Sentenza N. 371 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
20/11/1998
Data deposito/pubblicazione
20/11/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
11/11/1998
Presidente: prof. Giuliano VASSALLI;
Giudici: prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Guido NEPPI
MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
lettera a), del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543 (Disposizioni
urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti), convertito,
con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, che
sostituisce l’art. 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20,
promossi con ordinanze emesse il 29 novembre, il 27 novembre 1996 e
il 25 febbraio 1997 dalla Corte dei conti, Sezione prima centrale di
appello, il 15 maggio 1997 dalla Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale per la regione Liguria, ed il 26 settembre 1997 dalla
Corte dei conti, Sezione prima centrale di appello, rispettivamente
iscritte ai nn. 182, 185, 500 e 881 del registro ordinanze 1997 ed
al n. 211 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 16, 35 e 53, prima serie speciale,
dell’anno 1997 e n. 14, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visto l’atto di costituzione di Trani Roberto, nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 2 giugno 1998 il giudice relatore
Massimo Vari;
Uditi l’avvocato Vincenzo Colacino per Trani Roberto e l’Avvocato
dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente del Consiglio dei
Ministri.
rispettivamente, il 29 novembre 1996, il 27 novembre 1996 e il 25
febbraio 1997 (r.o. nn. 182, 185 e 500 del 1997), la Sezione prima
centrale di appello della Corte dei conti ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), del
d.-l. 23 ottobre 1996, n. 543, recante “Disposizioni urgenti in
materia di ordinamento della Corte dei conti”, denunciandone il
contrasto con gli artt. 3, 97 e 103, secondo comma, della
Costituzione, nella parte in cui “limita la responsabilità dei
soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti ai fatti
ed alle omissioni commessi con dolo o colpa grave”. Il predetto
articolo viene denunciato dalle prime due ordinanze nel testo
risultante dal d.-l. e, dalla terza, nella versione finale contenuta
nella legge di conversione 20 dicembre 1996, n. 639.
1.1. – Le ordinanze – ritenuta rilevante la questione, in quanto,
da un lato, nei casi esaminati dal giudice contabile sarebbe
configurabile l’ipotesi della “colpa normale” e, dall’altro, la
disciplina denunciata risulta applicabile anche ai giudizi in corso,
giusta l’art. 3, secondo comma, dello stesso d.-l. n. 543 del 1996 –
osservano, quanto alla non manifesta infondatezza, che già in
passato la Corte costituzionale si è occupata di norme che
limitavano la responsabilità amministrativa di amministratori e
dipendenti pubblici ai soli casi di dolo e di colpa grave,
dichiarandone la conformità ai principi costituzionali.
Peraltro, nelle varie pronunce, la Corte costituzionale
riconoscerebbe che la regola della comune responsabilità per colpa
lieve, vigente anche per i dipendenti pubblici, è, tuttavia,
suscettibile di deroga, da parte del legislatore, graduando e
determinando discrezionalmente i tipi e i limiti di responsabilità,
che, in relazione alle varie categorie di appartenenza o alle
particolari situazioni regolate, appaiano i più idonei a garantire
il buon andamento della pubblica amministrazione ed il controllo
contabile.
Invece, la disposizione censurata estenderebbe in maniera
indifferenziata a tutto l’universo dei pubblici dipendenti ed
amministratori la limitazione della responsabilità stessa ai soli
casi di dolo e colpa grave e, quindi, comporterebbe l’irragionevole
livellamento, verso un più intenso grado di colpa, di una
responsabilità che, nel requisito comune della colpa lieve, non solo
non risulterebbe di ostacolo – di regola – al sollecito ed efficiente
svolgimento dell’azione amministrativa, ma anzi rappresenterebbe
l’indispensabile presidio per il corretto esercizio delle funzioni
pubbliche.
In relazione ai profili esposti emergerebbe, dunque, il contrasto
della norma con l’art. 3 della Costituzione. Al tempo stesso il
carattere generale della disposta limitazione di responsabilità si
presterebbe a determinare situazioni di incuria nell’esercizio delle
pubbliche funzioni, con conseguente sottrazione alla giurisdizione
contabile di una serie di comportamenti lesivi di beni la cui tutela
la Costituzione affida alla detta giurisdizione. Ne conseguirebbe la
violazione anche degli artt. 97 e 103, secondo comma, della
Costituzione, che sanciscono principi volti a realizzare l’efficienza
e la regolarità della gestione finanziaria e patrimoniale degli enti
pubblici.
2. – Con ordinanza n. 881 del 1997, emessa il 15 maggio 1997, la
Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione Liguria, ha
sollevato anch’essa questione di legittimità costituzionale della
disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lettera a) del decreto-legge
23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, nella legge
20 dicembre 1996, n. 639, per contrasto con gli artt. 3, 97 e 103,
secondo comma, della Costituzione.
Il rimettente – ritenuta rilevante la questione per le stesse
ragioni di cui alle altre sopra menzionate ordinanze – osserva che il
principio della responsabilità per colpa lieve può subire deroghe
ad opera del legislatore, in relazione alle varie categorie di
dipendenti, o alle particolari situazioni regolate, avendo, comunque,
l’obiettivo della salvaguardia delle garanzie costituzionali del buon
andamento della p.a. e del controllo contabile.
Pertanto apparirebbe irragionevole il generalizzato livellamento
della responsabilità contabile al grado della colpa grave, specie
ove si consideri che, in contrasto con il principio dell’eguaglianza,
si vengono ad assoggettare ad identico regime comportamenti che il
legislatore ha sempre regolato diversamente, dando luogo alla
conseguente parificazione di situazioni niente affatto omogenee.
In tal guisa si determinerebbe, altresì, una sostanziale
sottrazione alla giurisdizione contabile di una serie di
comportamenti lesivi del patrimonio pubblico la cui tutela, ai sensi
dell’art. 103, secondo comma, della Costituzione, è affidata alla
Corte dei conti.
Inoltre, secondo le prospettazioni rappresentate dal Procuratore
regionale e richiamate integralmente dall’ordinanza di rimessione,
non andrebbe trascurato l’ulteriore effetto costituito dal fatto che
analoghe situazioni sarebbero assoggettate a regimi giuridici
diversi, a seconda del giudice che è chiamato a pronunciarsi (come
nel caso della costituzione della p.a. quale parte civile nel
giudizio penale per i danni conseguenti al reato colposo commesso dal
dipendente). La disposizione censurata risulterebbe, quindi, in
contrasto con il principio di eguaglianza previsto dall’art. 3 della
Costituzione, nonché con i principi del buon andamento della p.a. e
del controllo contabile, contemplati dagli artt. 97 e 103, secondo
comma, i quali sono legati entrambi dal comune fine di assicurare
l’efficienza e la regolarità della gestione finanziaria e
patrimoniale degli enti pubblici.
3. – La stessa disposizione sopra menzionata, nel testo di cui alla
legge di conversione 20 dicembre 1996, n. 639, risulta denunciata
anche dalla Sezione prima centrale di appello della Corte dei conti,
con ordinanza emessa il 26 settembre 1997 (r.o. n. 211 del 1998), in
riferimento agli artt. 3, 11, 24, 81, 97 e 103, secondo comma, della
Costituzione, relativamente alla responsabilità degli agenti
contabili e degli altri soggetti sottoposti alla giurisdizione della
Corte dei conti, in ragione di obblighi propriamente contabili. Il
giudice rimettente – nel rammentare i dubbi già sollevati dalla
stessa Sezione, nella precedente ordinanza del 25 febbraio 1997 (r.o.
n. 500 del 1997) – ravvisa, con riferimento alla responsabilità
contabile in senso proprio, ulteriori e più specifici profili di
illegittimità della norma denunciata, osservando che gli obblighi di
conservazione, restituzione o rendicontazione incombenti sugli
affidatari di beni pubblici sono preordinati a garantire il permanere
della consistenza patrimoniale dell’erario ai livelli cui la portano
i flussi di cassa e i movimenti di materie. Di qui la necessità che
gli equilibri alterati dalla condotta dei contabili vengano
immancabilmente e compiutamente ricostituiti, concretandosi la
responsabilità contabile in una inderogabile obbligazione
restitutoria (di secondo grado) del contabile inadempiente, la quale
(secondo il disposto dell’art. 194 del regio decreto n. 827 del
1924) permane anche nel caso di furto, forza maggiore o deperimento
dei beni, ove non sia provata la non imputabilità del danno a
negligenza, anche solo concorrente, del contabile stesso o ad un suo
indugio a richiedere per tempo i necessari provvedimenti
conservativi. L’ordinanza osserva che la introdotta limitazione di
responsabilità si appaleserebbe, dunque, irrazionale, atteso
l’evidente contrasto con le esigenze fondamentali dell’ordinamento
contabile e con i criteri di ragionevolezza ed equità della
legislazione insiti nell’art. 3 della Costituzione; infatti,
escludere la responsabilità contabile nei confronti dell’erario, nel
caso di “colpa normale”, equivarrebbe a rimuovere l’effetto
garantistico delle regole contabili, rendendo, altresì, incerta la
consistenza patrimoniale dello Stato e degli altri enti, ed anche
quella finanziaria, in virtù della connessione fra le due valenze
sancita dalle regole sui bilanci pubblici, di cui alla legge n. 468
del 1978 e successive modifiche. In termini di ingiustificata
disparità, censurabile ex art. 3 della Costituzione, la denunciata
limitazione di responsabilità ai soli casi di colpa grave finirebbe,
inoltre, per delineare – a favore dei contabili pubblici – un regime
meno rigoroso di quello previsto per le consimili figure
privatistiche dei tutori, curatori ed amministratori in genere, i
quali – per comune principio – rispondono secondo il criterio della
diligenza del buon padre di famiglia, che, di regola, non soffre il
limite della colpa grave.
Ciò apparirebbe tanto più irrazionale in quanto la limitazione di
responsabilità si estende anche ai soggetti con i quali la p.a.
instaura rapporti convenzionali per i servizi di riscossione,
tesoreria e di cassa (che danno luogo a rapporti di carattere
contabile), sicché anche detti soggetti sarebbero esonerati da
qualsiasi obbligazione restitutoria (oltre che eventualmente
risarcitoria), in presenza di danni derivanti da trascuratezze dei
dipendenti, che non si presentino “sconsiderate in modo accentuato”.
Rilevato, altresì, che la disposizione finirebbe per sfavorire
ingiustamente il creditore pubblico e il datore di lavoro pubblico
rispetto ai corrispondenti soggetti privati, l’ordinanza ritiene
violato anche l’art. 97 della Costituzione, non solo su un piano più
generale (già trattato nella richiamata ordinanza di rimessione n.
500 del 1997), ma, soprattutto, con specifico riguardo agli effetti
negativi che possono sortire dagli ampi margini di immunità
introdotti per gli errori compiuti; effetti che, in contrasto con i
tradizionali canoni di precisione e coerenza nelle operazioni
contabili e con la crescente domanda di professionalità del pubblico
impiego, espongono a grave rischio i pubblici averi. Secondo
l’ordinanza, data la stretta connessione esistente tra le gestioni
contabili dei vari settori in cui si articola la finanza pubblica ed
i conti generali della medesima, la disposizione contrasterebbe anche
con l’art. 81 della Costituzione: infatti la nuova disciplina, in
conseguenza del lassismo che da essa può sortire, avrebbe l’effetto
di non garantire la tempestività e la completezza dei dati
finanziari e patrimoniali generali, con conseguenze negative sul
piano delle leggi di bilancio e di riequilibrio della finanza
pubblica, nonché su quello della credibilità dei dati dimostrativi
del rispetto dei “parametri di Maastricht”, dando luogo, in tal
guisa, anche alla violazione dell’art. 11 della Costituzione, sotto
il profilo del mancato rispetto degli obblighi internazionali e delle
limitazioni derivanti da quel Trattato, oltre che da quello
precedente di Roma.
Infine, sminuendo all’origine il basilare obbligo di tempestiva
rendicontazione, la disposizione avrebbe riflessi negativi sulla
regolarità delle gestioni, e quindi sull’effettività del giudizio
di conto, disattendendo così sia l’art. 103, secondo comma, della
Costituzione – che attribuisce alla Corte dei conti la verifica della
regolarità delle gestioni contabili pubbliche attraverso
l’esperimento del giudizio di conto – sia l’art. 24, atteso che la
garanzia giurisdizionale della difesa dei diritti patrimoniali
dell’erario – in tal caso – si ridurrebbe ad una formula di stile,
inadeguata a dare certezza di giudicato ai dati contabili.
4. – In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei Ministri, rappresentato e difeso dell’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o,
comunque, infondate.
4.1. – Sotto il primo aspetto si rileva che, successivamente alla
pubblicazione delle ordinanze, il d.-l. 23 ottobre 1996, n. 453, in
cui è inserita la disposizione denunciata, è stato convertito nella
legge 20 dicembre 1996, n. 639, che, da un lato, reca una norma “più
complessa ed articolata” rispetto a quella censurata e, dall’altro,
apporta significative ulteriori modifiche ed integrazioni alle
restanti parti dell’art. 1 della legge n. 20 del 1994, oggetto
dell’intervento legislativo d’urgenza sopracitato.
4.2. – Nel merito la questione sarebbe, comunque, infondata.
La giurisprudenza costituzionale, richiamata anche dalle ordinanze
di rimessione, metterebbe in risalto come la diversa valutazione del
titolo della responsabilità di alcune categorie di dipendenti
pubblici non contrasta con l’art. 3 della Costituzione, in quanto
espressione dell’adeguamento dell’ordinamento a differenti realtà
lavorative ed organizzative. In particolare, nella sentenza n. 1032
del 1988, si sottolinea come non sia desumibile dall’ordinamento il
principio secondo il quale il pubblico dipendente è tenuto a
rispondere per qualsiasi grado di colpa.
Ricordato, inoltre, che il potere riduttivo affidato alla Corte dei
conti dimostra come il principio vigente sia quello di “graduabilità
in via generale dell’elemento psicologico”, l’Avvocatura osserva che
il legislatore, nella norma denunciata, ha conformato la
responsabilità dei dipendenti alle mutate realtà del pubblico
impiego; d’altra parte la limitazione della responsabilità ai casi
di dolo o colpa grave, più che ad una colpa valutata con minor
rigore, alluderebbe ad un restringimento generalizzato delle ipotesi
di responsabilità amministrativa ai soli casi definiti gravemente
colposi. Quanto, poi, agli altri prospettati profili di
illegittimità costituzionale, si rileva che gli artt. 97 e 103,
secondo comma, della Costituzione, lungi dal far configurare in capo
ai pubblici dipendenti un principio di inderogabilità delle comuni
regole della responsabilità civile, conducono, invece, ad affermare
la regola della responsabilità di quei dipendenti in conformità
alla specifica situazione.
Pertanto, fermo restando che le norme che regolano la
responsabilità dei pubblici dipendenti sono sindacabili solo in caso
di cattivo uso della discrezionalità da parte del legislatore, nel
caso di specie la nuova disciplina terrebbe conto del mutato assetto
dell’organizzazione della pubblica amministrazione, nascente dal
decreto legislativo n. 29 del 1993, che collega la valutazione del
personale ai risultati conseguiti.
Proprio in questa ottica dovrebbe essere letta la scelta di
richiedere la valutazione della responsabilità in concreto, sulla
base dei canoni di prevedibilità e prevenibilità, al fine di
accertare la reale attività che il soggetto ha posto in essere o ha
omesso; allo stesso modo si atteggerebbe la conseguente scelta di
imporre alla Corte dei conti la valutazione delle singole
responsabilità, ponendo a carico dei responsabili (esclusa l’ipotesi
del dolo) la sola porzione di danno addebitabile e, sintomaticamente,
l’obbligo di considerare i vantaggi comunque conseguiti dalla
pubblica amministrazione, o dalla comunità amministrata;
considerazione che esplicitamente viene sottratta all’ambito del c.d.
potere riduttivo della Corte dei conti.
Emergerebbe – quindi – un nuovo modello di responsabilità del
pubblico dipendente (diverso dal generale paradigma aquiliano), da
rapportare non più ad una formale valutazione di colpevolezza, ma ad
una misurazione del concreto pregiudizio.
5. – Nel giudizio di cui all’ordinanza r.o. n. 500 del 1997 si è
costituita anche la parte privata, per chiedere che la questione sia
dichiarata inammissibile e/o infondata, richiamando, all’uopo, la
consolidata giurisprudenza costituzionale secondo la quale rientra
nella discrezionalità del legislatore stabilire quali comportamenti
possano costituire titolo di responsabilità, nonché il grado di
colpa richiesto. Ad avviso della parte la generalizzata esclusione
della colpa lieve non apparirebbe irragionevole e tale da far
ritenere alterato il principio della par condicio di tutti gli
interessati di fronte alla legge.
riuniti e decisi con un’unica pronunzia, in ragione dell’identità o
connessione dell’oggetto, atteso che concernono la legittimità
costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera a), del d.-l. 23 ottobre
1996, n. 543, recante “Disposizioni urgenti in materia di ordinamento
della Corte dei conti”, convertito, con modificazioni, nella legge 20
dicembre 1996, n. 639, nella parte in cui, sostituendo l’art. 1,
comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, limita la
responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della
Corte dei conti, in materia di contabilità pubblica, ai fatti ed
omissioni posti in essere con dolo o colpa grave.
2. – I giudici rimettenti ritengono che la disposizione censurata
si ponga in contrasto con l’art. 3 della Costituzione:
per l’irragionevole livellamento della responsabilità,
conseguente all’estensione indifferenziata, a tutte le categorie di
dipendenti ed amministratori pubblici, della limitazione della
responsabilità stessa ai soli casi di dolo o colpa grave (r.o. nn.
182, 185, 500 e 881 del 1997);
per l’assoggettamento di situazioni analoghe a regimi giuridici
diversi, a seconda del giudice chiamato a pronunziarsi, come nel caso
di costituzione di parte civile della pubblica amministrazione nel
giudizio penale, per il reato colposo commesso dal dipendente (r.o.
n. 881 del 1997).
2.1. – In riferimento al predetto art. 3 della Costituzione, e con
specifico riguardo ai casi di responsabilità degli agenti contabili
e degli altri soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte in
virtù di obblighi propriamente contabili, l’ordinanza iscritta al
r.o. n. 211 del 1998 sviluppa ulteriori censure sotto il profilo:
della violazione dei principi di “ragionevolezza ed equità”,
atteso che l’esclusione della responsabilità contabile nel caso di
“colpa normale” equivale a rimuovere l’effetto garantistico delle
regole contabili ed a rendere, altresì, incerta la consistenza
patrimoniale e finanziaria dello Stato e degli enti pubblici;
dell’introduzione, in favore dei contabili pubblici, di un regime
meno rigoroso di quello previsto per le consimili figure
privatistiche; il che sarebbe tanto più irrazionale, ove si
consideri che tale regime si estende anche ai soggetti con i quali la
pubblica amministrazione instaura rapporti convenzionali, per i
servizi di riscossione, tesoreria e cassa;
del diseguale trattamento riservato al creditore pubblico e al
datore di lavoro pubblico rispetto ai corrispondenti soggetti
privati, per quel che concerne l’ampiezza della tutela dei rispettivi
interessi, nei riguardi degli agenti contabili e dei dipendenti
addetti ad adempimenti contabili.
3. – Comune ai diversi giudici rimettenti è, altresì, il dubbio
di illegittimità costituzionale della disposizione in questione, per
violazione dell’art. 97 della Costituzione, che le prime quattro
ordinanze (r.o. nn. 182, 185, 500 e 881 del 1997) pongono in
connessione con l’art. 103, secondo comma, denunciando gli effetti di
permissività ed incuria che la disposizione stessa può indurre
nell’esercizio delle pubbliche funzioni; e ciò in palese contrasto
con i principi costituzionali volti a realizzare l’efficienza e la
regolarità della gestione finanziaria e patrimoniale degli enti
pubblici. Viene sottolineata, altresì, la sostanziale sottrazione
alla giurisdizione contabile di una serie di comportamenti lesivi del
patrimonio pubblico la cui tutela, ai sensi del predetto art. 103,
secondo comma, della Costituzione, è affidata alla Corte dei conti
(r.o. n. 881 del 1997).
Analogamente l’ordinanza di cui al r.o. n. 211 del 1998,
nell’evocare i testé ricordati parametri, rileva:
quanto all’art. 97, gli effetti negativi derivanti dagli
introdotti ampi margini di immunità per gli errori compiuti,
restando così disattesi, tra l’altro, i canoni di precisione e di
coerenza nelle operazioni contabili, a fronte della crescente domanda
di professionalità e delle esigenze di salvaguardia della finanza
pubblica;
quanto all’art. 103, secondo comma, i riflessi negativi che la
disposizione censurata avrebbe sull’effettività del giudizio di
conto e, quindi, sulla verifica della regolarità delle gestioni
pubbliche, nonché sull’effettività della garanzia giurisdizionale
dei diritti patrimoniali dell’erario, assicurata dall’art. 24 della
Costituzione.
4. – Quest’ultima ordinanza, infine, prospetta la violazione
dell’art. 81 della Costituzione, giacché la nuova disciplina, data
la stretta connessione fra le varie gestioni in cui si articola la
finanza pubblica, potrebbe non garantire la tempestività e la
completezza dei dati finanziari e patrimoniali generali, con
implicazioni negative sul piano del riequilibrio della finanza
pubblica e dei dati dimostrativi del rispetto dei parametri di
Maastricht, sì da restarne inciso anche l’art. 11 della
Costituzione, sotto il profilo del mancato rispetto degli obblighi
internazionali e delle limitazioni derivanti da quel Trattato, oltre
che da quello precedente di Roma.
5. – In via preliminare va esaminata l’eccezione di
inammissibilità della questione, sollevata dall’Avvocatura generale
dello Stato negli atti di intervento depositati, in base al rilievo
che la legge di conversione sarebbe intervenuta successivamente alle
ordinanze di rimessione, recando, peraltro, una norma più complessa
ed articolata di quella dell’art. 3, comma 1, lettera a) del d.-l. n.
543 del 1996, portata all’esame della Corte.
Preso atto della precisazione effettuata nella difesa orale
dall’Avvocatura erariale, nel senso che la eccezione preliminare non
riguarda le ordinanze di cui al r.o. n. 500 e n. 881 del 1997 e n.
211 del 1998, le quali, emesse in epoca successiva all’entrata in
vigore della legge n. 639 del 1996, fanno in effetti riferimento alla
disposizione quale risulta dall’avvenuta conversione, la medesima
eccezione va respinta con riferimento alle restanti ordinanze (r.o.
n. 182 e n. 185 del 1997), che sono, invece, anteriori a detta
legge.
Invero, non è riscontrabile nella “norma” censurata una diversità
tale, rispetto a quella contenuta nella legge di conversione, da
ostare allo scrutinio di costituzionalità, alla luce
dell’orientamento secondo il quale è l’immutata persistenza della
norma stessa ad assicurare la perdurante ammissibilità del giudizio
innanzi a questa Corte, sotto il profilo dell’inalterata sussistenza
del suo oggetto (sentenza n. 84 del 1996). Pur considerando che la
legge n. 639 del 1996 reca integrazioni e modificazioni di non scarso
momento alla disposizione in cui è ricompresa la norma denunciata,
tuttavia le stesse non appaiono sufficienti a concretare la dedotta
diversità dell’oggetto dello scrutinio, poiché riguardano profili e
connotazioni dell’istituto della responsabilità amministrativa e
contabile, che non investono l’elemento soggettivo dell’illecito, in
ordine al quale la legge stessa si è limitata a riprodurre, in
maniera pressoché letterale, la formulazione dell’enunciato già
contenuto nel d.-l. n. 543 del 1996.
6. – Nel merito le questioni non sono fondate con riguardo ad
alcuno degli invocati parametri.
I rimettenti, nel richiamare le sentenze con le quali questa Corte,
in riferimento a molteplici settori della p.a., ha ritenuto non
incostituzionale la limitazione della responsabilità di
amministratori o dipendenti pubblici ai soli casi di dolo o colpa
grave (sentenze n. 1032 del 1988, n. 164 del 1982 e n. 54 del 1975),
ritengono che da tali precedenti, ancorché non sia possibile
desumere l’esistenza di un principio di inderogabilità delle comuni
regole in tema di elemento soggettivo della responsabilità, si
possa, tuttavia, ricavare quello secondo il quale la discrezionalità
del legislatore, per essere correttamente esercitata, deve
determinare e graduare i tipi e i limiti della responsabilità, caso
per caso, in riferimento alle diverse categorie di dipendenti
pubblici ovvero alle particolari situazioni, stabilendo, per ciascuna
di esse, le forme più idonee a garantire i principi del buon
andamento e del controllo contabile. Ne conseguirebbe la non
conformità ai principi dell’art. 3 della Costituzione di un
esercizio di detta discrezionalità intesa ad introdurre una
previsione limitativa in forma generalizzata ovvero con riferimento
indiscriminato a tutti i pubblici dipendenti.
La Corte è, invece, dell’avviso che i termini in cui le richiamate
decisioni enunciano il principio relativo alla discrezionalità di
cui gode il legislatore, nella conformazione delle fattispecie di
responsabilità, riflettano la singolarità dei casi di volta in
volta esaminati, ma non consentano di accreditare una lettura
riduttiva del principio stesso, nel senso che allo stesso legislatore
sia preclusa la facoltà di valutare anche l’ampiezza dell’esigenza
cui si ritiene di far fronte.
Non v’è, infatti, alcun motivo di dubitare che il legislatore sia
arbitro di stabilire non solo quali comportamenti possano costituire
titolo di responsabilità, ma anche quale grado di colpa sia
richiesto ed a quali soggetti la responsabilità sia ascrivibile
(sentenza n. 411 del 1988), senza limiti o condizionamenti che non
siano quelli della non irragionevolezza e non arbitrarietà.
In proposito occorre rilevare che la norma denunciata si colloca
nel quadro di una nuova conformazione della responsabilità
amministrativa e contabile, alla stregua di peculiari connotazioni di
cui dà dimostrazione, tra l’altro, il principio peraltro già
anticipato in parte dall’art. 58 della legge n. 142 del 1990
(Ordinamento delle autonomie locali) secondo il quale il debito per
il fatto dannoso non si trasmette agli eredi, salvo il caso
dell’illecito arricchimento del dante causa e, conseguentemente,
dell’indebito arricchimento anche degli stessi eredi.
A tale processo di nuova conformazione dell’istituto, sviluppato
con le ulteriori previsioni contenute nella legge di conversione, fa
riscontro la revisione dell’ordinamento del pubblico impiego,
attuata, in epoca di poco precedente, dal decreto legislativo n. 29
del 1993 (cui ha fatto seguito il decreto legislativo n. 80 del 1998)
attraverso la c.d. “privatizzazione”, in una prospettiva di maggiore
valorizzazione anche dei risultati dell’azione amministrativa, alla
luce di obiettivi di efficienza e di rigore di gestione.
Quali siano le finalità ispiratrici della contestata norma è dato
desumere, del resto, dagli stessi lavori parlamentari, che
evidenziano l’intento di predisporre, nei confronti degli
amministratori e dei dipendenti pubblici, un assetto normativo in cui
il timore delle responsabilità non esponga all’eventualità di
rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività
amministrativa.
Nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, che
connotano l’istituto qui in esame, la disposizione risponde, perciò,
alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba
restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente,
nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per
dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della
responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo. E ciò
secondo valutazioni che, ovviamente, non spetta alla Corte sindacare
dal punto di vista della convenienza ed opportunità, restando,
perciò, fuori dal presente giudizio ogni apprezzamento al quale,
sotto il profilo da ultimo accennato, potrebbe, in ipotesi, prestarsi
l’avvenuta generalizzazione del criterio della colpa grave; parimenti
sfuggono all’apprezzamento, che va espresso in questa sede, anche
altri profili, fra quelli segnalati da taluna delle ordinanze, che
possono evidenziare, tutt’al più, problemi di mera disarmonia ovvero
di non compiuto raccordo fra il nuovo regime introdotto ed altri
istituti vigenti nell’ordinamento.
Quanto testé osservato vale, ovviamente, sia per la
responsabilità amministrativa che per quella contabile, posto che,
quanto ad elementi costitutivi, quest’ultima, a prescindere dalla
specificità delle obbligazioni che incombono su coloro che hanno
maneggio di beni e valori di pubblica pertinenza, si modella come da
tempo chiarito dalla stessa giurisprudenza contabile sullo stesso
paradigma che caratterizza la c.d. responsabilità amministrativa.
Per le medesime ragioni va escluso, altresì, il contrasto della
disposizione all’esame con l’art. 97, primo comma, della
Costituzione, sotto l’aspetto del buon andamento nonché della
efficienza e regolarità delle gestioni pubbliche, atteso che, per i
motivi sopra esposti, la modifica introdotta dalla disposizione
censurata non appare né arbitraria né irragionevole.
7. – Priva di fondamento è anche la censura di violazione
dell’art. 103, secondo comma, della Costituzione; articolo che ha
soltanto la finalità di riservare alla Corte dei conti la
giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica, secondo ambiti
la cui concreta determinazione, peraltro, è rimessa alla
discrezionalità del legislatore, mentre la norma denunciata concerne
la disciplina sostanziale della responsabilità degli amministratori
e dei dipendenti pubblici.
8. – Ugualmente infondate sono le censure prospettate
(nell’ordinanza r.o. n. 211 del 1998) in riferimento, da un canto,
all’art. 24, e, dall’altro, all’art. 81 in connessione con l’art. 11
della Costituzione.
Quanto all’art. 24, è da rammentare, a tacer d’altro, il pacifico
orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo il quale la
garanzia apprestata da detto articolo opera attribuendo la tutela
processuale delle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui
queste risultano riconosciute dal legislatore; di modo che quella
garanzia trova confini nel contenuto del diritto al quale serve e si
modella sui concreti lineamenti che il diritto stesso riceve
dall’ordinamento.
8.1. – Infine, circa gli altri due parametri evocati, è
sufficiente rilevare che la disciplina censurata non presenta nesso
diretto né con l’adempimento di obblighi internazionali, cui ha
riguardo l’art. 11 della Costituzione, né con l’art. 81, il quale
attiene ai limiti al cui rispetto è vincolato il legislatore
ordinario nella sua politica finanziaria, ma non concerne le scelte
che il medesimo compie nel ben diverso ambito della disciplina della
responsabilità amministrativa (da ultimo, v. sentenza n. 327 del
1998).
LA CORTE COSTITUZIONALE
Riuniti i giudizi, dichiara:
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
3, comma 1, lettera a), del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 543
(Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei
conti), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97 e 103, secondo
comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione prima
centrale d’appello, con ordinanze (r.o. n. 182 e n. 185 del 1997)
emesse, rispettivamente, il 29 novembre ed il 27 novembre 1996;
non fondata la questione di legittimità costituzionale dello
stesso art. 3, comma 1, lettera a), del d.-l. 23 ottobre 1996, n.
543, convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n.
639, sollevata, in riferimento ai medesimi artt. 3, 97 e 103, secondo
comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione prima
centrale di appello e Sezione giurisdizionale per la Regione Liguria,
con ordinanze (r.o. n. 500 e n. 881 del 1997) emesse,
rispettivamente, il 25 febbraio 1997 ed il 15 maggio 1997;
non fondata la questione di legittimità costituzionale del
medesimo art. 3, comma 1, lettera a), del d.-l. 23 ottobre 1996, n.
543, convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n.
639, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 11, 24, 81, 97 e 103,
secondo comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione
prima centrale d’appello, con ordinanza (r.o. n. 211 del 1998) emessa
il 26 settembre 1997.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’11 novembre 1998.
Il Presidente: Vassalli
Il redattore: Vari
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 20 novembre 1998.
Il direttore della cancelleria: Di Paola