Sentenza N. 372 del 1998
Corte Costituzionale
Data generale
20/11/1998
Data deposito/pubblicazione
20/11/1998
Data dell'udienza in cui è stato assunto
11/11/1998
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, avv.
Fernanda CONTRI, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI;
comma, del d.-l. 28 febbraio 1986, n. 49 (Disposizioni urgenti in
materia di pubblico impiego), convertito, con modificazioni, in legge
18 aprile 1986, n. 120, promosso con ordinanza emessa il 28 giugno-25
luglio 1996 dalla Corte dei conti, sezione III giurisdizionale
centrale, sugli appelli riuniti proposti da Mudu Aldo contro il
Ministero del tesoro – Direzione generale degli Istituti di
previdenza ed altra, iscritta al n. 1361 del registro ordinanze 1996
e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima
serie speciale, dell’anno 1997.
Visti l’atto di costituzione di Mudu Aldo nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 13 ottobre 1998 il giudice relatore
Cesare Ruperto;
Udito l’avvocato Sante Assennato per Mudu Aldo e l’Avvocato dello
Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
dipendente dell’ente comunale di consumo di Cagliari, pensionato a
séguito dello scioglimento dell’ente medesimo, avverso la sentenza
della sezione giurisdizionale per la Regione Sardegna che aveva
confermato la disposta liquidazione del trattamento di quiescenza con
indennità integrativa speciale computata in quarantesimi in
proporzione dell’anzianità maturata – la Corte dei conti, sezione
terza giurisdizionale centrale, con ordinanza emessa il 28 giugno-25
luglio 1996, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 36 e 38
della Costituzione – questione di legittimità costituzionale
dell’art. 10, comma 1, del decreto-legge 28 febbraio 1986, n. 49
(Disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego), convertito,
con modificazioni, in legge 18 aprile 1986, n. 120, “nella parte in
cui detta norma non annovera, tra le cause
eccezionali di impossibilità lavorativa, la cessazione del rapporto
di pubblico impiego per soppressione dell’ente di appartenenza”.
Rilevato che la norma denunciata sancisce che le disposizioni
limitative del computo dell’indennità integrativa speciale (di cui
ai primi quattro commi dell’art. 10 del d.-l. 29 gennaio 1983, n. 17,
convertito, con modificazioni, nella legge 25 marzo 1983, n. 79)
trovano applicazione in tutti i casi di pensionamento anticipato, ad
eccezione delle ipotesi di cessazione dal servizio per morte o per
invalidità derivanti o meno da causa di servizio, purché tali da
impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro, osserva la Corte dei
conti rimettente che il fondamento di tale limitazione va rinvenuto
nell’esigenza di sanzionare tutte le ipotesi di pensionamento
anticipato riconducibili alla volontà del pubblico dipendente (come
affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 531 del 1988)
salvaguardando viceversa i soggetti colpiti da eventi collegati alla
impossibilità, non dipendente dalla loro volontà, di rendere
ulteriori prestazioni lavorative.
Secondo la rimettente, dunque, la denunciata norma si pone in
contrasto: a) con l’art. 3 Cost., stante l’irragionevole disparità
di trattamento nei confronti del pubblico dipendente licenziato per
soppressione dell’ente di appartenenza, dal momento che anche questi
viene a trovarsi contro il suo volere (e quindi al pari
dell’invalido) nell’impossibilità di continuare a svolgere la
propria attività lavorativa; b) con gli artt. 36 e 38 Cost., perché
la sua applicazione non garantisce una pensione in ogni caso
sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa al
dipendente che nella sola pensione trovi i mezzi di sostentamento.
2. – Si è costituita la parte privata del giudizio a quo, la
quale, facendo proprie le argomentazioni svolte nell’ordinanza di
rimessione, ha concluso per la declaratoria di incostituzionalità
della denunciata norma.
Secondo la parte – che presentò domanda di pensionamento in
conseguenza della cessazione dell’ente di appartenenza –
correttamente il rimettente ha prospettato l’equiparazione con i casi
di morte od invalidità, in cui il pensionamento anticipato non è
riconducibile alla volontà del dipendente. Rileva infatti la parte,
in una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, come la
ragionevolezza dell’esclusione dell’applicazione della norma
riduttiva dell’indennità integrativa speciale debba ritenersi
correlata al carattere “volontario” del pensionamento anticipato.
3. – È intervenuto, altresì, il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, concludendo: a) con riferimento alla dedotta lesione del
principio di uguaglianza, per l’infondatezza della sollevata
questione, poiché – nel caso di morte o di invalidità – la
cessazione dal servizio deriva da una circostanza che, non solo
prescinde dalla volontà del dipendente, ma impedisce in radice la
prosecuzione di qualsiasi attività lavorativa, potendo viceversa il
dipendente licenziato per soppressione dell’ente continuare a
svolgere tale attività; b) quanto alla violazione degli artt. 36 e
38 Cost., per l’inammissibilità della questione, non essendo stata
motivata in concreto la rilevanza della medesima, prospettabile solo
nel caso in cui la pensione del ricorrente fosse talmente bassa da
non assicurare un’esistenza libera e dignitosa.
In una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza l’Avvocatura
rileva poi: a) che le disposizioni a carattere limitativo concernenti
il calcolo in quarantesimi dell’indennità integrativa speciale
perseguono la finalità di incidere sull’andamento della spesa
previdenziale mediante misure dissuasive del pensionamento
anticipato: b) che le eccezioni contenute nella denunciata norma,
essendo questa derogatoria rispetto alla disposizione generale, hanno
carattere speciale e sono da considerarsi espressamente riferite alle
ipotesi ivi previste; c) che l’individuazione di specifiche eccezioni
rientra nella discrezionalità riservata al legislatore in ordine
alla determinazione della misura dei trattamenti di quiescenza.
dell’art. 10, comma 1, del d.-l. 28 febbraio 1986, n. 49, convertito,
con modificazioni, nella legge 18 aprile 1986, n. 120 (Disposizioni
urgenti in materia di pubblico impiego), nella parte in cui – tra le
ipotesi di non operatività delle disposizioni limitative del computo
dell’indennità integrativa speciale nella liquidazione del
trattamento di quiescenza in caso di pensionamento anticipato – non
annovera, come causa eccezionale di impossibilità lavorativa, oltre
alla morte del dipendente o alla sua invalidità, anche la
soppressione dell’ente di appartenenza.
Secondo la rimettente, la norma censurata si pone in contrasto: a)
con l’art. 3 Cost., stante l’irragionevole disparità di trattamento
in danno del pubblico dipendente licenziato (ovvero che abbia
presentato domanda di pensionamento) per soppressione dell’ente di
appartenenza, dal momento che anche questi viene a trovarsi contro il
suo volere (e quindi al pari dell’invalido) nell’impossibilità di
continuare a svolgere la propria attività lavorativa; b) con gli
artt. 36 e 38 Cost., poiché il computo dell’indennità integrativa
speciale in quarantesimi non garantisce una pensione sufficiente in
ogni caso ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa al dipendente
che nella sola pensione trovi i mezzi di sostentamento.
2. – La questione non è fondata.
2.1. – La norma oggetto del presente giudizio si inserisce nel
graduale processo legislativo finalizzato alla disincentivazione dei
pensionamenti anticipati, allargando la sfera applicativa della
determinazione della misura dell’indennità integrativa speciale “in
ragione di un quarantesimo per ogni anno di servizio, utile ai fini
del trattamento di quiescenza, dell’importo dell’indennità stessa
spettante al personale collocato in pensione con la massima
anzianità di servizio”.
Proprio in attuazione di codesto disegno legislativo – che trova il
suo immediato antecedente nell’art. 10, primo comma, del d.-l. 29
gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, nella legge 25
marzo 1983, n. 79, in cui la penalizzazione era chiaramente da
ricondurre alla volontarietà della cessazione dal servizio
(facendosi riferimento alla sola “domanda di pensionamento”) – la
denunciata norma, nell’estendere la limitazione “a tutti i casi di
pensionamento anticipato”, esclude in via di “eccezione” i soli “casi
di cessazione dal servizio per morte o per invalidità, derivanti o
meno da causa di servizio, purché tali da impedire la prosecuzione
del rapporto di lavoro” (cfr. sentenza n. 433 del 1994).
Il legislatore, avvalendosi della sua ampia discrezionalità in
materia di determinazione delle prestazioni previdenziali (cfr.
sentenza n. 417 del 1996), nel rimodulare la normativa sulla sfera di
applicabilità delle summenzionate limitazioni, ha così inteso
sostituire alla volontarietà della cessazione dal servizio il
diverso criterio dell’impedimento (oggettivo) alla prosecuzione
dell’attività lavorativa causato da morte o da grave invalidità. E
dunque non pertinente è il richiamo, fatto dal giudice a quo alla
sentenza n. 531 del 1988, nella cui motivazione questa Corte, allora
investita dello scrutinio di costituzionalità dell’art. 10, primo
comma, del d.-l. n. 17 del 1983, convertito, con modificazioni, nella
legge n. 79 del 1983, aveva affermato la non applicabilità di tale
norma – ormai come sopra superata – “nei casi di cessazione dal
servizio per ragioni indipendenti dalla volontà del pubblico
dipendente”.
2.2. – Il rilevato superamento della precedente prospettiva
incentrata sul requisito della volontarietà della cessazione dal
servizio rende non comparabile, con le due ipotesi limitative
previste dalla nuova norma (riconducibili ad eventi obbligatoriamente
protetti nel regime dell’assicurazione generale) la situazione del
dipendente licenziato o che abbia presentato domanda di pensionamento
a causa della sopravvenuta circostanza di fatto della soppressione
dell’ente di appartenenza. E dunque l’addotto tertium comparationis
deve ritenersi inidoneo a fondare la denunciata violazione del
principio di uguaglianza, essendo indubbio che l’unico tratto in
comune fra le situazioni messe a confronto dal giudice a quo potrebbe
essere ravvisato – come si desume dalla stessa ordinanza di
rimessione – appunto nella non volontarietà della cessazione dal
servizio del dipendente.
2.3. – Per escludere, poi, anche la lesione degli artt. 36 e 38
della Costituzione – prospettata dal giudice a quo in modo del tutto
assertivo, oltre che accessoriamente rispetto a quella, come sopra
esclusa, dell’art. 3 – è sufficiente far richiamo alla costante
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui appartiene alla
discrezionalità legislativa, col solo limite della palese
irrazionalità, stabilire i modi e la misura dei trattamenti di
quiescenza, nonché le variazioni dell’ammontare delle prestazioni,
attraverso un bilanciamento fra valori contrapposti che contemperi le
esigenze di vita dei beneficiari con le concrete disponibilità
finanziarie e le esigenze di bilancio (v., ex plurimis la sentenza n.
390 del 1995 nonché la stessa sentenza n. 531 del 1988 richiamata
nell’ordinanza di rimessione).
E non si vede in che senso possa considerarsi travalicato detto
limite dalla denunciata norma, la quale ha, piuttosto, cercato di
razionalizzare il sistema introducendovi un ulteriore elemento,
inteso ad impedire le distorte conseguenze applicative della
precedente disciplina a favore di quei soggetti che, invece di
presentare le dimissioni, ricorrevano ad altri mezzi per far cessare
autoritativamente il loro rapporto di impiego, così venendo a
beneficiare dell’intero trattamento pensionistico (cfr. lavori
parlamentari relativi alla conversione in legge del d.-l. n. 49 del
1986, ed in particolare quelli della seduta del Senato del 17 aprile
1986).
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 10, comma 1, del d.-l. 28 febbraio 1986, n. 49
(Disposizioni urgenti in materia di pubblico impiego), convertito,
con modificazioni, nella legge 18 aprile 1986, n. 120, sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, dalla Corte dei
conti, sezione III giurisdizionale centrale, con l’ordinanza indicata
in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l’11 novembre 1998.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Ruperto
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 20 novembre 1998.
Il direttore della cancelleria: Di Paola