Sentenza N. 37 del 1969
Corte Costituzionale
Data generale
21/03/1969
Data deposito/pubblicazione
21/03/1969
Data dell'udienza in cui è stato assunto
13/03/1969
GIUSEPPE BRANCA – Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI –
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI
BATTISTA BENEDETTI – Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI
OGGIONI – Dott. ANGELO DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO
CAPALOZZA – Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI – Dott. NICOLA REALE,
Giudici,
luglio 1966, n. 607, recante “Norme in materia di enfiteusi e
prestazioni fondiarie perpetue”, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 15 dicembre 1966 dal pretore di Spoleto nel
procedimento civile vertente tra Mantucci Domenico ed altri e la Mensa
vescovile di Norcia, iscritta al n. 17 del Registro ordinanze 1967 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51 del 25
febbraio 1967;
2) ordinanze emesse il 23 dicembre 1966 dal pretore di
Civitacastellana nei procedimenti civili vertenti tra Formini Vincenza
ed altri e Paolucci Pietro, iscritte ai nn. 32, 33, 34, 35, 36 e 37
del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 77 del 25 marzo 1967;
3) ordinanza emessa il 9 febbraio 1967 dal pretore di Vitulano nei
procedimenti civili riuniti vertenti tra Borselleca Salvatore e
Marcarelli Cosimo e tra gli eredi di De Mezza Pietro e Sala Ermanno,
iscritta al n. 65 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 102 del 22 aprile 1967;
4) ordinanza emessa il 2 gennaio 1967 dal pretore di Benevento nel
procedimento civile vertente tra Cardillo Amelia e Latino Claudio ed
altro, iscritta al n. 74 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 120 del 13 maggio 1967;
5) ordinanza emessa il 13 febbraio 1967 dal pretore di Lercara
Friddi nel procedimento civile vertente tra Lucania Salvatore e Lima
Mancuso Salvatore, iscritta al n. 80 del Registro ordinanze 1967 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 132 del 27
maggio 1967;
6) ordinanza emessa il 7 aprile 1967 dal pretore di Mazara del
Vallo nel procedimento civile vertente tra Sala Rosaria e Cusumano
Leonarda ed altri, iscritta al n. 95 del Registro ordinanze 1967 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 157 del 24
giugno 1967;
7) ordinanze emesse il 5 aprile 1967 dal pretore di Velletri nel
procedimento civile vertente tra Masella Nello e Cianfriglia Adele ed
altri, l’11 aprile 1967 dal pretore di Guardia Sanframondi nel
procedimento civile vertente tra Di Paola Filomena e Serrapochiello
Agnese, il 1 aprile 1967 dal pretore di Terracina nel procedimento
civile vertente tra Del Monte Lorenzo ed altri e Bona Emma ed altri, il
3 maggio 1967 dal pretore di Bisacquino nel procedimento civile
vertente tra Starrabba Gaetano e Di Giovanna Antonino, l’11 marzo 1967
dal pretore di Sezze nel procedimento civile vertente tra Spirito
Salvatore e Bernetti Maria Felice ed altri e il 20 maggio 1967 dal
pretore di Trapani nel procedimento civile vertente tra Schifano
Filippa e Scio Antonio, iscritte ai nn. 101, 104, 108, 110, 111 e 113
del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 170 dell’8 luglio 1967;
8) ordinanze emesse il 20 maggio 1967 dal pretore di Napoli nel
procedimento civile vertente tra Giordano Francesca e Venturino
Giuseppa ed altri e il 6 maggio 1967 dal pretore di Alatri nei
procedimenti civili riuniti vertenti tra Boccardi Ambrogio ed altri e
l’Ospedale San Benedetto di Alatri ed altri, iscritte ai nn. 123 e 127
del Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 190 del 29 luglio 1967;
9) ordinanze emesse il 20 e il 28 febbraio, 1 e 6 marzo 1967 dal
pretore di Anagni nei procedimenti civili vertenti tra Castigli Pio e
Ciangola Amedeo ed altri, Pellegrini Teresa e Di Fabio Adalberto,
Morgia Salvatore e Apolloni Fernando, Giancone Amedeo e Ciangola Amedeo
ed altri; il 18 maggio 1967 dal pretore di S. Stefano di Camastra nel
procedimento civile vertente tra Aragona Pignatelli Anna Maria e Buono
Francesco ed altri; il 7 giugno 1967 dal pretore di Pozzuoli nel
procedimento civile vertente tra Pisano Biagio ed altri e Del Gaudio
Luigi e il 1 giugno 1967 dal pretore di Paliano nei procedimenti civili
riuniti vertenti tra Nori Pietro ed altri e D’Ottavi Mario ed altri,
iscritte ai nn. 131, 132, 133, 134, 137, 144 e 146 del Registro
ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 208 del 19 agosto 1967;
10) ordinanze emesse il 3 febbraio 1967 dal pretore di Palermo nel
procedimento civile vertente tra Ciprì Stefano ed altri e Imbornone
Aurelio ed altri; il 6 aprile e il 21 giugno 1967 dal pretore di
Frosinone nei procedimenti civili vertenti tra Cestra Luigi ed altri e
Cestra Alessandro ed altri e tra Capogna Orlando e Pietro e Galluzzi
Genio; il 23 marzo 1967 dal pretore di Reggio Calabria nel procedimento
civile vertente tra Maiolino Giacomo e Marciano’ Giuseppe ed altri e il
19 maggio 1967 dal tribunale di Palermo nel procedimento civile
vertente tra Cacciatore Giuseppina ed altro e Pottino Gaetano, iscritte
ai nn. 148, 154, 155, 158 e 160 del Registro ordinanze 1967 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 221 del 2
settembre 1967;
11) ordinanze emesse il 13 giugno 1967 e l’11 luglio 1967 dal
pretore di Solopaca nei procedimenti civili vertenti rispettivamente
tra Ciervo Michele e Di Mezza Filomena e Maria Teresa e tra Volpe
Antonio e Borruto Domenica; il 16 giugno 1967 dal pretore di Albano
Laziale nel procedimento civile vertente tra Puccini Torello ed altri
ed il Capitolo della Basilica di San Giovanni in Laterano; il 18 luglio
1967 dal pretore di Bianco nel procedimento civile vertente tra
Strangio Francesco ed altri e la Prebenda parrocchiale di Santa Maria
della Pietà di San Luca, iscritte ai nn. 174, 175, 183 e 197 del
Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 258 del 14 ottobre 1967;
12) ordinanze emesse il 14 luglio 1967 dal pretore di Isernia nel
procedimento civile vertente tra Rosselli Michele ed altri e la
Parrocchia di San Michele Arcangelo di Monterodeni ed il 18 luglio 1967
dal pretore di Torre Annunziata nel procedimento civile vertente tra
Matrone Costantino e la Parrocchia di Santa Maria del Soccorso
all’Arenella di Napoli, iscritte ai nn. 205 e 211 del Registro
ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 271 del 28 ottobre 1967;
13) ordinanza emessa il 22 giugno 1967 dal tribunale di Agrigento
nel procedimento civile vertente tra Urso Pasquale e Casa Giuseppe ed
altri, iscritta al n. 224 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 282 dell’ 11 novembre
1967;
14) ordinanze emesse il 5 luglio 1967 dal pretore di Marano di
Napoli nel procedimento civile vertente tra l’Opera nazionale
combattenti e la Mensa vescovile di Aversa ed il 20 luglio 1967 dal
pretore di Ramacca nel procedimento civile vertente tra Cannizzo
Gaetano e Oliveri Giuseppe ed altri, iscritte ai nn. 228 e 233 del
Registro ordinanze 1967 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 295 del 25 novembre 1967;
15) ordinanze emesse il 2 agosto 1967 dal pretore di Terracina nel
procedimento civile vertente tra l’Opera nazionale combattenti ed il
Comune di Terracina; il 30 giugno 1967 dal pretore di Ariano Irpino nel
procedimento civile vertente tra Schiavo Giovanni e gli Ospedali
riuniti di Napoli e il 16 ottobre 1967 dal pretore di Genzano di Roma
in tre procedimenti civili vertenti tra Bernardi Regina, Bernardi
Isolina, Savini Filippo ed il Capitolo di San Pietro in Vaticano,
iscritte a nn. 232, 236, 247, 248 e 249 del Registro ordinanze 1967 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 307 del 9
dicembre 1967;
16) ordinanze emesse il 7 ottobre 1967 dal pretore di Erico nel
procedimento civile vertente tra Virgilio Giovanni Battista ed altro e
Catania Salvatore; il 3 maggio 1967 dal tribunale di Trapani nel
procedimento civile vertente tra Piazza Nicolò ed altri e Sammaritano
Salvatore ed il 6 settembre 1967 dal pretore di Bisacquino nel
procedimento civile vertente tra Starrabba Gaetano e Borzì Giuseppe,
iscritte ai nn. 252, 253 e 261 del Registro ordinanze 1967 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 321 del 23 dicembre 1967;
17) ordinanza emessa il 17 ottobre 1967 dal tribunale di Mistretta
nel procedimento civile vertente tra Pignatelli Aragona Anna Maria e
Maiorana Giuseppe ed altri, iscritta al n. 262 del Registro ordinanze
1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24 del
27 gennaio 1968;
18) ordinanza emessa il 20 ottobre 1967 dal tribunale di Palermo
nel procedimento civile vertente tra Severino Filippo e Barbera
Giovanna, iscritta al n. 277 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50 del 24 febbraio 1968;
19) ordinanza emessa il 1 marzo 1968 dal pretore di Bojano nel
procedimento civile vertente tra Di Iorio Costanza e Di Sisto Luigi e
Carmine, iscritta al n. 44 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 113 del 4 maggio 1968;
20) ordinanza emessa il 22 maggio 1968 dal pretore di Torre del
Greco nel procedimento civile vertente tra Garzilli Francesco ed altri
e la Mensa arcivescovile di Napoli ed altro, iscritta al n. 117 del
Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 222 del 31 agosto 1968;
21) ordinanza emessa il 22 luglio 1968 dalla Corte d’appello di
Catania nel procedimento civile vertente tra Impellizzeri Lucia ed
altri e Saglimbene Sebastiano, iscritta al n. 187 del Registro
ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 261 del 12 ottobre 1968.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e di costituzione della Mensa vescovile di Norcia, della Mensa
arcivescovile di Napoli, di Paolucci Pietro, Marcarelli Cosimo, Sala
Ermanno, Lima Mancuso Salvatore, Starrabba Gaetano, Ciangola Amedeo, Di
Fabio Adalberto, Apolloni Fernardo, Aragona Pignatelli Anna Maria,
Imbornone Aurelio ed altri, Cestra Vincenzo ed altri, Galluzzi Genio,
Marciano’ Giuseppe e Giuseppa, Pottino Gaetano e Impellizzeri Lucia ed
altri (concedenti) e dell’Opera nazionale combattenti, di Borselleca
Salvatore, eredi di De Mezza Pietro, Masella Nello, Piori Biagio,
Ciancone Amedeo, Nori Pietro ed altri, Ciprì Stefano ed altri,
Mastrantoni Vincenzo, Velecchia Assunta, Mastracci Natale, Mastracci
Umberto, Casa Giuseppe ed altri e Garzilli Francesco ed altri
(enfiteuti);
udita nell’udienza pubblica del 4 dicembre 1968 la relazione del
Giudice Luigi Oggioni;
uditi gli avvocati Salvatore Orlando Cascio, Vincenzo Panuccio,
Riccardo Leone, Giuseppe Todini, Giuseppe Abbamonte, Alberto Melito,
Sebastiano Mastrobuono ed Alfredo Marziano, per i concedenti, gli
avvocati Pietro Gasparri, Alessandro De Feo, Mario Diana, Guido
Trapani, Antonio Ptzolu, Corrado Noulian, Achille Prinzivalli e Rosario
Mazzone, per gli enfiteuti, e il sostituto avvocato generale dello
Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Con legge 22 luglio 1906, n. 607, furono stabilite nuove norme in
materia di enfiteusi e prestazioni fondiarie perpetue, rapporti e
miglioria e contratti agrari atipici con prevalenti elementi del
rapporto enfiteutico, norme con le quali, tra l’altro, si fissarono le
misure massime dei canoni ragguagliate all’ammontare del reddito
dominicale del fondo relativo, determinato ai sensi del D.L. 4 aprile
1939, n. 589, e moltiplicato per 12 giusta il decreto 12 maggio 1947, e
si stabilì il prezzo di affrancazione in una somma pari a quindici
volte il canone annuo così determinato. Si istituì anche una speciale
procedura che prevede una fase iniziale nella quale il pretore
competente, su domanda dell’affrancante e dietro esibizione anche di un
semplice atto di notorietà a comprova dell’esistenza della
prestazione, determina il capitale di affranco e, previo il deposito di
questo capitale, dispone, con ordinanza non revocabile e da trascrivere
a cura della cancelleria, l’affrancazione del fondo con la conseguenza
dell’estinzione dell’enfiteusi o della prestazione fondiaria nei
confronti di chiunque, limitandosi a dare atto sommariamente nel
provvedimento delle osservazioni, delle riserve e delle eccezioni delle
parti. Entro tre mesi dalla notifica dell’ordinanza è ammesso ricorso
degli interessati alla sezione speciale per i contratti agrari del
tribunale per la contestazione del diritto all’affrancazione, per la
riduzione o l’integrazione del capitale d’affranco e per l’attribuzione
dell’intera somma o di parte di essa.
Con un folto gruppo di ordinanze sono state sollevate in via
incidentale, nel corso di procedimenti civili, varie questioni di
legittimità costituzionale della detta legge, sia nel suo testo
intero, sia in singole disposizioni.
Si è anzitutto lamentato che la legge stessa sarebbe, nel suo
complesso, viziata da eccesso di potere perché, pur senza affermarlo,
mirerebbe tuttavia praticamente, ed in contrasto con l’indirizzo
legislativo precedente, alla soppressione degli istituti contemplati,
stabilendo condizioni di affrancazioni inique a danno dei concedenti, e
si porrebbe altresì in contrasto con quei fini di utilità sociale che
gli istituti stessi potrebbero seguitare a svolgere.
L’art. 1 della legge, poi, stabilendo il limite massimo dei canoni
e delle prestazioni perpetue si porrebbe anzitutto in contrasto con
l’art. 2 della Costituzione perché, sovrapponendosi alla libera
volontà delle parti, finirebbe col vulnerare i diritti inviolabili
dell’uomo. Inoltre la disposizione in esame sarebbe in contrasto col
principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione perché,
dovendosi applicare ai canoni enfiteutici perpetui o temporanei ed alle
prestazioni fondiarie perpetue, finirebbe col sottoporre ad eguale
disciplina situazioni diverse. E tale vizio si paleserebbe ancor più
evidente in relazione alla disparità di trattamento che la norma in
parola sanzionerebbe in genere a favore degli enfiteuti, e in
particolare nel caso delle enfiteusi urbane, per gli squilibri
collegati agli enormi aumenti di valore delle aree fabbricabili.
La nuova disciplina, poi, sarebbe specificamente lesiva sia della
libertà di iniziativa economica privata garantita dall’art. 41 della
Costituzione, perché si sovrapporrebbe con effetto retroattivo alle
pattuizioni liberamente stipulate dalle parti, sia del diritto di
proprietà privata, garantito dall’art. 42, secondo comma, della
Costituzione, perché rappresenterebbe una vera e propria
espropriazione, senza il concorso di motivi di interesse generale, e
dietro corresponsione di un indennizzo irrisorio, essendo ragguagliato
al reddito dominicale come sopra determinato e cioè, concretamente, ad
una somma grandemente inferiore a quella risultante dal precedente
sistema.
Censure di illegittimità, per contrasto con la garanzia di difesa
di cui all’art. 24 Cost., sono state poi sollevate contro il
procedimento previsto dalla legge per ottenere l’ordinanza di
affrancazione del pretore.
Invero, escludendo l’esame delle eventuali deduzioni dei concedenti
in quella sede, e trasferendolo nella fase successiva, che si svolge su
ricorso dell’interessato avanti alla sezione specializzata del
tribunale, la nuova procedura inciderebbe sul principio del
contraddittorio e invertirebbe l’onere della prova, attribuendo
peraltro all’ordinanza emessa dal pretore efficacia immediatamente
abolitiva del diritto del concedente.
La procedura in esame è stata anche censurata per contrasto col
principio di eguaglianza, in quanto si risolverebbe in un vantaggio per
l’enfiteuta, che vedrebbe prese in considerazione le sue istanze
immediatamente, a differenza del concedente, che potrebbe azionare il
proprio diritto solo nell’ulteriore corso del giudizio; nonché per
contrasto con gli artt. 111 Cost., concretantesi in relazione alla
pretesa inoppugnabilità dell’ordinanza di affrancazione, e 113 Cost.
per la pretesa esclusione della garanzia di tutela giurisdizionale dei
diritti.
La prevalenza dell’affrancazione sulla devoluzione sancita dagli
artt. 8 e 9 della legge poi, secondo alcune ordinanze, dovrebbe
interpretarsi come una sostanziale espropriazione, anche sotto questo
aspetto disposta in contrasto con gli interessi generali, mentre
dovrebbe altresì ravvisarsi, nelle limitazioni che con ciò verrebbero
apportate ai diritti quesiti dei concedenti, un contrasto non solo con
l’art. 41 Cost. ma anche con gli artt. 3 e 24, per la denegata difesa
che la suddetta indiscriminata prevalenza comporterebbe a danno sempre
dei concedenti.
L’art. 13 della legge, che estende espressamente la disciplina
degli articoli precedenti agli altri rapporti a miglioria e agli altri
rapporti atipici con prevalenza degli elementi dell’enfiteusi, sarebbe
particolarmente in contrasto col principio di eguaglianza perché
unificherebbe irrazionalmente sotto una eguale disciplina situazioni
sostanzialmente diverse.
L’art. 15, connesso con l’art. 1, sarebbe suscettibile delle
medesime censure e, inoltre, violerebbe il principio di eguaglianza
anche perché, disponendo che i nuovi canoni sono applicabili
dall’annata agraria 1962-1963 salvo i casi in cui il relativo
versamento sia già stato effettuato, concreterebbe una discriminazione
collegata ad un elemento di fatto puramente casuale e cioè
all’avvenuto pagamento o meno del canone.
Infine anche l’art. 18 concernente l’abolizione della rivedibilità
periodica del canone, in quanto connesso con gli artt. 1 e 15,
contrasterebbe per le stesse ragioni con l’art. 3 Cost. ed attuerebbe
una inammissibile limitazione della libertà di iniziativa economica
privata, contrastante con l’art. 41 Cost.
I profili di illegittimità testé delineati, sono stati ampiamente
sviluppati nelle difese di quei concedenti che si sono costituiti e
precisamente dalla Mensa vescovile di Norcia, rappresentata e difesa
dall’avv. Giorgio Fermanelli nel giudizio promosso con ordinanza del
pretore di Spoleto del 15 dicembre 1966; da Paolucci Pietro,
rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Zappalà, nel giudizio
promosso con ordinanze del pretore di Civitacastellana del 23 dicembre
1966; da Imbornoni Aurelio, rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore
Orlando Cascio nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di
Palermo del 3 febbraio 1967; da Marcarelli Amelia e Sala Ermanno,
rappresentati e difesi dall’avv. prof. Luigi Cariota Ferrara, nel
giudizio promosso con ordinanza del pretore di Vitulano del 9 febbraio
1967; da Lima Mancuso Salvatore, rappresentato e difeso dagli avvocati
prof. Salvatore Orlando Cascio e Giuseppe Lopes, nel giudizio promosso
con ordinanza del pretore di Lercara Friddi del 13 febbraio 1967; da Di
Fabio Adalberto e Ciangola Amedeo, rappresentati e difesi dagli
avvocati prof. Giuseppe Abbamonte, Virgilio Andrioli, Salvatore
Orlando Cascio e Giuseppe Todini, e da Apolloni Fernando, rappresentato
e difeso dall’avv. Alberto Melito, nel giudizio promosso con quattro
ordinanze del pretore di Anagni del 20 e 28 febbraio, dell’1 e 6 marzo
1967; da Marciano’ Giuseppe ed altri, rappresentati e difesi dagli
avvocati prof. Salvatore Orlando Cascio e Vincenzo Panuccio, nel
giudizio promosso con ordinanza del pretore di Reggio Calabria del 23
marzo 1967; da Cestra Vincenzo ed altri, rappresentati e difesi dagli
avvocati Giuseppe Abbamonte, Salvatore Orlando Cascio, Giuseppe Todini
e Virgilio Andrioli, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di
Frosinone del 6 aprile 1967; da Starrabba Gaetano, rappresentato e
difeso dall’avv. Salvatore Orlando Cascio e dall’avv. Giuseppe Lopes,
nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Bisacquino del 3
maggio 1967; da Aragona Pignatelli Anna Maria, rappresentata e difesa
dall’avv. Giovanni Orgera, nel giudizio promosso con ordinanza del
pretore di S. Stefano di Camastra del 18 maggio 1967; da Pottino
Gaetano, rappresentato e difeso dall’avv. Riccardo Leone, nel giudizio
promosso con ordinanza del tribunale di Palermo del 19 maggio 1967; da
Galluzzi Genio, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe
Abbamonte, Salvatore Orlando Cascio, Giuseppe Todini e Virgilio
Andrioli, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Frosinone
del 21 giugno 1967.
Particolarmente si è riaffermato l’assunto vizio di eccesso di
potere legislativo, ravvisando una palese difformità tra gli scopi
apparenti della legge, relativi al conseguimento di una maggiore
equità nei rapporti agrari, e quelli che in realtà verrebbero
conseguiti facilitando di fatto la speculazione edilizia e procurando
vantaggi a favore di enfiteuti grandi imprenditori e dando luogo alla
inevitabile conseguenza di una prevedibile eliminazione dal mondo
giuridico dell’istituto dell’enfiteusi.
La violazione del principio di eguaglianza si porrebbe in evidenza
in particolare, tra l’altro, per l’attribuzione al colono miglioratario
della proprietà del fondo alle stesse condizioni dell’enfiteuta, il
quale acquisterebbe il diritto ad un prezzo maggiore di quanto non
faccia il primo e per la varietà stessa delle convenzioni che regolano
le colonie miglioratarie, che si differenzierebbero per la misura e il
tipo dei canoni, e per la durata e la natura dei diritti del colono. A
proposito della censura in esame si è fatto anche ripetutamente
richiamo alla sentenza n. 30 del 1966 della Corte, che ha riconosciuto
la particolare natura dei rapporti a miglioria e la loro peculiarità e
varietà per quanto riguarda apporto economico dei concedenti e dei
coloni.
La violazione della libertà di iniziativa economica privata
garantita dall’art. 41 Cost. si renderebbe altresì manifesta per la
mancanza nella legge di qualsiasi programma o indirizzo economico
generale, nel qual caso soltanto sarebbero ammissibili le limitazioni
disposte dalla legge impugnata.
Sotto un profilo opposto, si sostiene dalla difesa di alcuni
concedenti, giungendo tuttavia ad analoga conclusione, che la legge in
esame sarebbe l’ultima di una serie (15 settembre 1964, n. 756; 26
maggio 1965, n. 590; 25 febbraio 1963, n. 327; 22 luglio 1966, n. 607)
tutte tendenti a limitare la libertà di iniziativa economica sul campo
dei rapporti agrari. Si tratterebbe quindi di una legge facente parte
di un vero e proprio programma economico, ma in difetto di quei fini
sociali cui a norma dell’art. 41, terzo comma, leggi del genere
dovrebbero tendere. E si dovrebbe ravvisare altresì una violazione del
diritto di proprietà garantito dall’art. 42 Cost., nella compressione
della libertà contrattuale, che del diritto stesso sarebbe
espressione.
Nei riguardi dello speciale procedimento statuito nella legge per
l’affrancazione si è osservato, fra l’altro, che l’affrancante sarebbe
abilitato, in virtù della ordinanza pretorile, ad alienare il fondo
anche prima della eventuale pronuncia della sezione specializzata del
tribunale di cui all’art. 5 della legge impugnata.
Aspetti particolarmente anomali della procedura stessa sarebbero
poi costituiti dalla esiguità del termine di tre mesi concesso per la
detta contestazione, che sarebbe comunque di gran lunga inferiore ai
termini della prescrizione ordinaria che condizionano in via generale
l’esercizio dell’azione; dal valore non recuperatorio ma meramente
risarcitorio dell’eventuale contestazione del diritto dell’enfiteuta, e
dalla presunzione assoluta di fondatezza della pretesa del colono che
la legge avrebbe sanzionato.
Sono stati altresì prospettati taluni aspetti di illegittimità
costituzionale non compresi nelle ordinanze di rinvio di cui sopra e
precisamente si è sostenuta la violazione degli artt. 2, 4 e 35 della
Costituzione per il contrasto che la nuova disciplina comporterebbe con
la funzione sociale del lavoro che ogni cittadino ha il dovere di
svolgere e con la esigenza volta ad assicurare la proprietà della
terra a chi la lavora.
Si è altresì sostenuta, tra l’altro, la violazione degli artt.
25, 46 e 47 della Costituzione con riferimento al principio del giudice
naturale ed a quello della tutela del risparmio.
L’Avvocatura dello Stato, nei giudizi in cui si è costituita,
osserva, quanto all’assunto vizio di eccesso di potere legislativo, che
trattasi di critiche mosse dalla legge contrastante col criterio
essenzialmente discrezionale ed incensurabile del Parlamento. Obbietta
poi la non pertinenza del richiamo all’art. 2 della Costituzione, che
riguarderebbe i diritti della persona umana in quanto tali, e non i
diritti di natura esclusivamente economica come quelli in esame. Per
negare poi la sussistenza delle violazioni del principio di eguaglianza
dedotte, con riferimento alla differenza di trattamento che la legge
farebbe fra l’enfiteuta ed il concedente, l’Avvocatura riafferma che la
disciplina in esame sarebbe il risultato di un apprezzamento
discrezionale del legislatore sulla essenziale diversità delle loro
situazioni, come tale incensurabile in questa sede, e comunque
rifletterebbe una regolamentazione applicabile per tutti i destinatari
in modo eguale.
Per quanto concerne la violazione dello stesso principio dedotta in
relazione alla uniformità di trattamento che, in forza della legge
impugnata, verrebbe ad applicarsi a rapporti giuridici di diversa
natura, osserva che l’assimilazione delle colonie miglioratarie alle
enfiteusi trarrebbe origini dall’art. 1 della legge n. 327 del 1963,
che a certe condizioni aveva dichiarato perpetui i rapporti stessi in
uso nel Lazio, estendendo ad essi le norme contenute nel titolo IV del
libro terzo del codice civile, e nella legge 11 giugno 1925, n. 998,
sulle affrancazioni dei canoni, censi ed altre prestazioni perpetue.
Pertanto, coerentemente il legislatore avrebbe dichiarato
l’applicabilità della nuova disciplina ai rapporti stessi, tanto più
che dalla citata sentenza n. 30 del 1966 della Corte, la quale, pur
pronunciando l’illegittimità parziale della detta legge, ha escluso
dalla pronunzia l’art. 1 suddetto, dovrebbe desumersi che si è
riconosciuto al legislatore il potere di dettare una disciplina
unitaria dei rapporti in esame.
Quanto alla censura concernente la pretesa violazione della
libertà di iniziativa economica, anche sotto il profilo della mancata
rispondenza della legge ad interessi sociali, l’Avvocatura rileva che
la nuova disciplina non muterebbe la struttura giuridica dell’istituto
enfiteutico, che già prevedeva il diritto di affrancazione,
limitandosi a diminuire l’onere economico dell’enfiteuta in
considerazione del suo preponderante apporto di lavoro e di
investimento di capitali, ed opererebbe con ciò una valutazione dei
fini sociali perseguiti di natura essenzialmente politica ed ovviamente
incensurabile in questa sede.
In relazione poi all’assunta violazione dell’art. 42 Cost.
l’Avvocatura rileva che la legge, mediante la riduzione della misura
dei canoni e dei capitali di affranco, tenderebbe alla attuazione di
una maggiore giustizia a favore dell’enfiteuta, effettivamente presente
sulla terra, a differenza del concedente, ed in conformità quindi coi
principi della funzione della proprietà di cui alla invocata norma
costituzionale, nonché della instaurazione di più equi rapporti
sociali, del razionale sfruttamento del suolo e dell’aiuto alla piccola
e media proprietà di cui all’art. 44 Cost., anche qui attraverso una
valutazione comunque riservata all’ambito della discrezionalità del
legislatore. D’altra parte l’enfiteuta sarebbe titolare di un diritto
reale sul fondo mentre il concedente godrebbe di un diritto di
proprietà molto limitato, situazione questa che già si rifletteva
sulla disciplina dell’affrancazione dettata dal codice civile con
indubbio favore di questa rispetto alla devoluzione al concedente. La
nuova disciplina, in altri termini, non inciderebbe sostanzialmente sul
diritto di godimento del concedente dato che nel rapporto enfiteutico
è insita la facoltà di affrancazione. Accanto a tali rilievi,
l’Avvocatura precisa che, comunque, nella specie, tratterebbesi non
già di espropriazione, bensì di regolamentazione di un rapporto
sinallagmatico, ed in proposito richiama la sentenza n. 46 del 1959
della Corte costituzionale con la quale si è affermato che la
riduzione dei canoni livellari veneti disposta con legge 15 febbraio
1958, n. 74, non costituiva privazione senza corrispettivo dei diritti
di una categoria di cittadini a favore di un’altra ma rappresentava
solo riduzione ad equità della misura dei canoni. Inoltre l’Avvocatura
obbietta che, in ogni caso, il prezzo di affrancazione rappresenterebbe
il corrispettivo di una prestazione periodica, e non già del fondo
concesso in enfiteusi, onde sarebbero arbitrari i riferimenti al valore
di quest’ultimo per inferire la sussistenza di un’espropriazione senza
equo indennizzo.
Passando a ribattere le censure mosse alla procedura di
affrancazione prevista dalla legge impugnata, sostiene che (anche se
dovesse aderirsi alla tesi secondo cui, perché si verifichi
l’affrancazione, occorre il consenso del concedente o, in difetto, una
sentenza di natura costitutiva, e non invece all’opinione che ravvisa
nel diritto di affrancazione dell’enfiteuta un diritto potestativo
sostanziale, al cui esercizio male si adatterebbero le forme della
giurisdizione contenziosa) tratterebbesi nella specie pur sempre di un
procedimento sommario che non si porrebbe in contrasto con i principi
dell’art. 24 Cost. Invero, dopo il provvedimento pretorile, può
instaurarsi un regolare procedimento innanzi alla sezione speciale del
tribunale, che garantirebbe lo svolgersi di un diritto di difesa nei
modi ordinari. In proposito l’Avvocatura pone in particolare rilievo
una presunta analogia tra l’efficacia attribuita dalla legge
all’ordinanza pretorile di affrancazione e l’esecutività del decreto
penale di condanna non opposto, che tale diviene non perché
l’ordinamento dia valore ad una pronuncia giurisdizionale emessa senza
le dovute garanzie di difesa, ma perché la parte, non opponendosi alla
condanna, dimostra di non aver motivi da far valere contro il
provvedimento, così come avrebbe appunto chiarito la sentenza n. 170
del 1963 della Corte costituzionale che ha escluso il contrasto fra il
procedimento per decreto e l’art. 24 Cost. D’altra parte, soggiunge
l’Avvocatura, se l’ordinanza pretorile di affrancazione va trascritta,
altrettanto deve dirsi però per la eventuale sentenza difforme della
sezione del tribunale che si pronunci sul diritto all’affrancazione,
per cui non sarebbe ragionevole il timore che l’ordinanza possa attuare
un fatto compiuto irreversibile.
Nel contestare poi le censure sollevate contro l’art. 8 della legge
l’Avvocatura precisa che l’abrogazione ivi prevista limiterebbe solo
parzialmente i diritti del concedente, investendo solo un aspetto
marginale del diritto del proprietario alla devoluzione che, nella sua
essenza, resterebbe pur sempre garantito, salvo il rispetto della
esigenza di eliminare la prevalenza della domanda di devoluzione su
quella di affrancazione, avvertita dal legislatore a seguito di un
apprezzamento discrezionale, incensurabile in questa sede.
Infondata sarebbe infine la censura sollevata in relazione all’art.
111 Cost., giacché tale precetto, col termine di sentenza, si
riferisce a tutti i provvedimenti a contenuto decisorio contro i quali
pertanto, anche se aventi forma di ordinanza, è sempre consentito il
ricorso in Cassazione.
Si sono costituiti anche alcuni enfiteuti e precisamente Ciprì
Stefano e altri, rappresentati e difesi dall’avv. Achille Prinzivalli,
nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Palermo del 3
febbraio 1967; De Mezza Angelo e Borselleca Salvatore, rappresentati e
difesi dall’avv. Antonio Putzolu, nel giudizio promosso con ordinanza
del pretore di Vitulano del 9 febbraio 1967; Ciancone Amedeo,
rappresentato e difeso dall’avv. Mario Diana, nel giudizio promosso con
ordinanza del pretore di Anagni del 6 marzo 1967; Masella Nello,
rappresentato e difeso dall’avv. Corrado Noulian, nel giudizio promosso
con ordinanza del pretore di Velletri del 5 aprile 1967; Mastrantonio
Vincenzo e altri, rappresentati e difesi dall’avv. Mario Diana, nonché
Pomente Maria, rappresentata e difesa dall’avv. Alessandro De Feo,
nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Frosinone del 6
aprile 1967; Piori Biagio, rappresentato e difeso dall’avv. Mario
Diana, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Alatri del 6
maggio 1967; Non Pietro ed altri, rappresentati e difesi dall’avv.
Mario Diana, nel giudizio promosso con ordinanza del pretore di Paliano
del 1 giugno 1967.
Le rispettive difese hanno ampiamente svolto le ragioni che
militerebbero a favore della conservazione della disciplina dettata con
la legge impugnata, sviluppando argomentazioni analoghe a quelle testé
accennate.
In particolare per escludere che la legge impugnata disponga un
livellamento irrazionale di situazioni diverse, si è osservato
anzitutto che le differenze fra i vari rapporti non sarebbero tali da
richiedere una disciplina differenziata e che comunque le diversità
stesse troverebbero concreta rispondenza nella determinazione del
reddito dominicale di ciascun fondo, assunto dalla legge come base per
la determinazione del prezzo di affrancazione.
La parificazione disposta dalla legge non potrebbe ritenersi lesiva
del principio di eguaglianza neppure per il fatto che non si sarebbe
tenuto conto delle aree divenute fabbricabili perché, anche a norma
della precedente disciplina, tali incrementi di valore non sarebbero
egualmente venuti in considerazione ai fini dell’affrancazione. Neppure
varrebbe ad integrare l’asserita violazione dell’art. 3 della
Costituzione l’omessa considerazione delle particolari clausole
contrattuali dei vari rapporti che, ove realmente portassero ad una
diversa caratterizzazione del contratto, condurrebbero alla esclusione
dell’applicabilità della legge da parte del giudice. Inoltre dovrebbe
anche escludersi in particolare la violazione del principio di
eguaglianza per effetto degli artt. 8 e 9 impugnati, perché la legge
non avrebbe fatto altro che porre un limite temporale all’esercizio
della devoluzione, la quale presenterebbe caratteristiche analoghe ad
una risoluzione per inadempimento.
Inoltre si è affermato che il diritto di proprietà è tutelato
dalla Costituzione con espresso riferimento alla funzione sociale dei
beni, in vista cioè dell’uso che il singolo ne fa ai fini del
conseguimento di interessi socialmente rilevanti, per cui non
meriterebbe tutela il concedente, che ha ceduto il proprio bene ad
altri, disinteressandosene in modo da lasciare agevolmente considerare
né valido né operante il suo diritto di proprietà. Il che renderebbe
del pari manifesta l’inidoneità dell’istituto stesso dell’enfiteusi a
soddisfare le attuali esigenze sociali di ordine generale e quelle
specifiche di incentivazione della produzione agricola, e fornirebbe
ampia base giustificatrice alla legge in esame che in sostanza,
annullando le sperequazioni sopra accennate, provvederebbe
all’attuazione dei precetti costituzionali di cui agli artt. 41 e 42,
secondo e terzo comma, eliminando ostacoli di ordine economico e
sociale alla partecipazione dei lavoratori alla vita economica del
Paese.
Siccome poi l’affrancazione dovrebbe qualificarsi come un
particolare modo di acquisto della proprietà, le norme impugnate
andrebbero valutate alla stregua dell’art. 42, secondo comma, della
Costituzione, e si resterebbe fuori del campo di applicazione
dell’invocato terzo comma dello stesso articolo. Ciò, senza dire che,
in ogni caso, non potrebbe ravvisarsi nella descritta determinazione
del prezzo di affranco una sostanziale espropriazione perché, così
facendo, si finirebbe con l’ammettere che è espropriazione qualunque
fissazione di prezzo di imperio.
Per quanto riguarda la censura mossa alla procedura di
affrancazione, si è osservato anzitutto che il pretore non svolgerebbe
un’azione meramente passiva che debba necessariamente giungere
all’accoglimento della richiesta ma, attraverso l’audizione del
concedente e la valutazione degli elementi probatori, si formerebbe un
convincimento circa il diritto dell’affrancazione e l’entità del
relativo prezzo. In ogni caso lo spostamento dell’esercizio di difesa
alla seconda fase non conculcherebbe il diritto stesso, regolandone
solo le modalità di espletamento entro i limiti che ne garantirebbero
lo scopo e la funzione essenziale.
In particolare poi la censura si dimostrerebbe infondata dovendosi
escludere di massima l’ipotesi della alienabilità del fondo in
pendenza del termine per adire la sezione del tribunale, e dovendosi
escludere comunque la natura giurisdizionale del procedimento
pretorile, che dovrebbe piuttosto ritenersi di carattere
amministrativo. Dal che, secondo alcuni difensori, deriverebbe
altresì l’irricevibilità della questione, che potrebbe essere
sollevata solo nel corso di un procedimento giurisdizionale.
Anche le particolari forme probatorie previste dalla legge non
violerebbero il principio di difesa, rientrando certamente nelle
facoltà del legislatore l’adeguamento dei mezzi di prova ai diritti
che si fanno valere ed ai relativi procedimenti. Comunque, anche a
voler ammettere l’inutilità della pronuncia della sezione del
tribunale, per avvenuta alienazione del fondo nel frattempo, ciò non
significherebbe vanificazione del diritto di difesa, soccorrendo il
risarcimento del danno. L’ipotesi sarebbe però da escludere, giacché
la stessa legge prevede la trascrizione anche della eventuale
contestazione, e quindi la inefficacia delle alienazioni.
All’udienza del 7 novembre 1967, i giudizi promossi con le prime
trentuno ordinanze sopra indicate, regolarmente notificate, comunicate
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale come in epigrafe, sono stati
congiuntamente discussi e le difese delle parti costituite hanno svolto
ed illustrato le tesi già prospettate.
Il 12 dicembre successivo la Corte ha emesso un’ordinanza con la
quale, riuniti i giudizi di legittimità costituzionale della legge 22
luglio 1966, n. 607, ha richiesto al Ministero dell’agricoltura e
foreste di fornire dati concernenti la situazione dei rapporti di cui
agli artt. 1 e 13, lett. a, b, c, della legge stessa, nonché elementi
di fatto riguardanti il contenuto economico, in relazione ai singoli
tipi negoziali, della nuova disciplina dei canoni e delle
affrancazioni. Il Ministero ha elaborato una relazione al riguardo,
depositata in cancelleria il 12 aprile 1968.
Nelle more del giudizio è pervenuto un altro gruppo di ordinanze
di rinvio che, in tutto o in parte, ripropongono sostanzialmente le
questioni già dianzi accennate concernenti le citate norme della legge
n. 607 del 1966, profilando peraltro anche qualche diverso aspetto di
illegittimità.
Si è prospettata la violazione dell’art. 25 Cost., che si
concreterebbe per effetto della particolare procedura di affrancazione,
la quale in sostanza opererebbe un rinvio ad un giudice speciale, in
contrasto con la garanzia del giudice naturale precostituito per legge;
si è lamentato un particolare profilo del vizio di eccesso di potere
legislativo che dovrebbe ravvisarsi nella circostanza che il
legislatore avrebbe perseguito un fine oblatorio della proprietà
conclamando invece di voler regolamentare l’istituto dell’enfiteusi ed
usando quindi il suo potere normativo in materia, per attuare il fine
diverso della espropriazione, “riservando ad altra disciplina”; si è
prospettata la violazione del principio di eguaglianza in vista della
discriminazione che, per effetto delle norme impugnate, verrebbe a
crearsi fra i concedenti e coloro che non avendo concesso in enfiteusi
i loro beni, manterrebbero integra la loro libertà contrattuale; si è
ravvisata nell’abolizione dell’istituto della revisione dei canoni,
disposta dall’art. 18 della legge, una causa ulteriore di iniquità a
danno di una delle parti contraenti, in quanto in difetto di
adeguamento al costante divenire economico, si assisterebbe nel caso di
svalutazione monetaria, ad uno squilibrio a favore degli enfiteuti, e
nel caso, improbabile ma non impossibile, di rivalutazione, ad uno
squilibrio a favore dei concedenti.
Anche le ordinanze predette, regolarmente notificate e comunicate,
sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica come
indicato in epigrafe.
Fra i concedenti si è costituita nel procedimento promosso con
ordinanza del pretore di Torre del Greco in data 22 maggio 1968 la
Mensa arcivescovile di Napoli, rappresentata e difesa dall’avv. Elio de
Martino, che ha insistito nel sostenere l’illegittimità della legge in
esame per motivi coincidenti con parte di quelli sopra esposti, non
senza indicare particolari motivi di illegittimità non compresi
nell’ordinanza di rinvio e consistenti nel preteso contrasto della
legge con l’art. 7 della Costituzione, per l’incidenza che avrebbe la
nuova regolamentazione sulla disciplina del godimento dei beni
ecclesiastici prevista dal Concordato, e con l’art. 81 della
Costituzione, per le nuove spese senza indicazione di copertura che si
renderebbero necessarie per corrispondere la congrua agli ecclesiastici
che vedrebbero decurtare le loro entrate per effetto della legge in
esame. Nel procedimento promosso con ordinanza della Corte di appello
di Catania del 22 luglio 1968, si sono costituiti Impellizzeri Lucia ed
altri, rappresentati e difesi dagli avvocati Edoardo di Giovanni e
Alfredo Marziano che si sono richiamati ai motivi di illegittimità
fatti valere contro gli artt. 1, 15 e 18 della legge nell’ordinanza
della Corte di appello e che riproducono in parte quelle che in
proposito si è già avuto modo di illustrare.
Fra gli enfiteuti si sono costituiti, nel procedimento ora citato,
proveniente dalla pretura di Torre del Greco Garzilli Giuseppe ed
altri, rappresentati e difesi dall’avv. Guido Trapani; nei procedimenti
promossi con ordinanze del pretore di Marano di Napoli del 15 luglio
1967 e di Terracina del 2 agosto 1967 l’Opera nazionale combattenti,
rappresentata e difesa, in entrambi, dall’avv. prof. Rosario Mazzone;
nel procedimento promosso con ordinanza del tribunale di Agrigento del
22 luglio 1967 Casa Giuseppe ed altri, rappresentati e difesi dall’avv.
Alessandro De Feo.
Nel sostenere l’infondatezza delle sollevate questioni di
legittimità, le suddette parti private ribadiscono, svolgendoli,
taluni argomenti analoghi a quelli più sopra enunciati a difesa della
nuova disciplina.
In particolare si è sviluppata l’argomentazione secondo cui il
procedimento avanti al pretore non avrebbe carattere giurisdizionale,
in difetto di provvedimenti decisori in tal senso da parte del giudice.
Si è inoltre negato il contrasto con la garanzia del giudice naturale
affermandosi che per tale deve intendersi anche quello che, per una
determinata categoria di rapporti, può essere indicato da una legge
speciale, purché con il carattere della generalità.
Nel ribattere le censure mosse contro il procedimento di
affrancazione, si è anche osservato, che avanti al pretore si
svolgerebbe invece un giudizio di cognizione sommaria, con l’osservanza
dei termini essenziali del principio del contraddittorio, e che
l’ordinanza pretorile, la quale dovrebbe essere motivata anche in
relazione alle eccezioni e riserve delle parti, avrebbe il carattere di
un provvedimento giurisdizionale provvisoriamente esecutivo, salvi
quindi gli effetti della eventuale sentenza difforme della sezione
specializzata del tribunale, in analogia con altri procedimenti a
cognizione sommaria previsti dall’ordinamento e segnatamente col
procedimento monitorio e quello per la dichiarazione di fallimento.
Si è anche affermata in particolare l’infondatezza della censura
mossa all’art. 15 della legge nella parte in cui esclude dalla nuova
disciplina i canoni nei casi in cui i relativi versamenti siano già
stati effettuati osservando, che, mentre la censura si fonda sulla
pretesa ingiustificata discriminazione a danno degli enfiteuti
ossequienti all’obbligazione di pagare il canone ed a favore di quelli
restii ad adempierla, in realtà la norma troverebbe ampia
giustificazione nel riconoscimento del valore del processo di lotta
sindacale che avrebbe condotto all’adozione della nuova disciplina e
che avrebbe incluso, come mezzo di lotta, anche la sospensione dei
pagamenti in attesa della riforma.
L’Avvocatura dello Stato, costituitasi nel giudizio promosso con
ordinanza del pretore di Isernia del 14 luglio 1967, insiste
nell’evidenziare il pubblico interesse alla trasformazione delle
strutture dell’istituto enfiteutico, in corrispondenza della evoluzione
sociale e delle esigenze della produzione agricola, e ribadisce le
altre tesi già svolte in precedenza.
Tempestivamente sono state depositate memorie illustrative, per i
concedenti, dagli avvocati Riccardo Leone, Alfredo Marziano, Salvatore
Orlando Cascio e Vincenzo Panuccio, Giuseppe Abbamonte e Giuseppe
Todini, Sebastiano Mastrobuono, difensore della Aragona Pignatelli Anna
Maria, in sostituzione dell’avv. Orgera (deceduto), Luigi Cariota
Ferrara, Alberto Melito. L’avv. Cariota Ferrara ha depositato anche
memoria difensiva per Scio Antonio ed altri contro Schifano Filippo ed
altri, non risultando peraltro a suo tempo costituito nel relativo
giudizio. Nel complesso i suddetti difensori hanno ulteriormente svolto
le tesi già precedentemente illustrate ribadendo agli esposti
argomenti.
Inoltre, sono stati formulati rilievi alla relazione del Ministero
dell’agricoltura, il cui contenuto è stato da più parti ritenuto
lacunoso, generico, ed impreciso, specie per quanto concerne la
rispondenza dei dati esposti alla effettiva situazione dei rapporti
esaminati, con particolare riguardo alle enfiteusi urbane.
Tuttavia, anche in base alla relazione ministeriale, sarebbe da
ritenere dimostrata la violazione del principio di eguaglianza, per la
diversità del contenuto economico e della tipologia degli istituti
considerati, e l’irrisorietà dei canoni e dei capitali di
affrancazione di cui la relazione ministeriale darebbe sostanzialmente
la conferma, e che raggiungerebbe comunque gli aspetti più clamorosi,
anche se, si afferma, non dovutamente evidenziati nella relazione
stessa, nel caso delle enfiteusi urbane. E ciò anche a prescindere
dalla inapplicabilità della legge a tale ultimo tipo di contratto, su
cui si torna ad insistere.
Allegate a diverse memorie figurano anche documentazioni tendenti a
corroborare ulteriormenti descritti assunti.
Per gli enfiteuti costituiti sono state ritualmente presentate
memorie dagli avvocati Rosario Mazzone, Antonio Putzolu, Alessandro De
Feo e Achille Prinzivalli. In sostanza, nel rifarsi, ampliandole, alle
tesi già illustrate per escludere la fondatezza delle questioni
sollevate, si rileva tra l’altro che dall’esame dei dati esposti nella
relazione risulterebbe dimostrata la riconducibilità al tipo del
contratto enfiteutico di tutti i rapporti menzionati nella legge in
esame la cui applicabilità a quei tipi di contratti, che presentassero
elementi di differenziazione troppo incisivi potrebbe essere esclusa
dal giudice di merito.
I dati esposti inoltre porrebbero giustamente in evidenza le
sperequazioni verificatesi a danno degli enfiteuti, specie in relazione
agli apporti da questi esclusivamente forniti alla redditività dei
fondi, e che appunto la legge impugnata mirerebbe fra l’altro ad
eliminare, anche in vista dell’evoluzione storica dell’istituto,
destinato all’estinzione, nonostante il tentativo di rivalutazione
attuato dal Codice civile del 1942.
Anche l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria
con cui afferma, tra l’altro, che mentre dalla relazione del Ministero
risulterebbe ridimenzionato il presunto squilibrio che deriverebbe
dalla applicazione della nuova legge, rimarrebbe altresì confermata
sia la remota origine di gran parte dei rapporti in questione,
probabilmente di natura feudale, per cui la reductio ad unitatem
operata dalla legge obbedirebbe a fondamentali esigenze di chiarezza ed
uniformità, sia comunque la progressiva desuetudine dell’istituto.
1. – Con l’ordinanza 12 dicembre 1967 sono stati riuniti i giudizi,
allora pendenti davanti a questa Corte e riguardanti questioni di
legittimità costituzionale della legge 22 luglio 1966, n. 607.
Nelle more della procedura, conseguente all’ordinanza, hanno fatto
seguito altri giudizi, elencati in epigrafe, e tutti concernenti la
stessa legge e le stesse questioni od altre connesse.
Va ora disposta, per dar luogo ad unica decisione, la riunione dei
giudizi sopravvenuti a quelli precedenti.
2. – Le questioni sottoposte all’esame della Corte concernono
motivi, in parte comuni, in parte proposti soltanto in alcune
ordinanze: nonché motivi, alcuni relativi alla dichiarazione di
illegittimità della intera legge ed altri limitati a parte delle norme
che la compongono.
La Corte procede, nell’ordine logico, anzitutto all’esame delle
questioni che riguardano globalmente l’intera legge e poi all’esame
delle questioni che la riguardano parzialmente.
3. – Con il primo ordine di motivi, si pone in discussione la
costituzionalità dell’intero sistema normativo di cui alla legge
suindicata, sistema che sarebbe viziato da eccesso di potere
legislativo per disarmonia col precedente sistema favorevole
all’istituto dell’enfiteusi, per contrasto con i fini di utilità
sociale della proprietà privata e perché avrebbe dato luogo ad una
sostanziale espropriazione dei beni dei concedenti, dissimulata sotto
l’apparenza pretestuosa di una aggiornata regolamentazione
dell’istituto, risolventesi in una sua graduale soppressione.
La questione non è fondata.
Si può osservare, anzitutto, che, a smentire un deliberato intento
di procedere all’eliminazione dell’istituto dell’enfiteusi, sta
l’emanazione di altra legge coeva a quella in esame (legge 22 luglio
1966, n. 606) con la quale (art. 1) si dispone che ogni affitto a
conduttori non coltivatori diretti debba cedere di fronte ad una
concessione in enfiteusi del fondo a coltivatori diretti.
Comunque, l’ipotizzabilità stessa di un vizio di eccesso di potere
legislativo, rilevabile dalla Corte, deve escludersi.
Si può ricordare che, secondo giurisprudenza (sentenze 24 febbraio
1964, n. 14 – 8 aprile 1965, n. 30 – 1 giugno 1966, n. 65 – 22 giugno
1966, n. 95) dal sindacato spettante alla Corte esula ogni possibilità
di controllo sulle scelte politiche, in senso lato operate dal
legislatore, sotto la sua responsabilità. Onde, il controllo della
Corte deve intendersi circoscritto alla verifica se il provvedimento
legislativo sia inficiato da carenza assoluta di motivi logici e
coerenti o da contraddizione palese sui presupposti, in modo da
incidere negativamente nel campo di altri diritti costituzionalmente
garantiti (sul punto sono particolarmente da tenere presenti le citate
sentenze n. 14 del 1964 e n. 65 del 1966).
Con riferimento alla specifica situazione in esame, attiene alle
scelte politiche, insindacabili in questa sede, il criterio che ha
orientato il legislatore verso un riassetto dei rapporti enfiteutici
agrari. Questo criterio è palese: correggere il vetusto apparato
dell’istituto, conformando il nuovo assetto alla tendenza, di
incentivare lo sfruttamento della terra, riconducendo ad equa
socialità i rapporti che ineriscono alla proprietà terriera: nella
specie, i rapporti tra chi si limita a concedere la terra perché sia
lavorata da altri e rimane, poi, assenteista, e chi vi appresta invece
diuturne forze di lavoro. (L’ipotesi di fatto che enfiteuti o coloni
eventualmente non siano personalmente coltivatori diretti, è ipotesi
solo marginale ed occasionale, che lascia intatta la regola generale
che non distingue l’un caso dall’altro).
Accertare, sul terreno storico – politico, la sopraggiunta esigenza
di un ridimensionamento dell’istituto è e deve restare prerogativa del
Parlamento, esente da controlli al riguardo: salvo, come si è detto,
il controllo sulla carenza assoluta di motivi, che qui va ovviamente
esclusa, ed il controllo sulla costituzionalità di alcune norme
particolari, assunte come mezzo al fine: controllo, quest’ultimo, che
esula dal profilo qui considerato.
4. – Altra questione, che riguarda l’incostituzionalità della
legge nel suo complesso, viene proposta, nel senso che il sistema
adottato, pel favore mostrato verso la categoria degli enfiteuti,
vulnererebbe i diritti inviolabili dell’uomo garantiti, ai fini di
solidarietà economico-sociale, dall’art. 2 della Costituzione.
Questa Corte ha già ritenuto (sentenze 19 giugno 1956, n. 11, e 22
marzo 1962, n. 29) che l’art. 2 enuncia, solo in via generale, la
tutelabilità di quei diritti di base, che formano il patrimonio
irretrattabile della persona umana, mentre è nelle norme successive
che quei diritti sono poi, singolarmente presi in considerazione e,
come tali, in vario modo e misura, garantiti, tutelati e tutelabili.
Dato il profilo sotto cui è proposta la questione, rapportandola
sommariamente, nell’ambito dell’art. 2, senza collegamento, immediato e
diretto, con una denuncia di specifiche violazioni di diritti umani, la
questione stessa va disattesa.
5. – Tra i motivi, frequentemente ripetuti nelle ordinanze, v’è
quello che la legge in esame, dando luogo, mediante gli artt. 1 e 13,
ad uniformità di normativa, anche per rapporti differenziati dai
rapporti enfiteutici tipici, contrasterebbe col fondamentale principio
di cui all’art. 3 della Costituzione.
Nel novero dei rapporti, assimilati nel trattamento, e sempre sul
presupposto, comune a tutti gli istituti, della loro natura reale,
figurano le prestazioni fondiarie perpetue, i rapporti a miglioria in
uso nelle provincie del Lazio e in altre parti del territorio
nazionale, i contratti agrari atipici, nella loro multiforme varietà:
ai quali rapporti, elencati testualmente negli artt. 1 e 13 si assume
che dovrebbero aggiungersi, ritenendoli implicitamente regolati dalla
legge, i rapporti aventi per oggetto enfiteusi urbane ed enfiteusi – ad
aedificandum – mentre ogni loro assimilabilità nelle conseguenze, alle
enfiteusi rustiche sarebbe, per diversità di contenuto e di
caratteristiche, illegittima.
Per quanto concerne le enfiteusi urbane e quelle – ad aedificandum
– considerate le prime come aventi generalmente per oggetto terreni gia
coperti da edifici da conservare e migliorare e le seconde, come aventi
per oggetto terreni concessi in enfiteusi per essere migliorati
mediante la costruzione di edifici, la Corte ritiene che il sistema
della legge, desunto dalla sua coordinazione, comporti la esclusione di
esse dalla previsione legislativa.
Là dove la legge (art. 1) usa i termini di enfiteusi e di canoni
enfiteutici parrebbe riferirsi comprensivamente a tutti i tipi di
enfiteusi, nessuno escluso.
Ma, un esame di dettaglio fa ritenere che l’oggetto della legge
riguarda soltanto le enfiteusi di fondi rustici a fini di miglioramento
agrario, cioè quelle che prevalgono di gran lunga, per tradizione e
diffusione, e che qui sono state considerate nel quadro generale di
attuazione di riforme agrarie.
Il calcolo prescritto per ottenere una corrispondenza tra canoni in
danaro e canoni in derrate (art. 1); la ricorribilità contro
l’ordinanza di affranco alla Sezione speciale del tribunale per i
contratti agrari (art. 5); le agevolazioni agli affrancanti coltivatori
diretti in relazione alle disposizioni sulla proprietà contadina
(artt. 11 e 12); il riferimento della misura dei canoni e delle
prestazioni all’annata agraria (art. 15): sono tutte disposizioni che,
non accompagnate da altre relative a fondi non rustici, denotano
l’ambito esclusivo della legge.
Vero che, nelle discussioni in sede parlamentare, è sembrata
prevalere la tendenza a considerare onnicomprensiva la formula
dell’art. 1.
Ma le tutt’altro che univoche opinioni soggettive in tale senso
manifestate, non valgono a sovrapporsi al senso naturale e logico che
risulta dal testo della legge, sistematicamente considerato; con la
conseguenza che il giudizio della Corte va circoscritto, a tutti gli
effetti normativi, generali e particolari, entro l’ambito segnato
dall’oggetto della legge, delimitato, come ora si è detto.
Circa le prestazioni fondiarie perpetue (art. 1 della legge) alle
quali sono proprio le regole sulla redimibilità delle rendite perpetue
(artt. 1865 e 1869 del Codice civile) l’applicazione ad esse delle
stesse regole dell’enfiteusi è concetto consolidato per antica
tradizione, che va dalla legge 24 gennaio 1864, n. 1636 in poi (legge
11 giugno 1925, n. 998; regio decreto 7 febbraio 1926, n. 426;
D.L.C.P.S. 4 dicembre 1946, n. 671). Soltanto la legge 1 luglio 1952,
n. 701, non ha compreso le rendite fondiarie perpetue nella revisione
dei canoni, ma dall’iter formativo della legge risulta che l’esclusione
fu dovuta non al disconoscimento di un principio equiparativo, bensì a
considerazioni di mera opportunità contingente.
Per quanto concerne i rapporti a miglioria in uso nelle provincie
del Lazio, va tenuto presente che l’art. 13, lett. a, della legge in
esame, nell’annoverarli, non si limita ad un richiamo generico, ma
testualmente li identifica e, nel contempo, li circoscrive a quelli
precisati negli artt. 1 e 2 della legge 25 febbraio 1963, n. 327: cioè
a quei rapporti che, dichiarati perpetui, vi sono definiti (art. 1)
come quelli nei quali il coltivatore (possessore ultratrentennale)
abbia migliorato il fondo con impianto di colture arboree o arbustive,
od abbia pagato le migliorie esistenti all’atto dell’ingresso nel fondo
al proprietario concedente o al miglioratario nel luogo del quale
subentri, secondo convenzione od uso locale (condizione, questa ultima,
anche per il cumulo del periodo di durata, secondo l’art. 2). Solo al
verificarsi di queste condizioni, da accertarsi in fatto dal giudice
ordinario competente, è sottoposta l’applicabilità delle norme
generali sull’enfiteusi e di quelle, speciali e successive,
sull’affrancazione.
Questa Corte ha già sottoposto ad esame di costituzionalità i
citati artt. 1 e 2 della legge del 1963, riconoscendo legittimi con
sentenza 20 marzo 1966, n. 30 l’assimilazione, negli effetti,
all’enfiteusi dei rapporti a miglioria laziali purché aventi i dati
caratteristici precisati nell’articolo i ed il loro assoggettamento ad
una stessa disciplina normativa.
Appunto da questa premessa, la Corte ha fatto derivare
l’illegittimità dei seguenti artt. 4 e 5, riguardanti l’applicazione a
detti rapporti di peculiari norme di procedura sulla determinazione
dell’equo canone di affitto di fondi rustici, ritenute estranee alla
materia (enfiteusi o rapporti assimilati) cui avrebbero dovuto essere
applicati.
Con la stessa sentenza, la Corte, nel delineare l’ambito di
assimilazione di istituti nei loro effetti, ha, poi, messo in evidenza
che detti effetti vanno esclusi ove si tratti di rapporti di colonie
parziarie con clausola migliorataria (art. 2164 del Cod. civile) nelle
quali è prevalente il carattere associativo.
La Corte, nel determinare il contenuto del citato articolo 13,
lett. a, per valutare se l’equiparazione si risolva in un inammissibile
trattamento imposto in modo eguale per situazioni disuguali, non può
che adeguarsi alla propria succitata sentenza posto che in contrario
non è profilato alcun nuovo argomento decisivo. Valido argomento
contrario non è quello, ultimamente prospettato, che ogni
assimilazione dovrebbe escludersi pel fatto solo che i rapporti a
miglioria in uso nelle provincie laziali sono caratterizzati
generalmente dalla limitazione dei diritti-doveri del miglioratario al
soprassuolo, a differenza dei rapporti enfiteutici. Questo particolare
rilievo, da considerarsi soprattutto sotto il riflesso della estensione
e misura dell’esercizio del diritto di affranco, non è tale da
sovrapporsi a tutti gli altri criteri di accostamento tra i due
rapporti: una volta ammesso che, anche per le colonie miglioratarie del
tipo in esame, sussiste il diritto pieno all’affrancazione,
riconosciuto testualmente per esse fin dalla legge 11 giugno 1925, n.
998, la conseguenzialità degli effetti di questa è inerente alla
natura dell’atto e ne discende, senza più consentire distinzioni tra
soprassuolo e sottosuolo.
Alla stessa conclusione deve coerentemente addivenirsi per quanto
riguarda i rapporti a miglioria relativi a fondi rustici situati in
altre parti del territorio nazionale ed analoghi, per contenuto e
caratteristiche, a quelli delle provincie del Lazio (art. 13, lett. b,
ed ultimo comma) salvo al giudice di merito verificare, caso per caso,
la sussistenza di tutte le condizioni di analogia.
Infine, va escluso alcun motivo di incostituzionalità per quanto
riguarda la estensione della normativa ai rapporti costituiti in base a
contratti agrari atipici (art. 13, lett. c), Questa categoria, a
contenuto variabile con la varietà di situazioni locali, è stata
espressamente considerata dall’art. 13 della legge 15 settembre 1964,
n. 756 sui contratti agrari, al fine di favorire la conversione ope
legis di questi nella sfera dei contratti tipici, in dipendenza del
premesso divieto di stipulare per l’avvenire contratti agrari di
concessione di fondi rustici non appartenenti ad alcuno dei tipi di
contratti conosciuti e nominati dalle leggi. L’art. 13, lett. c,
condizionando l’equiparazione di trattamento all’accertamento che si
tratti di contratti in cui siano prevalenti gli elementi del rapporto
enfiteutico, si mantiene nel solco della suaccennata direzione
normativa.
In conclusione, anche sul punto riguardante la situazione dei
rapporti elencati alle lettere a, b, c dell’art. 13 deve ritenersi la
non fondatezza della questione di legittimità sollevata con
riferimento all’art. 3 della Costituzione.
6. – Viene sollevata, come questione d’ordine generale, quella di
legittimità costituzionale degli artt. 2 e seguenti, in quanto il
sistema procedurale per addivenire all’affrancazione violerebbe, nella
sua fase davanti al pretore, la garanzia del diritto di difesa (art.
24, secondo comma, Cost.).
Si assume che l’ordinanza del pretore che dispone l’affrancazione
del fondo viene emessa senza che delle osservazioni, riserve ed
eccezioni delle parti sia fatto un esame che vada al di là di una loro
sommaria presa d’atto (art. 4, quarto comma), mentre l’esame di tutta
la possibile materia del contendere, a cominciare dal diritto stesso
all’affrancazione, viene condizionato al futuro ed eventuale ricorso da
proporsi alla sezione speciale dei contratti agrari presso il tribunale
competente (art. 5, quinto comma). Per cui si darebbe luogo all’anomala
conseguenza che basta la notifica della predetta ordinanza a produrre
l’estinzione dell’enfiteusi (art. 5, quarto comma) ed a costituire
titolo per la sua trascrizione (art. 4, sesto comma).
La questione non è fondata.
È indubbio che l’attività del pretore, nella fase di cui ai
succitati articoli, dia luogo ad un procedimento giurisdizionale. La
procedura si apre con la presentazione di una “domanda giudiziale”
(art. 2): si svolge attraverso “udienze” (artt. 3, 4) nella prima delle
quali, disposta con decreto la “comparizione personale delle parti”, il
pretore ha l’obbligo di “cercarne la conciliazione ai sensi dell’art.
185 del Codice di procedura civile” tentando, cioè, quella
composizione della lite che inerisce alla fase iniziale dei giudizi
civili: e la procedura si conclude con un provvedimento designato col
nome di ordinanza, che, anch’esso, è proprio del giudizio. Manca solo
al provvedimento il carattere della definitività nel senso che,
essendo assegnato ai controinteressati un termine per adire il
tribunale, la definitività verrà a derivare o dall’acquiescenza o
dalla sentenza con la quale il tribunale perverrà a “decidere
definitivamente” la controversia (art. 1 sesto comma).
Ciò premesso sulla natura degli atti, va esclusa la supposta
menomazione del diritto di difesa.
Da una parte, va considerato che l’affrancazione è subordinata
alla produzione e deposito di tutti i numerosi atti probatori elencati
nell’art. 2 e controllabili da tutte le parti e anche dai loro patroni,
poiché, trattandosi di fase giudiziale, è regola che le parti siano
rappresentate e assistite da procuratori e da difensori (art. 82 del
Cod. proc. civ.) ai quali sono riconosciuti i diritti e gli onorari
(art. 10 cpv.). La produzione di atti di notorietà è soltanto un
surrogato di atti la cui mancanza dovrà essere ovviamente
giustificata.
D’altra parte, è riservata al pretore cognizione ampia su tutti i
presupposti della domanda, sia mediante l’estensione dell’intervento
alla procedura di altri interessati, risultanti “da notizie e dalla
documentazione”, sia mediante i contatti diretti con le parti (e loro
difensori) ai sensi dell’art. 185 del Codice di procedura civile, sia
mediante l’ausilio di consulente tecnico (art. 4), sia mediante la
determinazione del capitale d’affranco ed il controllo sul suo deposito
preventivo (art. 4, secondo e terzo comma). Il provvedimento del
pretore deve poi essere “motivato” e non può darsi motivazione senza
che la situazione da regolare sia tenuta presente dal giudicante per lo
meno nelle sue linee essenziali, scaturenti dagli elementi probatori
acquisiti.
Vero che il citato art. 4 dispone che, nello stesso provvedimento,
il pretore deve dare “sommariamente” atto delle osservazioni, delle
riserve e delle eccezioni delle parti. Ma tutto ciò, se vale a
conservare traccia scritta da servire per l’eventuale giudizio da
svolgersi in seguito davanti al tribunale, non basta per far ritenere
che il pretore debba rimanere del tutto passivo, quale semplice
registratore di deduzioni difensive, senza delibarne la portata.
Trattasi, in conclusione, di un procedimento sommario, volto ad
operare, in vista del risultato sociale che la legge ha di mira, ed
anche in considerazione che il diritto all’affranco spetta
all’enfiteuta come diritto primario di natura potestativa, l’immediata
estinzione del diritto del concedente e l’affermazione del pieno
diritto dell’ex enfiteuta sul fondo: salvo e riservate a tutte le parti
il diritto a conseguire in fase successiva una più piena tutela
giurisdizionale.
Si prospettano in contrario le conseguenze che potrebbero derivare
dal fatto che la trascrizione dell’ordinanza del pretore (imposta
dall’art. 4, ultimo comma) porrebbe a libito dell’affrancante il mezzo
di disporre del bene prima della “sentenza definitiva sulla
controversia”. Ma la facoltà accordata al pretore di ordinare
l’iscrizione di ipoteca giudiziale a favore del concedente per
l’ammontare che riterrà opportuno (art. 4, quinto comma), e, ancor
più, la pubblicazione mediante trascrizione degli atti inerenti al
fondo, a cominciare dalla trascrizione della domanda di affranco (art.
2643, n. 7, del Cod. civ.) escludono la possibilità di conseguenze
irreparabili in danno del proprietario.
7. – Compiuto l’esame delle questioni di costituzionalità che
riguardano la legge considerata nei suoi aspetti più generali, occorre
procedere all’esame di particolari questioni che più da vicino
investono, pur nel quadro generale del sistema, determinate norme.
La prima e più rilevante questione concerne l’art. 1 che, per la
fissazione dei canoni, innova alle norme del Codice civile,
prescrivendo (primo comma) che per essi debbasi far riferimento al
reddito dominicale calcolato, a norma della legge 29 giugno 1939, n.
976, oltre la rivalutazione disposta con il decreto legislativo 12
maggio 1947, n. 356, precisandosi per di più (ultimo comma) che tale
reddito va riferito alla qualifica catastale risultante al 30 giugno
1939. Seguono nello stesso articolo le disposizioni sul capitale
d’affranco calcolato in una somma corrispondente a quindici volte il
valore dei canoni come sopra determinato.
Si assume che la imposizione in via generale di un canone unico,
diverso da quello pattizio, comprimerebbe l’autonomia contrattuale,
contrastando con la libertà d’iniziativa economica privata (art. 41
Cost.) e, con l’abbassare notevolmente il livello dei valori,
sovvertirebbe, a danno del concedente e della utilità sociale,
l’equilibrio del rapporto e darebbe luogo ad un’affrancazione che di
questa perde i caratteri per assumere quelli di una espropriazione,
indennizzata in misura irrisoria, con violazione dell’art. 42 della
Costituzione.
La Corte, procedendo anzitutto all’esame della prima parte
dell’art. 1 (determinazione del canone) osserva che l’autonomia
contrattuale (già subordinata dall’art. 1322 del Cod. civ. ai “limiti
imposti dalla legge” e derogata dal seguente art. 1339 per quanto
riguarda la sostituzione di diritto alle clausole pattizie ed ai prezzi
di beni e servizi, di clausole imposte dalla legge) non riceve dalla
Costituzione una tutela diretta. Essa la riceve bensì indirettamente
da quelle norme della Carta fondamentale, che, come gli artt. 41 e 42
– riguardanti rispettivamente l’iniziativa economica e il diritto di
proprietà – si riferiscono ai possibili oggetti di quella autonomia.
Comunque, la giurisprudenza della Corte, in casi riguardanti riduzioni
di canoni d’affitto dei fondi rustici, rimunerazione del lavoro
colonico, fissazione di prezzi minimi di prodotti terrieri, diritti del
mezzadro sul valore delle scorte vive da riconsegnare (sentenze 20
febbraio 1962, n. 7; 13 maggio 1964, n. 40; 8 aprile 1965, n. 30; 2
luglio 1967, n. 118), ha ritenuto che, in materia, l’autonomia
contrattuale deve cedere di fronte a motivi d’ordine superiore,
economico e sociale, considerati rilevanti dalla Costituzione.
Né vale obbiettare che i fini sociali rimangono, nel caso, incerti
perché non tradotti in programmi definiti, ai sensi dell’art. 41,
terzo comma, della Costituzione. A parte ogni rilievo circa
l’invocabilità di quest’ultimo precetto fuori del campo dell’attività
d’impresa, va ricordato ancora una volta che il disegno che il
legislatore si è proposto con la legge in esame è sufficientemente
motivato ed evidenziato nell’ambito dell’esercizio di insindacabili
scelte politiche.
8. – Premessa la legittimità di un intervento in materia del
legislatore, va ora esaminato se altrettanto possa dirsi del sistema
adottato al fine di determinare il canone.
Il riferimento al reddito dominicale, costituito, come è noto,
dalla somma del reddito prodotto in modo specifico dalla terra secondo
la sua fertilità (rendita fondiaria propriamente detta) con
l’interesse dei capitali stabilmente investiti e incorporati nel suolo,
costituisce un parametro di applicazione già adottato in casi
analoghi. Va ricordata, particolarmente, la legge 15 febbraio 1958, n.
74 (art. 1) riguardante i canoni livellari veneti, ai quali canoni
l’art. 13, quarto comma, della legge attuale estende le proprie norme,
ad eccezione di quella dell’art. 1 già regolata dalla legge sui
livelli nel senso che, anche agli effetti del prezzo di affrancazione,
per i canoni costituiti prima del Codice del 1865 è fissata la misura
massima nel triplo del reddito dominicale del fondo sul quale gravano,
determinato secondo il decreto legge 4 aprile 1939, n. 589, convertito
in legge 29 giugno 1939, n. 976.
Quest’ultimo sistema di riferimento e di calcolo è stato
sottoposto al controllo di costituzionalità da parte di questa Corte,
che, con sentenza 9 luglio 1959, n. 46, lo riconosceva legittimo in sé
e nella congruità dell’ammontare, anche se in taluni casi questo
ammontare sarebbe venuto a risultare notevolmente basso.
Vero che sussistono alcune differenze particolari tra le due leggi
(quella sui livelli veneti e quella attuale) poiché la prima è
limitata ai rapporti costituiti prima del Codice del 1865 e fissa al
triplo del reddito dominicale il limite massimo di canoni, e in più
non comprende la rivalutazione di cui al decreto 12 maggio 1947, n.
356, e non fa riferimento esclusivo alla qualifica catastale risultante
al 30 giugno 1939.
Ma, agli effetti del punto in esame, la ragione allora adottata per
decidere, conserva la sua validità.
9. – Altra questione, che si innesta su questa premessa, è quella
riguardante in concreto, in relazione alla particolarità dei rapporti
regolati dalla legge, la misura del canone, quale deriva dal calcolo
legalmente imposto, anche in considerazione dei riflessi diretti
sull’affranco e sulla determinazione del capitale d’affranco. Le due
prospettive, attenendo l’una come l’altra al diritto di proprietà, ai
suoi limiti, alla possibilità di incidere su di esso e suoi rapporti
che ne nascono, si collegano all’art. 42 della Costituzione. Più
precisamente, risultandone colpite incisivamente certe posizioni
giuridiche dei proprietari, senza che peraltro venga innovato il regime
di appartenenza dei beni in sé considerato (infatti il regime della
proprietà terriera viene, in sé conservato immutato), si collegano al
terzo comma di tale articolo.
Si tratta perciò di un problema di proporzione quantitativa nella
coordinazione di rispettivi interessi. E, al riguardo, la relazione su
dati obbiettivi, demandata dalla Corte al Ministero dell’agricoltura,
costituisce un apporto tecnico per la valutazione della materia di
giudizio.
Ciò premesso, la Corte rileva che il punto di riferimento, fisso
ed insuperabile, alla qualifica ed al reddito catastale del 1939
maggiorato ai sensi del decreto legislativo n. 356 del 1947 deve essere
valutato, a tutti i fini sopra indicati, per saggiarne l’incidenza
economica sullo svolgimento del rapporto tra le parti nel corso della
sua durata e dal momento della sua eventuale cessazione.
La relazione del Ministero dell’agricoltura, offre alcuni dati
concreti sufficientemente orientativi ed ausiliari.
In proposito, la valutazione dei dati forniti dal Ministero e
composti da elementi indicativi specifici o mediamente prevalenti,
consente una prima conclusione: che il divario tra canone in danaro
pattizio e canone legale, è, in via generale, per quanto riguarda i
rapporti di antica costituzione, di limitata entità, tale da non
raggiungere, nella generalità dei casi, quel punto di rottura che
renderebbe il canone puramente apparente e simbolico. Trattasi di
canoni che, sin dall’origine lontana e nonostante i moderati ritocchi
accordati legislativamente nel corso della loro esistenza, hanno
conservato la portata di una misura esigua, in molti casi sopravvissuta
quasi per forza di inerzia, tra l’indifferenza dei concedenti.
La considerazione di questo sostrato di fatto è solo un elemento,
che integra necessariamente, ma senza esaurirla, la proposta questione
di costituzionalità.
Vi sono altri elementi che, più intrinsecamente e più da vicino,
riguardano la tipologia originaria dei rapporti di antica costituzione:
particolarmente l’elemento della immutabilità del canone.
Il principio della revisione del canone, a seconda dell’aumentato o
diminuito valore del fondo e notevolmente condizionato secondo l’art.
962, secondo comma, del codice civile, è stato introdotto soltanto con
il Libro della proprietà, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941,
n. 15, entrato in vigore dal 28 ottobre 1941, trasfuso nel testo del
codice civile approvato con regio decreto 16 marzo 1942, n. 262 e reso
esecutivo dal 21 aprile 1942. E per le enfiteusi costituite
anteriormente al 28 ottobre 1941, l’art. 114 delle disposizioni
transitorie al Codice civile ha bensì consentito la presentazione
della relativa domanda, ma solo a decorrere dal 28 ottobre 1944 ed in
più per la prima revisione, con limitati effetti sulla nuova misura
del canone.
Il diritto a chiedere la revisione del canone, riconosciuto al
concedente o all’enfiteuta ha conferito al contratto un nuovo elemento
di rilievo, rispetto al tipo tradizionale: ma, per quanto riguarda le
vecchie enfiteusi, con operatività alquanto ridotta.
Da qui, un fondamento di ragione, nelle norme del primo e ultimo
comma dell’art. 1 che, riferendo le valutazioni alla data del 30 giugno
1939 in rapporto alla qualifica catastale e ricavandone un reddito
dominicale rivalutato per legge, a cui adeguare il canone, realizzano,
in tal modo, una soluzione intermedia tra quella originaria e quella
prevista dal codice del 1942. Un simile risultato, del resto, non
rivela sproporzioni tali da fare considerare ridotto a misura
irrisoria, rispetto a quello iniziale, il compenso alla proprietà
sacrificata: in qualche caso perfino, come attesta la relazione
ministeriale, maggiorandolo, rispetto al risultato ottenibile con la
calcolazione di cui all’art. 971, ultimo comma, del Codice civile.
Lo stesso, conseguentemente, deve dirsi per quanto riguarda il
capitale di affranco (quarto comma dell’art. 1) ricavato moltiplicando
per quindici volte il valore dei canoni.
La Corte ritiene che la conclusione sia valida anche per i canoni e
le altre prestazioni in natura, sempre nell’ambito dei rapporti di
origine antica. L’art. 1 della legge in esame (secondo comma), sia per
i versamenti in quantità fissa di derrate, sia per quelli in quota di
derrate, li riduce, previa calcolazione dell’equivalente in danaro, al
limite della stessa somma corrispondente al reddito dominicale di cui
al primo comma.
Per quanto concerne la predetta calcolazione dell’equivalente in
danaro, l’art. 1 ha, ai fini dell’affranco, in parte seguito il
criterio adottato dall’art. 3 comma secondo della legge 1 luglio 1952,
n. 701, aggiornando tuttavia la rilevazione dei prezzi: soltanto la
successiva riduzione al limite suindicato costituisce una
particolarità inerente al nuovo sistema.
Il divario che ne risulta, secondo dati indicativi allegati alla
relazione del Ministero dell’agricoltura, è certo, almeno in molti
casi, maggiore di quanto non sia il divario tra i canoni in danaro.
Ma, data la natura e le origini dei remoti rapporti in questione e
i fattori ai quali si collega il mutare dei prezzi dei prodotti
agricoli, questo divario è tale da correggere ma non vanificare la
sostanza economica del rapporto. Il divisamento del legislatore di
unificare, nella regolamentazione, forme diverse dello stesso
istituito, trova, nel riferimento comune al reddito dominicale, un suo
coerente punto d’incontro.
10. – Gli argomenti che si sono finora prospettati, trovano,
tuttavia, la loro giustificazione, solo se riferiti alle enfiteusi ed
istituti equiparati, di antica costituzione: non per quelli di più
recente formazione.
La data dell’entrata in vigore del Libro della proprietà (28
ottobre 1941) segna, a giudizio della Corte, una importante
demarcazione. Da una parte, l’accadimento di imponenti fatti storici ed
economici ha inciso in profondità e progressivamente sui valori dei
beni talvolta anche per effetto di una modifica di destinazione e la
svalutazione della monete ne è stata, ad un tempo, causa ed effetto,
più o meno permanente. Dall’altra parte, i rapporti costituiti, in
tempi, luoghi e situazioni diversi, dopo la data suindicata, hanno
risentito della strutturazione, in parte nuova, che la legge civile ha
loro assegnato. Particolarmente, l’assegnazione di un diritto alla
revisione del canone “in relazione al valore attuale” (art. 962 del
Cod. civ.) ha segnato il passaggio da una concezione statica del
rapporto ad una concezione dinamica: ed i nuovi rapporti sono sorti –
ab initio – e si sono svolti, sotto la garanzia della possibile
operatività di quel diritto.
Il riferimento alla qualifica catastale del 1939 viene quindi ad
assumere, per i rapporti ora in esame, un aspetto inadeguato,
anacronistico, e tale da creare ingiuste sperequazioni, sia se
considerato in relazione a quei beni che abbiano avuto – medio tempore
– incrementi di valore, per cause obbiettive di trasformazione, anche
indipendenti dagli apporti dei concessionari ed, eventualmente, degli
stessi concedenti, sia, ed a maggior ragione, se considerato in
relazione a rapporti aventi per oggetto terreni che già, al momento
della concessione, si trovavano per qualità e quantità di colture ed
in genere, per i loro pregi intrinseci ed estrinseci, in condizione di
redditività ben diversa e maggiore di quella esistente nel lontano
anno 1939.
Il sistema della legge di procedere, per il calcolo, a ritroso nel
tempo, viene così a creare (e la relazione del Ministero
dell’agricoltura contribuisce coi suoi dati di confronto ad evidenziare
la situazione) quella dissociazione tra il momento dell’incidenza
indennizzabile sul diritto colpito e il momento cui va riferito il
calcolo del valore di quest’ultimo, che questa Corte, con sentenza n.
22 del 5 aprile 1965 riguardante la legge 18 aprile 1962, n. 167, e
già prima con la sentenza 22 dicembre 1959, n. 67, ha dichiarato
illegittima.
Nel caso in esame, la dissociazione è profonda ed incolmabile e
conseguentemente ne resta viziato, limitatamente ai rapporti temporali
in esame, il congegno della legge, sia per quanto riguarda la misura
dei canoni sia, correlativamente, per quanto riguarda i capitali
d’affranco, gli uni e gli altri resi suscettibili di scendere al di
sotto del livello di un’equa valutazione, dell’art. 42, terzo comma,
della Costituzione.
In questo senso, e dentro questi limiti, va dichiarata la
illegittimità costituzionale dell’art. 1.
11. – Nell’ordine delle norme, singolarmente sottoposte al
controllo di costituzionalità, si presenta la norma dell’art. 8 e,
correlativamente quella dell’art. 9, che concernono l’abrogazione del
divieto, stabilito dall’art. 972, ultimo comma, del Codice civile, di
ammettere l’affrancazione qualora intervenga una domanda giudiziale di
devoluzione per deterioramento del fondo o non adempimento dell’obbligo
di migliorarlo.
La Corte osserva anzitutto che la finalità abrogativa manifestata
dalle norme in esame rientra nell’ambito dei poteri del legislatore,
non sindacabili in questa sede per le ragioni di principio dianzi già
indicate.
Non si tratta di una immotivata e immotivabile direttiva, carente
in modo assoluto di razionalità: bensì si tratta di far entrare
nell’alveo del principio della prevalenza dell’affrancazione sulla
devoluzione (principio conclamato in termini accentuati anche nella
relazione ministeriale al Codice) ogni ipotesi di fatto, senza alcuna
eccezione. D’altra parte, l’eccezione di cui all’art. 972 del Codice
civile non era dallo stesso articolo condotta in ogni caso a rigorosa
conseguenzialità, dappoiché si era ritenuto sufficiente (art. 972,
ultima parte dell’ultimo comma) l’intervento di una sentenza soltanto
di primo grado che avesse ammesso, pur senza costituire giudicato, la
affrancazione, per impedire la domanda di devoluzione.
Trattasi, pertanto, di una eccezione marginale alla regola primaria
dell’affrancabilità, eccezione sovente (e la norma da ultimo ricordata
lo conferma) sollevata come tardivo rimedio ad uno stato di inerzia
precedente.
L’abrogazione operata con l’art. 8, non può dar luogo a rilievi di
incostituzionalità.
12. – Viene sollevata questione di costituzionalità dell’art. 15
della legge che, nel dare decorrenza retroattiva alla misura dei canoni
e delle altre prestazioni dell’annata agraria 1962-1963, ha fatto salvi
i casi in cui il relativo versamento sia stato già effettuato.
Si assume che con questa norma sia stata creata una disparità di
conseguenze tra i partecipi del rapporto, dando luogo ad una situazione
irreversibile, potenzialmente dannosa solo e proprio nei casi in cui
gli obblighi di versamento dei canoni siano stati puntualmente già
adempiuti.
La questione, che viene posta in relazione all’art. 3 della
Costituzione, non è fondata.
Per quanto riguarda gli effetti retroattivi, l’art. 25, secondo
comma, della Costituzione ne segna il divieto limitatamente alle norme
punitive: conseguentemente, questa Corte ha già escluso l’esistenza di
un principio generale di irretroattività delle leggi (sentenze 15
maggio 1957, n. 71, e 2 luglio 1957, n. 118).
Per quanto riguarda gli effetti dello ius superveniens sui rapporti
anteatti, va considerato che l’art. 15 non dà luogo ad una disparità
di trattamento da valutare secondo l’art. 3 della Costituzione. Ma si
uniforma al principio, riconosciuto largamente in tema di successione
di leggi, secondo cui la legge nuova non incide sui fatti esauriti, in
tutto o in parte, sotto il vigore di quella precedente: ciò anche per
favorire l’utilità sociale “della certezza dei rapporti preteriti”
posta in evidenza nell’ora citata sentenza 2 luglio 1957, n. 118.
13. – Va esaminata, da ultimo, la questione di costituzionalità
relativa all’art. 18 della legge, che dispone l’abrogazione dell’art.
962 del Codice civile sulla revisione dei canoni relativi ad enfiteusi
rustiche.
Si assume che, una volta pretermesso il motivo di questa norma,
diretta a conservare attraverso la fluttuazione dei valori, un
equilibrio tra ammontare dei canoni e valori del fondo, si darebbe
luogo a conseguenze antieconomiche, socialmente dannose, tali da
snaturare il rapporto e da incidere gravemente, in relazione all’art.
42, terzo comma, della Costituzione, sulla quantificazione dei diritti
di proprietà.
La questione non è fondata.
La disposizione dell’art. 962 ha costituito una innovazione non
solo e non tanto in relazione all’immediato precedente legislativo del
Codice del 1865, quanto in relazione alla secolare caratterizzazione
dell’istituto, data dalla inalterabilità del canone.
Con l’art. 962 si è ritenuto di apportare un correttivo (ne fa
fede la relazione ministeriale) ad una situazione che sembrava
conducente “a far cadere in desuetudine l’istituto”: correttivo,
tuttavia, poi non condiviso da autorevole corrente di giuristi ed
economisti, i quali, al contrario, hanno ritenuto che proprio
l’inalterabilità del canone costituiva il presidio per mantenere
l’originalità dell’istituto, specie a vantaggio dei lavoratori della
terra.
Ne consegue che l’abrogazione ora disposta dal legislatore con
l’effetto del ritorno alla tradizione, appartiene ad una valutazione
discrezionale dei motivi, che non può formare oggetto di sindacato da
parte di questa Corte.
14. – Poiché le enfiteusi urbane e quelle ad aedificandum sono,
come si è già detto, da considerarsi escluse dall’ambito della legge
in esame, l’abrogazione del diritto alla rivendibilità va qui
considerata in funzione della materia, propria ed esclusiva,
dell’enfiteusi sui fondi rustici.
Ogni altra questione che possa riguardare l’estensione ovvero la
non estensione dell’ambito dell’abrogazione ad altre ipotesi al di
fuori della normativa in esame, vengono ad incidere negativamente,
escludendolo, sul riconoscimento di una loro rilevanza in questo
giudizio.
15. – Lo stesso art. 18 della legge contiene l’abrogazione degli
art. da 142 a 149 delle disposizioni transitorie al Codice civile.
Per quanto riguarda la costituzionalità dell’abrogazione degli
artt. 142, 144, 147 e 149 riguardanti rapporti costituiti sulla le
leggi anteriori al Codice, ai fini della revisione, affrancazione e
devoluzione (e che solamente qui interessano in derivazione delle
ordinanze di rinvio) la questione stessa, prospettata di scorcio in
alcune ordinanze e difese, viene ad inserirsi direttamente nel quadro
dei motivi già esposti per le antiche enfiteusi con la conseguenza del
riconoscimento della loro legittimità costituzionale.
16. – In conclusione, la Corte perviene alla decisione di
illegittimità costituzionale, concentrandola nel solo punto in cui
l’art. 1 della legge in esame consente di estendere l’applicazione
delle relative norme anche alle enfiteusi e rapporti analoghi conclusi
successivamente al 28 ottobre 1941.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 22
luglio 1966, n. 607, contenente “norme in materia di enfiteusi e di
prestazioni fondiarie perpetue”, limitatamente alla parte in cui
comprende nella normativa anche i rapporti, che formano oggetto della
legge, conclusi successivamente alla data del 28 ottobre 1941.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, fl 13 marzo 1969.
ALDO SANDULLI – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI – NICOLA REALE.