché la norma
impugnata, limitandosi a stabilire una riduzione della entità del
risarcimento, postula la lesione d’un diritto soggettivo nella cui
tutela giudiziale deve ritenersi risolta quella degli interessi
legittimi del proprietario rispetto agli atti della procedura
espropriativa);
c) del pari insussistente sarebbe il paventato contrasto della
norma con l’art. 28 della Costituzione e il lamentato svuotamento del
principio della responsabilità diretta dei funzionari e dipendenti
della pubblica amministrazione, perché “l’immutata qualificazione
giuridica (come atto illecito) della occupazione appropriativa lascia
pur sempre configurare – secondo i principi – la diretta, personale
responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici, con la
conseguenza che attraverso la riduzione della entità del
risarcimento non può dirsi compromesso il principio di buon
andamento della amministrazione”;
d) manifestamente infondata si dimostrerebbe anche la denuncia di
violazione dell’art. 42, terzo comma, della Costituzione, dal momento
che la norma censurata, per un verso, non si pone come “fonte”
dell’effetto acquisitivo, da ricollegare invece alle regole generali
poste dall’ordinamento in tema di modi d’acquisto della proprietà;
e, per altro (e più pertinente) verso, non colliderebbe con il
principio del “necessario” ristoro patrimoniale del privato, posto
che si limita a regolamentare il quantum della relativa prestazione
(la cui misura non è “costituzionalizzata”) e sarebbe, del resto, in
concreto parametrata su valori già, per analoghi fini, riconosciuti
conformi alle regole della “serietà” e “non simbolicità”. Mentre
l’art. 2, sia pur in combinato contesto con l’art. 42 della
Costituzione, risulterebbe erroneamente invocato avuto riguardo alla
specificità della garanzia del diritto di proprietà, sub art. 42,
che assorbe quella generica apprestata dall’art. 2 ai “diritti
fondamentali”;
e) priva di concretezza sarebbe pure l’ipotesi di violazione
dell’art. 97 della Costituzione, poiché l’abrogazione di “fatto”
dell’istituto dell’espropriazione, con sovvertimento del principio di
legalità dell’azione amministrativa, che i giudici a quibus
paventano, non potrebbe ritenersi effetto diretto della disposizione
in esame, rappresentandone semmai solo una “ipotetica conseguenza
pratica indiretta”, come tale estranea al sindacato di legittimità;
f) manifestamente infondato sarebbe, infine, il sospetto di
violazione dell’art. 10, e “fuor di luogo” il richiamo al successivo
art. 11 della Costituzione, poiché la riduzione dell’entità del
risarcimento nulla ha a che vedere con le invocate norme di
Convenzioni internazionali (recepite nell’ordinamento nazionale)
intese a garantire il diritto di proprietà dell’individuo da
ipotizzabili forme di “avocazione” o di “arbitraria confisca” dei
beni privati con atto d’imperio statuale.
5. – Alla esposizione delle argomentazioni in replica alle censure
di illegittimità, come sopra riassunte, l’Avvocatura dello Stato ha
fatto, per altro, precedere – con riguardo alle sole tre ordinanze
dei tribunali di Lamezia Terme, Cosenza e Napoli (nn. 361, 415, 493
del 1996) – altrettante eccezioni di inammissibilità.
5.1. – Di dette eccezioni – il cui esame è logicamente
pregiudiziale – vanno accolte le prime due, poiché effettivamente –
come dedotto dall’esponente – nelle ordinanze del tribunale di
Lamezia Terme e in quella di Cosenza (ove il magistrato remittente
parrebbe aver per di più sollevato la questione non in veste di
giudicante, ma di istruttore) risulta pretermesso ogni accertamento
in fatto sull’esistenza o meno e di una pregressa dichiarazione di
pubblica utilità e cioè – secondo la consolidata giurisprudenza
della Corte di cassazione, pienamente recepita da questa Corte: sent.
n. 486 del 1991, paragrafo n. 3 – sul presupposto stesso della
fattispecie appropriativa: per cui difetta la motivazione sulla
rilevanza della impugnativa.
5.2. – Va respinta la terza eccezione, atteso che l’ordinanza del
tribunale di Napoli, viceversa, dà atto che, nel caso al suo esame,
una dichiarazione di pubblica utilità vi è stata, ancorché poi
dichiarata illegittima, in sede di giudizio amministrativo: e la
valutazione – non implausibile – che il giudice a quo fa per
implicito della sufficienza di un siffatto accertamento iniziale di
utilità dell’opera ai fini della identificazione di una fattispecie
acquisitiva, assolve l’onere della motivazione in punto di rilevanza.
6. – Nel merito, la verifica di legittimità della disposizione
denunciata va condotta alla stregua della interpretazione presupposta
dalle autorità rimettenti: nella quale effettivamente può
ravvisarsi – come riconosciuto anche dalla Avvocatura dello Stato –
il “diritto vivente”, trattandosi di esegesi univocamente accolta dai
giudici di merito, condivisa anche dalla dottrina pressoché unanime
e confortata infine dalla prima (e finora unica) decisione, in tema,
della Cassazione (sentenza 18 luglio 1996, n. 980). Per cui, in
sostanza, il punto centrale del dato normativo, su cui converge ogni
censura, è appunto quella della disposta applicazione estensiva dei
medesimi criteri, introdotti dal citato art. 5-bis, per la
determinazione dell’indennizzo espropriativo (semisomma del valore di
mercato e del reddito dominicale, con ulteriore riduzione del 40%,
evitabile solo con la cessione volontaria del bene), anche ai diversi
fini della liquidazione del danno che compete al proprietario che in
luogo di una rituale procedura ablatoria abbia subito una illegittima
occupazione privativa.
7. – In premessa alle valutazioni di legittimità rimesse al
riguardo a questa Corte va ancora richiamata la natura innegabilmente
risarcitoria delle conseguenze patrimoniali ricollegate
dall’ordinamento all’attuarsi della occupazione privativa-acquisitiva
o c.d. “accessione invertita” (che, in dipendenza della irreversibile
destinazione del suolo occupato all’opera pubblica, spiega all’un
tempo l’effetto estintivo, dell’originario diritto di proprietà, e
quello acquisitivo, dell’immobile così trasformato, alla pubblica
amministrazione): qualificazione, che è, in tali termini, ormai
consolidata da tempo nella giurisprudenza della Cassazione ed in
quella conforme dei giudici di merito; ha superato anche il vaglio di
costituzionalità con la recente sentenza n. 188 del 1995, ed ha
trovato parallela ricezione, infine, sul piano normativo, negli artt.
11, commi 5 e 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, e 10, comma
3-bis, del d.-l. 27 ottobre 1995, n. 444, convertito in legge 20
dicembre 1995, n. 539.
8. – In questa prospettiva, lo ius superveniens si risolve quindi
nella compressione del diritto al risarcimento del danno all’interno
di una fattispecie di illecito aquiliano. Ed il primo quesito cui
dare risposta è pertanto quello se sia o non sia, in via di
principio, consentito al legislatore ordinario di operare una
siffatta compressione.
8.1. – Per tal profilo può convenirsi con l’Avvocatura che la
regola generale di integralità della riparazione ed equivalenza al
pregiudizio cagionato al danneggiato non ha – come del resto,
evidenziato nella sentenza n. 132 del 1985 (punto 4.3. della
motivazione) – copertura costituzionale. Ed in realtà – in casi
eccezionali (di cui non mancano in dottrina tentativi di ricognizione
sistematica) – il legislatore può pure ritenere equa e conveniente
una limitazione del risarcimento del danno.
Tale limitazione può attuarsi sia nel campo della responsabilità
contrattuale (v. ad esempio, artt. 1784, 1786 cod. civ.; 275, 412,
423 cod. navig.), sia in materia di responsabilità extracontrattuale
in considerazione delle particolari condizioni dell’autore del danno.
8.2. – Ciò posto, non prive di rilievo risultano, a questi fini,
le valutazioni dell’interveniente sulla peculiare connotazione
dell’illecito in esame, per il suo dispiegarsi tra i due estremi
(iniziale) della dichiarazione di pubblica utilità di un’opera e
(finale) di concreta realizzazione, sia pur non iure, dell’opera
stessa. Per cui può, in linea di principio, convenirsi con
l’Avvocatura dello Stato, anche sulla conclusione, cui per tale via
essa perviene che nella fattispecie sussistano in astratto gli
estremi giustificativi di un intervento normativo ragionevolmente
riduttivo della misura della riparazione dovuta dalla pubblica
amministrazione al proprietario dell’immobile che sia venuto ad
essere così incorporato nell’opera pubblica.
9. – La ragionevolezza di una siffatta riduzione viene peraltro a
dipendere – come pure precisato nella citata sentenza n. 132 del 1985
– dall’equilibrato componimento, che la norma di conformazione del
danno risarcibile deve assicurare, degli opposti interessi in gioco.
Interessi che, in questo caso, sono, da un lato, quello riferibile
all’amministrazione di conservazione dell’opera di pubblica utilità,
con contenimento dell’incremento di spesa correlativa; e, dall’altro,
l’interesse del privato ad ottenere riparazione per l’illecito
subito.
9.1. – Le censure dei giudici a quibus, nella loro capillare e
variegata articolazione (come innanzi riassunta), convergono tutte
però nell’escludere che la disposizione denunciata abbia rispettato
un tale equilibrio. E ciò per l’abnormità (che avrebbe, appunto,
plurime negative ricadute sul principio di eguaglianza, sulla tutela
della proprietà e la legalità dell’azione amministrativa) di una
riduzione della misura della riparazione, per l’illecito della
pubblica amministrazione, spinta al punto di farla coincidere con
l’entità dell’indennizzo dovuto in caso di legittima procedura
ablatoria.
9.2. – È proprio questo, in definitiva, il filo logico che lega
tra loro le varie impugnative, il nucleo comune di doglianza da cui
muove ogni altro rilievo, il cuore – come già detto – del problema
di costituzionalità all’esame della Corte.
E l’equiparazione – così assunta in premessa – del risarcimento da
illecita occupazione appropriativa all’indennizzo espropriativo è, a
parere del collegio, esatta sia nella sua enunciazione sia nelle
implicazioni che se ne traggono.
9.2.1. – Sotto il primo profilo, è stato invero pur vigorosamente
contestato dal Presidente del Consiglio che la prevista applicazione
della nuova disciplina dell’indennizzo, di cui all’art. 5-bis, commi
1 e 2, del decreto-legge 1992 n. 359, anche ai fini della
liquidazione del danno derivante dalla c.d. “accessione invertita”
comporti in concreto la denunciata equiparazione della misura dei due
istituti. E ciò perché, come eccepito negli atti di costituzione
ed ulteriorme nte illustrato in memoria ed in sede di discussione
orale:
a) nella determinazione del risarcimento non potrebbe farsi
applicazione dell’ulteriore detrazione (del 40% del valore
dimidiato), di cui all’ultima parte del comma 1 del menzionato art.
5-bis, per non essere di fatto possibile, nelle vicende di
occupazione privativa, la “cessione volontaria del bene”, a quella
riduzione invece “legata” nel complessivo meccanismo di computo
previsto dal combinato contesto dei commi 1 e 2 della norma stessa;
b) del pari inapplicabili alla stima del danno sarebbero altre
“detrazioni”, previste invece per l’indennità di espropriazione,
quali la detrazione per il vantaggio derivante al fondo residuo
dall’esecuzione dell’opera pubblica (art. 41 della legge 1865, n.
2359), la detrazione del valore delle piantagioni e costruzioni
effettuate a scopo surrettizio di incremento dell’indennizzo (art. 43
della legge 2359 cit.) e quella del valore dei fabbricati edificati
in assenza o in difformità da licenza edilizia (art. 16 della legge
del 1971, n. 865);
c) il credito risarcitorio, come credito “di valore”, sarebbe pur
sempre ulteriormente incrementabile per rivalutazione, a differenza
del credito indennitario, cui corrisponde un debito “di valuta”.
9.2.2. – Ma nessuno di tali rilievi coglie nel segno.
Ed infatti:
sub a) una corretta lettura dell’art. 5-bis del d.-l. 11 luglio
1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992 n. 359, nel testo
risultante dall’intervento additivo su di esso operato con sentenza
n. 283 del 1993, consente di argomentare che, come nel caso di
immobile già espropriato nel periodo antecedente alla entrata in
vigore della predetta legge, così nell’ipotesi di suolo già
occupato con effetto irreversibilmente privativo, al proprietario è
comunque consentito, in via transattiva, di “accettare” l’offerta del
valore mediato del suolo, come determinato dall’amministrazione, con
la conseguenza che – in mancanza di una tale accettazione – anche al
danneggiato si applica (non diversamente che all’espropriato) la
medesima ulteriore riduzione del 40%;
sub b) del pari estese alla disciplina della liquidazione del
danno da accessione invertita devono ritenersi le su citate
disposizioni della legge del 1865 e della legge n. 865 del 1971
relative alla stima dell’indennità, e ciò in forza del rinvio a
quelle operato – per il tramite del riferimento al valore del suolo
come termine da mediare ai sensi dell’art. 13 della legge n. 2892 del
1885, e quindi alle regole generali per la sua determinazione – dal
comma 1, dell’art. 5-bis del decreto-legge n. 359/1992, cui, a sua
volta, rinvia il sesto comma per la liquidazione del “risarcimento”;
sub c) del tutto eventuale e comunque di non apprezzabile rilievo
è l’incremento che alla voce risarcitoria può derivare dalla sua
natura di “debito di valore”, considerato (oltre l’intervenuta
elevazione della misura degli interessi legali nel debito di valuta
e, per converso, l’attenuata incidenza della svalutazione, ai fini
del computo degli interessi sulla stessa, nel più recente e ormai
consolidato orientamento della Cassazione: Sez. Un. 1712/1995; Cass.
3660/1996 ex plurimis) sopratutto il fatto che anche per i debiti di
valuta – e quindi anche per quello relativo alla indennità di
espropriazione – è ora largamente ammesso il computo della
svalutazione, attraverso la prova del maggior danno (per effetto di
quella) subito dal proprietario creditore; prova il cui onere, per
ormai del pari consolidata giurisprudenza della stessa Cassazione,
può essere assolto anche con presunzioni semplici legate alla mera
qualità soggettiva del creditore (modesto risparmiatore; consumatore
ecc.).
9.3. – Quanto al secondo dei profili sopra (paragrafo n. 2)
evidenziati – cioè quanto alle implicazioni, sul piano della
legittimità costituzionale, della verificata sostanziale
equiparazione dell’entità del risarcimento del danno da accessione
invertita a quella dell’indennizzo espropriativo – è innegabile, in
primo luogo, la violazione che ne deriva del precetto di eguaglianza,
stante la radicale diversità strutturale (cfr. sentenza n. 188 del
1995 cit.) e funzionale delle obbligazioni così comparate. Infatti,
mentre la misura dell’indennizzo – obbligazione ex lege per atto
legittimo – costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico
alla realizzazione dell’opera e interesse del privato alla
conservazione del bene, la misura del risarcimento – obbligazione ex
delicto – deve realizzare il diverso equilibrio tra l’interesse
pubblico al mantenimento dell’opera già realizzata e la reazione
dell’ordinamento a tutela della legalità violata per effetto della
manipolazione-distruzione illecita del bene privato. E quindi sotto
il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Costituzione),
poiché nella occupazione appropriativa l’interesse pubblico è già
essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla
conservazione dell’opera pubblica, la parificazione del quantum
risarcitorio alla misura dell’indennità si prospetta come un di più
che sbilancia eccessivamente il contemperamento tra i contrapposti
interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo. Con le
ulteriori negative incidenze, ben poste in luce dalle varie autorità
rimettenti, che un tale “privilegio” a favore dell’amministrazione
pubblica può comportare, anche sul piano del buon andamento e
legalità dell’attività amministrativa e sul principio di
responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al
privato.
10. – Risulta contestualmente vulnerato anche l’art. 42, secondo
comma, della Costituzione, per la perdita di garanzia che al diritto
di proprietà deriva da una così affievolita risposta
dell’ordinamento all’atto illecito compiuto in sua violazione.
11. – Per tali profili – nei quali resta assorbita ogni altra
censura delle autorità rimettenti – il comma 6 dell’art. 5-bis del
d.-l. 11 luglio 1992 n. 333 convertito in legge 8 agosto 1992, n.
359, come sostituito dall’art. 1, comma 65, della legge 28 dicembre
1995, n. 549, va quindi dichiarato illegittimo nella parte censurata.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale del
comma 6 dell’art. 5-bis del d.-l. 11 luglio 1992, n. 333 (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica) convertito in
legge 8 agosto 1992, n. 359, come sostituito dall’art. 1, comma 65,
della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica), nella parte in cui applica al “risarcimento
del danno” i criteri di determinazione stabiliti per “il prezzo,
l’entità dell’indennizzo”;
Dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
del sesto comma dell’art. 5-bis del d.-l. 11 luglio 1992, n. 333
(Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica),
convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359, come sostituito dall’art.
1, comma 6, della legge 28 dicembre 1995 n. 549 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica), sollevate, in riferimento
agli artt. 3, 42, 28 e 97 della Costituzione, dai Tribunali di
Lamezia Terme e di Cosenza con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Granata
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 2 novembre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola