Sentenza N. 375 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
05/12/1997
Data deposito/pubblicazione
05/12/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
26/11/1997
Presidente: prof. Giuliano VASSALLI;
Giudici: prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof.
Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott.
Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,
prof. Carlo MEZZANOTTE, avv. Fernanda CONTRI, prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
preliminari presso il Tribunale di Roma, notificato il 19 luglio 1997
e depositato in cancelleria in pari data, per conflitto di
attribuzione fra poteri dello Stato sorto a seguito della nota n.
4473/S dell’8 maggio 1997, con la quale il Presidente del Senato
della Repubblica ha comunicato che l’Assemblea, nella seduta del 7
maggio 1997, ha deliberato che quanto affermato dal senatore Erminio
Boso nei confronti di Giampiero Cioffredi si configura quale opinione
espressa da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue
funzioni e ricade, pertanto, nella previsione dell’art. 68, primo
comma, della Costituzione; ricorso iscritto al n. 40 del registro
conflitti 1997;
Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica e l’atto
con il quale Giampiero Cioffredi chiede di intervenire in giudizio;
Udito nell’udienza pubblica del 30 settembre 1997 il giudice
relatore Francesco Guizzi;
Uditi l’avvocato Mario Salerni per Cioffredi Giampiero e l’avvocato
Paolo Barile per il Senato della Repubblica.
di Roma ha promosso conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato
con riferimento alla delibera con cui il Senato, il 7 maggio 1997, ha
qualificato come opinione espressa da un membro del Parlamento
nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo
comma, della Costituzione, il fatto attribuito al senatore Erminio
Boso, secondo quanto comunicato dal Presidente del Senato con nota n.
4473/S dell’8 maggio 1997.
Il senatore Boso aveva rilasciato nella sala stampa del Senato una
dichiarazione, diffusa dall’agenzia AGI il 15 gennaio 1996, e ripresa
dal quotidiano “La Nazione” il giorno successivo, nella quale erano
contenuti giudizi assai critici sulla persona e l’opera del signor
Giampiero Cioffredi, coordinatore nazionale di “Arci solidarietà”.
Il parlamentare affermava che “promettendo l’Eldorado alla gente del
terzo mondo” si finirebbe per “derubare i lavoratori italiani”; in
tale valutazione negativa il senatore accomunava, con espressioni
molto forti, “la Caritas, i comunisti ed i sindacati”, aggiungendo
che per regolarizzare un extracomunitario occorrono “dai quattrocento
ai seicento milioni” e che “questi negrieri si vogliono spartire
tremila miliardi dei contribuenti, fuori bilancio, messi nelle mani
della Caritas”. Il signor Cioffredi presentava quindi
denuncia-querela nei confronti del senatore Boso per il reato di cui
agli artt. 595 del codice penale e 13 della legge 8 febbraio 1948, n.
47. Con ordinanza del 27 novembre 1996 è stata trasmessa copia degli
atti al Senato della Repubblica circa l’applicabilità dell’art. 68,
primo comma, della Costituzione, stante il disposto dell’art. 2,
comma 4, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 555, all’epoca vigente; sul
punto, l’Assemblea del Senato ha affermato l’insindacabilità.
1.2. – Il giudice per le indagini preliminari ha quindi promosso
conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, richiamando la
giurisprudenza costituzionale che ha sì riconosciuto alla Camera il
potere di valutare la condotta addebitata al suo componente, ma ha
affermato il controllo della Corte sul suo corretto esercizio
(sentenze nn. 1150 del 1988, 443 del 1993, 129 del 1996).
La condotta del parlamentare, per essere assistita dalla
prerogativa dell’irresponsabilità, deve esprimersi attraverso
opinioni correlate alla funzione; fuori da tale ambito, l’unica
garanzia invocabile è quella della libera manifestazione del
pensiero, che l’art. 21 della Costituzione assicura a tutti. Non è
il maggiore o minore tasso di “politicità” a ricondurre l’opinione
alla funzione, ma la strumentalità rispetto all’ufficio ricoperto;
l’equilibrio fra l’autonomia parlamentare e il principio di
legalità-giurisdizione richiede che il sacrificio dell’onore della
persona offesa sia indispensabile a soddisfare il valore antagonista:
il libero svolgimento dell’attività parlamentare. Tale bilanciamento
postula non soltanto l’essenzialità della condotta ai fini
dell’esercizio della funzione, ma quella “contenutezza e misura” che
renda minima l’offesa del bene sacrificato.
Secondo il ricorrente, la delibera del Senato che afferma
l’insindacabilità non sarebbe giustificata; la Giunta competente,
d’altra parte, aveva escluso la sussistenza della prerogativa, e
l’Assemblea andava in diverso avviso per considerazioni che
risulterebbero sfuggenti.
2. – Il conflitto è stato dichiarato ammissibile, ai sensi
dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, con l’ordinanza n.
251 del 1997.
3. – Si è costituito in giudizio il Senato della Repubblica,
ricordando come nel procedimento apertosi in seguito alla querela
avanzata dal signor Giampiero Cioffredi, ai sensi dell’art. 595 del
codice penale, il pubblico ministero avesse richiesto
l’archiviazione, reputando le valutazioni formulate dal senatore Boso
“strettamente coniugabili con l’attività conoscitiva ed
interpretativa della funzione parlamentare”. Il giudice per le
indagini preliminari non ha accolto tale richiesta e ha quindi
promosso il presente conflitto, che ad avviso del Senato è
inammissibile, e in subordine infondato, dal momento che la
dichiarazione di insindacabilità è stata effettuata dopo
approfondito dibattito, sia con riguardo all’elaborazione dei criteri
sulla base dei quali va interpretato l’art. 68, primo comma, della
Costituzione, sia con riferimento specifico alle modalità e al
contenuto delle affermazioni del senatore Boso, nella sala stampa del
Senato, mentre era in corso la discussione sul decreto-legge in tema
di immigrazione: il che attesta il collegamento delle espressioni,
riferite a una persona estranea alle Camere, con la funzione
parlamentare. E non è comunque ammissibile la contestazione della
valutazione dell’Assemblea, ponderata e corretta sul piano del
procedimento, perché essa si risolverebbe nel sindacato
sull’interpretazione data dall’organo parlamentare all’art. 68, primo
comma, della Costituzione.
In una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, il Senato ha
insistito sui limiti del controllo operato dalla Corte costituzionale
quale giudice dei conflitti di attribuzione: richiamando la sentenza
n. 265 del 1997, ricorda che la Corte non può rivedere – “quasi come
un giudice dell’impugnazione” – le sentenze che abbiano fatto erronea
applicazione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, e le
deliberazioni della Camera che affermano l’insindacabilità. I vizi
che possono essere dedotti innanzi alla Corte sono, infatti, soltanto
quelli procedimentali o che derivano dalla omessa o erronea
valutazione dei presupposti richiesti per il valido esercizio del
potere. Il giudizio sul conflitto di attribuzione non può dunque
trasformarsi nella revisione, in chiave di legittimità
costituzionale, di atti degli organi costituzionali e dei soggetti
legittimati al conflitto.
Nel merito, il Senato ha affermato la piena correttezza dell’iter
procedurale seguito: in assemblea si è discusso sull’interpretazione
del principio introdotto dall’art. 68, primo comma, e la disparità
di vedute che è emersa ha portato a un voto meditato, che oggi si
vuole contestare. Nella memoria si rileva, inoltre, che le
espressioni usate dal senatore Boso sono dirette non tanto al
singolo, bensì alle associazioni alle quali appartiene il Cioffredi.
Le sue parole contengono un giudizio su un gruppo politicamente
attivo, con riguardo alla elaborazione della nuova disciplina in tema
di immigrazione, e l’Assemblea ha valutato il collegamento fra le
dichiarazioni e il dibattito parlamentare.
Il comportamento del senatore – conclude la memoria del Senato –
rientrava d’altronde fra quelli soggetti alla potestà disciplinare
del Presidente del Senato, di cui all’art. 64 (recte: 67), comma 4,
del regolamento; e ciò è ulteriore indizio di ragionevolezza della
valutazione operata dall’organo parlamentare.
4. – È pervenuta alla Corte richiesta del signor Giampiero
Cioffredi per costituirsi in giudizio, motivata dal suo interesse
all’esito della vicenda processuale del conflitto di attribuzione.
Nell’udienza pubblica del 30 settembre 1997 la difesa di Cioffredi ha
illustrato le ragioni a sostegno, tali da consentire almeno
l’intervento.
ha promosso conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato con
riferimento alla delibera del 7 maggio 1997 con la quale l’Assemblea
del Senato, disattendendo la proposta della Giunta delle elezioni e
delle immunità, ha qualificato come opinione espressa da un membro
del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art.
68, primo comma, della Costituzione, il fatto attribuito a Erminio
Boso, senatore nella XII legislatura.
Contestando la fondatezza del ricorso, si è costituito in giudizio
il Senato, osservando come il contesto in cui sono state pronunciate
le parole in esame permetta di ricondurle all’esercizio delle
funzioni parlamentari.
2. – Va dichiarata, in primo luogo, l’inammissibilità della
richiesta avanzata dal signor Giampiero Cioffredi – parte offesa nel
procedimento penale menzionato – di costituirsi in giudizio o di
poter spiegare intervento. Questa Corte ribadisce, in proposito,
l’orientamento già manifestato con la sentenza n. 419 del 1995,
spettando la legittimazione, allo stato della disciplina vigente,
soltanto ai soggetti dai quali e nei cui confronti è sollevato il
conflitto.
3. – Passando al merito, occorre ricordare quanto già è stato
chiarito sull’ambito del giudizio, allorché il conflitto fra poteri
verta su una delibera parlamentare affermativa dell’insindacabilità,
ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.
La Corte non è giudice dell’impugnazione: lo ha precisato la
sentenza n. 265 del 1997; ma già in precedenza le sentenze n. 1150
del 1988 e n. 443 del 1993 ne avevano circoscritto il vaglio,
qualificandolo come controllo sulla “non arbitrarietà della delibera
parlamentare” (sentenza n. 1150 del 1988) e, dunque, come “verifica
esterna” (sentenza n. 443 del 1993). A significare che la Corte non
può rivalutare la ponderazione compiuta dalle Camere, ma soltanto
accertare se vi sia stato un uso distorto, arbitrario, del potere
parlamentare, tale da vulnerare le attribuzioni degli organi della
giurisdizione o da interferire sul loro esercizio.
Questa verifica ha per oggetto la regolarità dell’iter procedurale
e, nei limiti sopra indicati, la sussistenza dei presupposti
richiesti dal primo comma dell’art. 68, e cioè la riferibilità
dell’atto alle funzioni parlamentari: è il nesso funzionale,
infatti, il discrimine fra quell’insieme di dichiarazioni, giudizi e
critiche – che ricorrono così di frequente nell’attività politica
di deputati e senatori – e le opinioni che godono della particolare
garanzia introdotta dall’art. 68, primo comma, della Costituzione.
Nel sistema delineato dalla norma costituzionale, spetta alle Camere
valutare la sussistenza delle condizioni dell’insindacabilità
(sentenza n. 443 del 1993, Considerato in diritto n. 4). E va
altresì ricordato che la prerogativa riconosciuta ai membri del
Parlamento è, sul piano del diritto sostanziale, una causa che
esonera dalla responsabilità l’autore delle dichiarazioni
contestate; e sul piano processuale vi è l’obbligo per l’autorità
giudiziaria di prendere atto della deliberazione parlamentare, fatta
salva la possibilità di provocare il controllo della Corte
costituzionale sulla “correttezza” di essa (v. le sentenze nn. 265
del 1997 e 129 del 1996).
4. – Esperendo il relativo controllo, questa Corte deve tener conto
che la funzione parlamentare ha natura generale ed è libera nel
fine; ciò che la differenzia da altre funzioni costituzionalmente
tutelate, ma “specializzate”, con conseguenze significative in ordine
alle garanzie accordate per le opinioni espresse e i voti dati (v.
la sentenza n. 148 del 1983, Considerato in diritto n. 4).
La funzione parlamentare ha quindi una dimensione peculiare nel
sistema. Se essa non si risolve negli atti tipici, e ricomprende
quelli presupposti e conseguenziali, non si può però ricondurvi
l’intera attività politica svolta dal deputato o dal senatore: tale
interpretazione finirebbe, invero, per vanificare il nesso funzionale
posto dall’art. 68, primo comma, e comporterebbe il rischio di
trasformare la prerogativa in un privilegio personale.
5. – Spetta alle Camere, sulla base di questi essenziali
riferimenti, il compito di applicare la prerogativa, senza essere
condizionate dagli orientamenti della giurisprudenza ordinaria
(sentenza n. 443 del 1993; ma v. anche la sentenza n. 265 del 1997,
Considerato in diritto n. 4, ove si ricorda che l’esercizio, in
concreto, della potestà da parte della Camera inibisce l’inizio o la
prosecuzione di qualsiasi giudizio di responsabilità, penale o
civile per il risarcimento dei danni).
Nel corso delle varie legislature si è registrata una certa
oscillazione nell’interpretazione della norma costituzionale, e da
ultimo sembra prevalere una prassi di tipo estensivo, quasi a
compensare l’avvenuta soppressione dell’autorizzazione a procedere,
di cui alla legge costituzionale n. 3 del 1993, soprattutto per
quanto attiene al reato di diffamazione, per il quale poteva, in
precedenza, accadere che si facesse ricorso al diniego
dell’autorizzazione a procedere. Ma la Corte, in questa sede, non è
chiamata a giudicare sul merito della scelta parlamentare: essa deve
accertare se vi sia stato corretto esercizio del potere parlamentare,
o se la valutazione dei presupposti per la sua applicazione risulti
inconciliabile con la previsione costituzionale, determinando
invasione o interferenza con le attribuzioni giudiziarie (sentenze
nn. 265 del 1997, 129 del 1996, 1150 del 1988).
6. – Si può ora definire il conflitto promosso dal giudice per le
indagini preliminari presso il tribunale di Roma.
Il dibattito, prima in Giunta e poi in Assemblea, si è concluso
con la deliberazione di insindacabilità: le valutazioni contenute
nella relazione della Giunta sono state ampiamente ponderate nel
corso della discussione e quindi superate, in Assemblea, dalla
considerazione che le dichiarazioni erano state rese mentre si
procedeva alla conversione del decreto-legge sugli immigrati
extracomunitari (il n. 489 del 1995, poi decaduto).
È vero che dette espressioni non possono ritenersi, sul piano
strettamente formale, riproduttive degli interventi del senatore Boso
in commissione affari costituzionali, ove si esaminavano numerosi
emendamenti, fra i quali ve ne erano molti presentati dallo stesso
Boso e da altri senatori del Gruppo della Lega Nord. Tuttavia non è
arbitraria la valutazione effettuata dall’organo parlamentare: il
Senato, investito della questione nella legislatura successiva a
quella in cui si erano svolti i fatti, ha qualificato le
dichiarazioni come “divulgative di una scelta politica”, che si è
tradotta in puntuali atti funzionali (v. gli emendamenti testé
menzionati e il disegno di legge sulla “regolamentazione
dell’ingresso e della permanenza degli extracomunitari nel territorio
dello Stato”, di iniziativa dei senatori Bedoni, Boso e altri, XII
legislatura, n. 1780, assegnato alla prima commissione
congiuntamente al disegno di legge di conversione del citato
decreto-legge n. 489 del 1995).
Con riguardo alla ponderazione compiuta dal Senato, che ha
accentuato il rilievo politico-istituzionale di tale esternazione, va
sottolineato che su questi temi il confronto politico era talmente
aspro, nel gennaio del 1996, da impedire l’utile conclusione dei
lavori in commissione, impegnata – come si è detto – dal 30 novembre
1995 al 16 gennaio 1996: il giorno successivo il decreto-legge
decadde.
Siffatte circostanze spiegano perché nel dibattito in Assemblea
sia stata messa in luce da più parti l’esigenza di garantire il
libero svolgimento del mandato parlamentare, così tutelando
l’indipendenza delle Camere e gli essenziali spazi di libertà della
rappresentanza politica (Senato, 7 maggio 1997, seduta pomeridiana
dell’Assemblea).
Va dunque escluso che la deliberazione, adottata in seguito al
dibattito che si è richiamato, configuri quell’esercizio arbitrario
del potere parlamentare che risulterebbe invasivo delle attribuzioni
degli organi giurisdizionali, recando ingiustificato vulnus ai
diritti fondamentali della persona.
7. – Gli effetti della dichiarazione d’insindacabilità – non
limitata alla durata della legislatura – e i suoi innegabili riflessi
sull’esercizio della giurisdizione pongono, al tempo stesso,
l’esigenza che le Camere si attengano a canoni il più possibile
chiari e univoci nell’esplicazione di detto potere. Con riguardo ai
profili procedurali, va segnalato che nel sistema attuale la proposta
(argomentata) della Giunta può essere disattesa dall’Assemblea senza
alcun dibattito, il che peraltro non è accaduto in questo caso. In
proposito si può notare che, per assicurare il massimo di
trasparenza della procedura, si era già discusso in sede
parlamentare sull’opportunità di integrare il regolamento (si veda,
infatti, l’art. 18, comma 2-bis, del regolamento della Camera dei
deputati, come risulta modificato nella seduta del 20 maggio 1993,
destinato a valere, però, soltanto per l’autorizzazione a procedere,
poi soppressa dalla legge costituzionale n. 3 del 1993).
Va infine ricordato quanto si è osservato nella decisione su un
altro conflitto fra organo giudiziario e Camere che pure si collocava
in un contesto parzialmente diverso (sentenza n. 379 del 1996,
Considerato in diritto, n. 9); e va qui ribadito che la congruità
delle procedure parlamentari e la loro articolazione, e l’adeguatezza
delle sanzioni regolamentari, rappresentano per il Parlamento un
problema, se non di legalità, certamente di conservazione della
legittimazione dei suoi istituti di autonomia.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara che spetta al Senato della Repubblica affermare
l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della
Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Boso, diffuse il
15 gennaio 1996, secondo quanto deliberato dall’Assemblea del Senato
il 7 maggio 1997.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 novembre 1997.
Il Presidente: Vassalli
Il redattore: Guizzi
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria il 5 dicembre 1997.
Il direttore della cancelleria: Di Paola