Sentenza N. 371 del 1996
Corte Costituzionale
Data generale
02/11/1996
Data deposito/pubblicazione
02/11/1996
Data dell'udienza in cui è stato assunto
17/10/1996
Presidente: avv. Mauro FERRI;
Giudici: prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato
GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE;
comma, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse
il 13 marzo 1995 (n. 2 ordinanze) dal tribunale di Forlì e il 20
ottobre 1995 dalla Corte d’assise di Napoli, rispettivamente iscritte
ai nn. 715, 716 e 939 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale,
dell’anno 1995 e n. 3, prima serie speciale, dell’anno 1996;
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
Udito nella camera di consiglio del 26 giugno 1996 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte;
Forlì ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in
riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dell’art. 34 del
codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la
incompatibilità del giudice che, dopo avere pronunciato sentenza di
condanna per un reato necessariamente plurisoggettivo, sia poi
chiamato, a seguito di separazione dei processi, a giudicare per il
medesimo reato altro concorrente la cui partecipazione, essenziale
per la sussistenza del reato, sia stata incidentalmente esaminata e
ritenuta nel primo giudizio.
In entrambe le ordinanze, il giudice a quo, che aveva proceduto
alla separazione dei giudizi nei confronti degli imputati, sulla
responsabilità penale dei quali era stato successivamente chiamato a
pronunciarsi, e che ne aveva già esaminato la posizione nel giudizio
proseguito nei confronti dei coimputati, si mostra consapevole del
fatto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte e della Corte di
cassazione, la disciplina delle incompatibilità è circoscritta ai
casi di duplicità di giudizio di merito sullo stesso oggetto e che
l’identità di oggetto non si ravvisa nelle ipotesi di concorso di
persone nel reato, perché alla comunanza della imputazione fa
riscontro una pluralità di condotte singolarmente ascrivibili a
ciascuno dei concorrenti.
Lo stesso giudice a quo esclude che possa trovare applicazione la
disposizione dell’art. 36, lettera h), cod. proc. pen., dal momento
che “le gravi ragioni di convenienza” ivi individuate come causa di
astensione hanno natura personale e non si riferiscono a situazioni
processuali, le quali, al contrario, devono essere previste in modo
esaustivo nelle norme sulle incompatibilità, non potendosi, al fine
di salvaguardare il principio del giudice naturale, lasciare alla
discrezionalità del singolo magistrato la valutazione della propria
capacità professionale di non lasciarsi influenzare da giudizi già
espressi nell’esercizio delle sue funzioni.
Conseguentemente, poiché l’incompatibilità ravvisabile nel caso
di specie inerisce a profili processuali – consistenti nel fatto che
il giudice, dopo essersi pronunciato sulla sussistenza di
un’associazione per delinquere composta da tre persone e dopo avere
condannato due dei componenti della stessa, venga successivamente
chiamato a giudicare il terzo associato – e poiché, quindi, non può
trovare applicazione l’istituto dell’astensione, la omessa previsione
di una causa di incompatibilità violerebbe sia il principio di
parità di trattamento di situazioni simili, in assenza di
ragionevoli motivi che giustifichino la differenza di statuizioni,
sia il diritto di difesa.
2. – Con ordinanza emessa il 20 ottobre 1995, la Corte di assise di
Napoli, nel corso di un processo scaturito dalla separazione da altro
processo a carico di numerosi imputati di un delitto associativo, ha
sollevato una questione sostanzialmente identica. Nel giudizio a quo,
infatti, erano imputati soggetti la cui posizione, pur non ritenuta
essenziale per la sussistenza del reato contestato agli altri
coimputati, nei confronti dei quali il processo era proseguito, era
stata non di meno esaminata incidenter tantum nella sentenza che
aveva definito quel processo.
Il giudice remittente osserva innanzitutto che la questione è
sicuramente rilevante, in quanto nella giurisprudenza di legittimità
una situazione quale quella verificatasi a seguito della separazione
dei giudizi non viene considerata come una causa di incompatibilità,
e tuttavia appare evidente il pregiudizio che può derivare alle
posizioni della difesa, essendo ragionevolmente prevedibile che la
valutazione della medesima prova espressa nella precedente sentenza
non potrà subire modificazioni nel processo destinato a concludersi
successivamente.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo, pur
ricordando le precedenti decisioni di questa Corte che hanno escluso
la configurabilità di una causa di incompatibilità in ipotesi
analoghe, ritiene che, alla stregua della più recente giurisprudenza
costituzionale, si debba affermare la incompatibilità alla funzione
di giudizio per il giudice che abbia, non solo in uno stato anteriore
del procedimento ma anche in processi diversi, emesso una valutazione
nel merito della stessa materia processuale riguardante il medesimo
imputato, ancorché in una decisione non idonea a produrre nei
confronti di quest’ultimo gli effetti del giudicato. In particolare,
poi, con riferimento ai reati associativi e, in generale, ai reati
necessariamente plurisoggettivi, il giudice a quo rileva che il
riferimento all’autonomia delle singole posizioni non è sufficiente
ad escludere il condizionamento derivante dal precedente giudizio, in
quanto l’accertamento della sussistenza del fatto, in riferimento ad
alcuni soggetti originariamente coimputati, non può non includere
l’accertamento della partecipazione del concorrente o di altri
concorrenti.
L’art. 34, secondo comma, cod. proc. pen., pertanto, non
prevedendo, per tali ipotesi, cause di incompatibilità,
contrasterebbe, oltre che con gli artt. 3 e 24 della Costituzione,
anche con gli artt. 25 e 76 della Costituzione, in quanto
risulterebbe intaccato il principio del giudice naturale e resterebbe
alterato il criterio della terzietà del giudice di cui all’art. 2
della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81.
3. – È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio
dei Ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura dello Stato rileva che la questione prospettata dai
giudici a quibus è stata più volte sottoposta all’esame della Corte
di cassazione, la quale, in diverse occasioni, anche a proposito del
reato di associazione per delinquere, ha affermato che
l’incompatibilità deve essere circoscritta ai casi di duplicità del
giudizio di merito sullo stesso oggetto e, cioè, di valutazione non
formalistica ma contenutistica sulla medesima regiudicanda. In
particolare, poi, prosegue l’Avvocatura dello Stato, la Cassazione,
proprio traendo spunto da alcune precisazioni contenute nelle
sentenze di questa Corte n. 186 del 1992 e n. 439 del 1993, ha
affermato che l’identità dell’oggetto del giudizio non è
ravvisabile nell’ipotesi in cui il giudice si sia precedentemente
pronunciato nei confronti dei concorrenti nel medesimo reato ascritto
al giudicabile, e ciò in quanto alla comunanza dell’imputazione fa
riscontro necessariamente una pluralità di condotte, distintamente
imputabili a ciascuno dei concorrenti, le quali, ai fini del giudizio
di responsabilità, devono formare oggetto di autonome valutazioni
tanto sotto il profilo materiale che sotto il profilo psicologico.
l’art. 34, secondo comma, cod. proc. pen., della cui legittimità
costituzionale i giudici a quibus dubitano, in quanto non prevede la
incompatibilità del giudice del dibattimento a giudicare gli
imputati la cui posizione abbia già dovuto esaminare incidenter
tantum nella sentenza emessa, a seguito di separazione dei processi,
nei confronti di altri coimputati del medesimo reato.
In particolare, il tribunale di Forlì, con due ordinanze, solleva
questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma,
cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la incompatibilità
del giudice che, dopo aver pronunciato sentenza di condanna per un
reato necessariamente plurisoggettivo, sia chiamato a giudicare per
tale addebito altro concorrente, la cui partecipazione –
indispensabile per la sussistenza del reato – sia stata
incidentalmente esaminata e ritenuta nel primo giudizio.
Ad avviso del rimettente, l’omessa previsione di tale causa di
incompatibilità violerebbe l’art. 3 della Costituzione per il
trattamento pregiudizievole riservato all’imputato, il cui concorso
nel reato abbia formato oggetto di valutazione da parte del giudice
del dibattimento, in sede di giudizio nei confronti dei coimputati,
allorché quello stesso giudice sia poi chiamato, nel processo
separato, a giudicarlo su quello stesso fatto. Oltre al “principio di
parità di trattamento di situazioni simili”, ne risulterebbe
compromesso anche il diritto di difesa, con violazione dell’art. 24
della Costituzione
La Corte di assise di Napoli prospetta la medesima questione in
riferimento ad una ipotesi di reato associativo, nella quale, pur non
qualificando come essenziale per la sussistenza del reato contestato
il concorso di terzi, aveva tuttavia esaminato incidenter tantum la
posizione di questi ultimi in una sentenza emessa, a seguito di
separazione dei giudizi, nei confronti di altri soggetti
originariamente coimputati del medesimo reato. La disposizione
censurata, ad avviso del giudice a quo, contrasterebbe, oltre che con
gli artt. 3 e 24 della Costituzione, per motivazioni sostanzialmente
analoghe a quelle svolte dal tribunale di Forlì, anche con il
principio del giudice naturale sancito dall’art. 25 della
Costituzione e con l’art. 76 della Costituzione, perché sarebbe
alterato il criterio della terzietà del giudice, di cui all’art. 2
della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81.
Poiché le ordinanze di rimessione hanno ad oggetto la medesima
disposizione e pongono la medesima questione, i relativi giudizi
possono essere riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. – La questione è fondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della
Costituzione.
È acquisito alla giurisprudenza di questa Corte che l’istituto
della incompatibilità del giudice per atti compiuti nel procedimento
penale è preordinato alla garanzia di un giudizio imparziale, che
non sia né possa apparire condizionato da precedenti valutazioni
sulla responsabilità penale dell’imputato manifestate dallo stesso
giudice in altre fasi del medesimo processo (e quindi a maggior
ragione, in riferimento alla fattispecie in esame, in diverso
processo) e tali da poter pregiudicare la neutralità del suo
giudizio. Il principio del giusto processo, infatti, comporta che il
giudizio si formi in base al razionale apprezzamento delle prove
raccolte ed acquisite e non abbia a subire l’influenza di valutazioni
sul merito dell’imputazione già in precedenza espresse (v. da ultimo
sentenza n. 177 del 1996).
L’incidenza del principio del giusto processo nelle ipotesi di
concorso di persone nel reato è stata esaminata da questa Corte,
allorché ha affrontato la questione se il giudice che si sia
pronunciato in un precedente giudizio sulla responsabilità di alcuni
concorrenti, sia colpito da incompatibilità in relazione al processo
che venga successivamente celebrato nei confronti di altro o di altri
concorrenti. Tale questione è stata risolta negativamente sulla
base del rilievo che “alla comunanza dell’imputazione fa
necessariamente riscontro una pluralità di condotte distintamente
ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, le quali, ai fini del
giudizio di responsabilità, devono formare oggetto di autonome
valutazioni sotto il profilo tanto materiale che psicologico, e ben
possono, quindi, sfociare in un accertamento positivo per l’uno e
negativo per l’altro” (sentenze n. 186 del 1992 e n. 439 del 1993).
Questa massima di decisione deve essere mantenuta ferma, poiché
l’autonomia delle posizioni di ciascun concorrente consente, pur
nella naturalistica unitarietà della fattispecie di concorso, una
segmentazione di processi e la scomposizione del fatto in una
pluralità di condotte autonomamente valutabili in processi distinti,
senza che la decisione dell’uno debba influenzare quella dell’altro.
La fattispecie sottoposta all’esame di questa Corte, nella quale
uno dei giudici rimettenti prospetta la medesima questione, ma in
relazione alla peculiare ipotesi di reati a concorso necessario
(nella specie si tratta del reato di associazione per delinquere che
non può sussistere senza il concorso di almeno tre persone), offre
l’occasione per alcune doverose precisazioni. Nel caso in cui non
solo vi sia concorso nel medesimo reato ma la posizione di uno dei
concorrenti costituisca elemento essenziale per la stessa
configurabilità del reato contestato agli altri con correnti, ai
quali soltanto sia formalmente riferita l’imputazione per la quale si
procede, la valutazione della posizione del terzo, dalla quale non si
sia potuto prescindere ai fini dell’accertamento della
responsabilità degli imputati, costituisce sicuro ed evidente motivo
di incompatibilità nel successivo processo a carico di tale terzo.
La circostanza che, in assenza dell’interessato, la valutazione in
ordine alla sua responsabilità non possa sfociare, in quel processo,
in una decisione suscettibile di divenire definitiva, nulla toglie al
pregiudizio che si determina. Ciò che conta, ai fini dell’integrità
del principio del giusto processo, è che il giudice del nuovo
dibattimento non sia lo stesso che abbia preso parte al primo e che,
per il peculiare atteggiarsi della fattispecie di concorso, abbia
dovuto formarsi un convincimento non soltanto sul merito dell’azione
penale svolta contro gli imputati, ma anche, seppure incidentalmente,
sul merito della posizione del terzo. Poiché le pronunce dei giudici
dovrebbero riguardare solo i soggetti che nel processo assumono il
ruolo di parti, è da ritenere che non possa rimanere senza
conseguenza la valutazione che il giudice faccia circa la
responsabilità di un soggetto che non sia formalmente imputato;
altrimenti, ne risulterebbe leso il diritto fondamentale previsto
dall’art. 24 della Costituzione.
Una adeguata ponderazione delle garanzie della difesa porta ad
escludere che l’approdo di un processo penale possa essere la
valutazione, da parte del giudice, non solo della posizione degli
imputati, ma anche di quella di terzi che non abbiano avuto
l’opportunità di difendersi. E non a caso, l’art. 18 del codice di
procedura penale, nel consentire la separazione dei processi per una
serie di ipotesi evidentemente ordinate alla speditezza del processo,
fa salva la facoltà del giudice di ritenere, pur ricorrendo alcuna
di tali ipotesi, “assolutamente necessaria la riunione”. L’uso
corretto di tale facoltà dovrebbe indurre il giudice a considerare,
di regola, “assolutamente necessaria” la riunione innanzitutto nei
casi di reato a concorso necessario, tutte le volte in cui
l’identificazione di un concorrente e l’accertamento della sua
responsabilità costituiscano momenti imprescindibili per la
configurabilità del reato.
E tuttavia, se la facoltà di separare i processi o di non riunirli
sia stata esercitata, e si sia ritenuto necessario portare la
valutazione di merito anche sulla posizione di un terzo formalmente
estraneo al processo, il potere del giudice di pronunciarsi
nuovamente sulla responsabilità di quest’ultimo in un successivo
processo non può essere riconosciuto. Non può non risultare, in
simili casi, attuale e concreto “il rischio che la valutazione
conclusiva di responsabilità sia, o possa apparire, condizionata
dalla propensione del giudice a confermare una propria precedente
decisione”: situazione, questa, che incide “sulla garanzia di un
giudizio che sia il frutto genuino ed esclusivo degli elementi di
valutazione e di prova assunti nel processo e del dispiegarsi della
difesa delle parti” (sentenza n. 124 del 1992).
E l’incompatibilità, si deve aggiungere, sussiste non solo quando
nel primo giudizio la posizione del terzo sia stata valutata a
seguito di un puntuale ed esauriente esame delle prove raccolte a suo
carico, ma anche quando abbia formato oggetto di una delibazione di
merito superficiale e sommaria, apparendo anzi, in questa seconda
ipotesi, ancor più evidente e grave la situazione di pregiudizio
nella quale il giudice verrebbe a trovarsi.
3. – Se la possibilità che le posizioni dei singoli concorrenti
nel medesimo reato formino oggetto di altrettante valutazioni
autonome l’una dall’altra costituiva la ratio decidendi nelle
sopracitate sentenze, nelle quali si negò l’incompatibilità di uno
stesso giudice a conoscere, in successivi processi, della imputazione
contestata a titolo di concorso a più imputati, appare dunque chiaro
che tale ratio non può essere estesa a comprendere le ipotesi di
reato a concorso necessario, in cui il giudice si sia dovuto occupare
della posizione di un terzo, formalmente non imputato, e abbia dovuto
valutarla incidentalmente. In questi casi è il principio
costituzionale del giusto processo, che attinge alla pienezza del suo
valore solo se inteso nel suo significato sostanziale, ad impedire
che uno stesso giudice valuti più volte, in successivi processi, la
responsabilità penale di una persona in relazione al medesimo reato.
La capacità di qualificazione che quel principio possiede
trascende, a ben vedere, la particolare struttura dei reati a
concorso necessario e abbraccia in un medesimo giudizio di disvalore
tutte le ipotesi in cui, qualunque ne sia stato il motivo, il
giudice, nella sentenza che definisce il processo, abbia
incidentalmente espresso valutazioni di merito in ordine alla
responsabilità penale di un terzo non imputato in quel processo (a
prescindere dalla legittimità di tali valutazioni). La non
configurabilità del reato ascritto agli imputati a causa della
mancanza di un ulteriore reo non è, infatti, che l’antecedente
logico-giuridico, o, se si preferisce, la giustificazione della
concreta valutazione compiuta in quel processo della condotta di un
non imputato. Ma, ai fini delle garanzie costituzionali alle quali
la disciplina legale delle incompatibilità deve essere improntata,
viene in considerazione solo l’effettivo compimento di tale
valutazione, poiché è solo questo a determinare il pregiudizio.
Del resto, se costituisce causa di astensione del giudice il fatto
che egli abbia manifestato il proprio parere sull’oggetto del
procedimento, fuori dell’esercizio delle sue funzioni (art. 36, primo
comma, lettera c), codice procedura penale), a maggior ragione deve
ravvisarsi una causa di incompatibilità nel fatto che una
valutazione di responsabilità sia stata compiuta dal giudice nei
confronti di un soggetto che non era parte del procedimento.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 34, secondo comma, del codice di procedura penale, nella
parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei
confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso
a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri
soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in
ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque
valutata.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 1996.
Il Presidente: Ferri
Il redattore: Mezzanotte
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 2 novembre 1996.
Il direttore della cancelleria: Di Paola