Sentenza N. 38 del 1968
Corte Costituzionale
Data generale
26/04/1968
Data deposito/pubblicazione
26/04/1968
Data dell'udienza in cui è stato assunto
23/04/1968
BIAGIO PETROCELLI – Dott. ANTONIO MANCA – Prof. GIUSEPPE BRANCA –
Prof. MICHELE FRAGALI – Prof. COSTANTINO MORTATI – Prof. GIUSEPPE
CHIARELLI – Dott. GIUSEPPE VERZÌ – Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – Dott. LUIGI OGGIONI – Dott. ANGELO
DE MARCO – Avv. ERCOLE ROCCHETTI – Prof. ENZO CAPALOZZA – Prof.
VINCENZO MICHELE TRIMARCHI, Giudici,
secondo comma, del testo unico per la finanza locale, approvato con
R.D. 14 settembre 1931, n. 1175, modificato dall’art. 1, lett. h, del
D.L. 25 febbraio 1939, n.338, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 23 marzo 1966 dal Tribunale di Lucera nel
procedimento civile vertente tra la società cooperativa Daunia Latte e
la società a.r.l. Guglielmo Nicolai, iscritta al n. 128 del Registro
ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 213 del 27 agosto 1966;
2) ordinanza emessa il 10 ottobre 1966 dalla Corte di cassazione –
sezione I civile – nel procedimento civile vertente tra l’Ufficio delle
imposte di consumo di Grottolella e l’Amministrazione provinciale di
Avellino, iscritta al n. 237 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 28 gennaio 1967.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri e di costituzione dell’Ufficio delle imposte di consumo di
Grottolella;
udita nell’udienza pubblica del 21 marzo 1968 la relazione del
Giudice Enzo Capalozza;
uditi l’avv. Carlo Jossa, per l’Ufficio delle imposte di consumo di
Grottolella, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto
Coronas, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
La società cooperativa Daunia Latte di Foggia inoltrò ricorso al
Commissario prefettizio del Comune di Lucera e, in secondo grado, al
Prefetto di Foggia contro un verbale di accertamento e di liquidazione
dell’imposta di consumo sui materiali da essa impiegati nella
costruzione di un fabbricato, deducendo che, trattandosi di un opificio
industriale, aveva diritto all’esenzione dall’imposta. In data 18
ottobre 1964, ricorreva, per gli stessi motivi, al Ministro per le
finanze.
In pendenza di quest’ultimo grado del procedimento amministrativo,
la S.r.l. Guglielmo Nicolai, appaltatrice delle imposte di consumo del
Comune di Lucera, reclamava dalla cooperativa il pagamento del tributo,
notificandole un’ingiunzione fiscale. Avverso questa, l’interessata con
atto di citazione notificato il 23 febbraio 1965, proponeva opposizione
dinanzi al Tribunale di Lucera e chiedeva, altresì, la sospensione del
pagamento. Resisteva la società appaltatrice sia sul punto di merito,
sia sul punto della sospensione per cui negava, allo stato, la
competenza dell’autorità giudiziaria.
Nel corso del giudizio, l’opponente sollevava, in riferimento
all’art. 3 della Costituzione, la questione di legittimità
costituzionale della norma contenuta nell’art. 1, lett. b, del D.L. 25
febbraio 1939, n. 338, ed aggiunta, da tale D.L., come secondo comma
dell’art. 48 del testo unico per la finanza locale, approvato con R.D.
14 settembre 1931, n. 1175. Secondo la citata disposizione,
l’Amministrazione non può essere condannata al rimborso delle spese di
lite, neanche nel caso di soccombenza, se non siano stati prima
esauriti tutti i gravami amministrativi previsti dal successivo art.
90.
Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale di Lucera, con
ordinanza del 23 marzo 1966, rimetteva a questa Corte la suindicata
questione, osservando, quanto alla sua non manifesta infondatezza, che
il diritto alla ripetizione delle spese nei confronti della parte
soccombente, regolato in via di principio dall’art. 91, primo comma,
del Codice di procedura civile, costituisce un diritto soggettivo che
è leso dalla norma denunziata, la quale può anche stimolare la
Pubblica Amministrazione ad emettere ingiunzioni infondate.
Nel confutare gli argomenti addotti dalla società opposta, al fine
di sostenere la non fondatezza della questione, afferma il Tribunale
che il principio dell’autotutela è inammissibile nello stato di
diritto, almeno sotto il profilo della denunziata norma, e non può
concretarsi nella violazione di diritti, come quelli alla ripetizione
delle spese nei confronti della parte soccombente, che competono
indiscriminatamente ad ogni cittadino; che, infine, le analoghe
disposizioni della legislazione finanziaria statuenti un pari
privilegio per la Pubblica Amministrazione non giustificano la
violazione della Costituzione, ma potranno formare anch’esse, a tempo
debito, oggetto di denunzia a questa Corte per la dichiarazione della
loro incostituzionalità.
In questa sede, si è costituito il Presidente del Consiglio dei
Ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, che, con
deduzioni depositate il 6 luglio 1966, conclude chiedendo che la
questione sia dichiarata infondata.
Deduce l’Avvocatura generale che la norma denunziata, pur derogando
alla norma generale stabilita nel Codice di procedura civile circa la
condanna alle spese, è a sua volta espressione di un principio
generale adottato per tutti i tributi per i quali siano previsti
ricorsi o reclami in via amministrativa, ed ha lo scopo di dare
all’Amministrazione la possibilità di riesaminare il suo operato,
senza spesa per la stessa Amministrazione e per il contribuente. A
questi è infatti data facoltà di scelta fra la via amministrativa e
quella giudiziaria, la quale ultima implicherebbe una consapevole
rinunzia al rimborso delle spese di giustizia in caso di vittoria.
Ciò posto, si contesta che alla Pubblica Amministrazione sia data
una posizione di privilegio rispetto al cittadino, in contrasto con
l’art. 3 della Costituzione. La norma risponderebbe, invece, ad un
interesse pubblico, qual è quello di evitare che sia invocata la
tutela giurisdizionale con i conseguenti oneri di spese, quando la
pretesa possa essere pienamente soddisfatta da un provvedimento della
stessa Pubblica Amministrazione; e corrisponderebbe, altresì, ad
obiettive ragioni di giustizia, perché lascia l’onere a carico di chi
abbia costretto l’Amministrazione a sopportare spese di giustizia
altrimenti evitabili. Poiché si tratta di spese che non scaturiscono
da situazioni indipendenti dalla volontà del cittadino, non vi sarebbe
l’asserita lesione al patrimonio privato; trattandosi, poi, di un onere
in dipendenza di situazioni e di esigenze di natura oggettiva, non
sussisterebbe la lesione del principio di parità di trattamento che,
peraltro, segna un limite invalicabile per il legislatore ordinario
solo quando concerne le posizioni giuridiche del cittadini, ma non può
riguardare la Pubblica Amministrazione.
Si deduce ancora dall’Avvocatura generale che il principio di
eguaglianza non esclude che il legislatore possa, con specifiche e
concrete norme, regolare speciali situazioni giuridiche, qual è quella
in esame.
Si contestano infine le affermazioni contenute nell’ordinanza sul
pericolo che la Pubblica Amministrazione, non temendo una sua eventuale
condanna alle spese nel caso di soccombenza, possa essere indotta ad
emettere ingiunzioni infondate, e, in via generale, si esclude che il
principio dell'”autotutela” sia in contrasto con i principi dello stato
di diritto. Al riguardo rispettivamente si deduce che l’esenzione dalle
spese non può aver luogo quando il privato abbia sperimentato i rimedi
amministrativi previsti dalla legge, e che pretendere che la Pubblica
Amministrazione, pur quando agisce nell’esercizio delle sue funzioni,
si ponga su un piano di assoluta parità col privato, significa
prescindere totalmente dalla struttura e dalle funzioni della Pubblica
Amministrazione e anche dello Stato nel suo complesso.
L’Avvocatura generale conclude che la norma denunziata non
contrasta con l’art. 3 della Costituzione, ma se mai con un’altra norma
ordinaria, qual è l’art. 91 del Codice di procedura civile sulla
condanna alle spese nel caso di soccombenza, senza alcun rilievo sul
piano della legittimità costituzionale.
La medesima questione di legittimità costituzionale della norma
sopra riportata, anch’essa in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, è stata sollevata con ordinanza del 10 ottobre 1966
della Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra
l’Ufficio delle imposte di consumo di Grottolella, gestito
dall’I.N.G.I.C., e l’Amministrazione provinciale di Avellino, per
un’ingiunzione di pagamento dell’imposta di consumo sui materiali
impiegati nella costruzione di una strada provinciale. L’ingiunzione,
notificata il 5 ottobre 1960, era stata preceduta da un avviso di
accertamento di valore, avverso il quale l’Amministrazione provinciale
di Avellino aveva inoltrato, con esito negativo, ricorso al sindaco.
L’opposizione giudiziale all’ingiunzione, avanzata anche sotto il
profilo della prescrizione del diritto, era stata poi respinta in primo
grado ed accolta in sede di gravame. Ricorreva per cassazione l’Ufficio
delle imposte di consumo; e l’Amministrazione provinciale di Avellino,
nel resistere al ricorso, chiedeva che fosse sollevata questione di
legittimità costituzionale. La Corte di cassazione, nel ritenere non
manifestamente infondata la questione, osserva essere attendibile che
la norma denunziata alteri l’equilibrio fra gli interessi delle parti e
istituisca una sperequazione arbitraria nei confronti del contribuente.
Si afferma nell’ordinanza che l’opposizione al decreto ingiuntivo non
consente dilazioni, data la brevità del termini perentori, e che,
pertanto, dinanzi alle pretese, anche se infodate, dell’Ufficio delle
imposte di consumo, che molto spesso è gestito da un appaltatore, il
contribuente, se non vuole perdere il diritto al rimborso delle spese
giudiziali, è costretto a proporre contemporaneamente, con un onere
non lieve, sia l’opposizione al decreto ingiuntivo sia i gravami
amministrativi.
Secondo la Cassazione, la norma denunciata non può neppure trovare
giustificazione nell’esigenza di evitare all’Amministrazione di dover
subire l’onere delle spese senza essere stata prima posta in grado di
rivedere direttamente il suo operato, giacché, a tal fine, sarebbe
sufficiente l’atto di opposizione al decreto ingiuntivo. L’accennata
sperequazione tra contribuente ed Ufficio delle imposte di consumo
contrasterebbe, pertanto, con il precetto costituzionale che vieta al
legislatore di dare un diverso trattamento normativo a situazioni
obiettivamente eguali.
Nel giudizio in questa sede si è costituito l’Ufficio delle
imposte di consumo di Grottolella, il quale insiste sull’interesse
pubblico che giustifica la norma denunziata, sull’implicita rinunzia al
rimborso delle spese da parte del contribuente che preferisca alla via
amministrativa – intesa come sede naturale di impugnazione dell’atto
amministrativo – quella giudiziaria, e precisa, infine, a rettifica di
quanto è affermato nell’ordinanza, che non è fissato alcun termine
perentorio per impugnare l’ingiunzione fiscale davanti all’autorità
giudiziaria.
All’udienza del 21 marzo 1968 le parti costituite hanno insistito
nelle loro tesi e conclusioni.
1. – Le due cause, riguardando la stessa questione, possono essere
riunite e decise con unica sentenza.
2. – Nel vigente sistema di riscossione coattiva dell’imposta di
consumo, non si richiede l’osservanza di un termine perentorio per
proporre l’opposizione in via giudiziaria contro l’ingiunzione fiscale.
Avverso l’ingiunzione per il pagamento del tributo, il contribuente
può, dunque, senza alcun termine, proporre l’opposizione in via
giudiziaria, ovvero inoltrare, nei termini stabiliti, ricorso
all’autorità amministrativa, quando non lo abbia già proposto in
precedenza avverso l’accertamento del quale abbia avuto notizia.
L’art. 48 del T.U. per la finanza locale fa, però, divieto al
giudice, che accolga l’opposizione, di condannare alle spese di lite
l’amministrazione comunale o l’appaltatore, quando il contribuente non
abbia esaurito la procedura amministrativa.
L’ordinanza di rimessione denuncia quest’ultima norma per
violazione del principio di eguaglianza, in quanto collocherebbe il
soggetto creditore del tributo in una posizione privilegiata rispetto a
tutti gli altri titolari di diritti di credito, e in genere agli altri
cittadini, convenuti in giudizio.
Deduce in contrario l’Avvocatura generale dello Stato che la
suddetta disposizione, pur derogando alla norma del Codice di procedura
civile sulle spese giudiziali (art. 91), risponderebbe ad un principio
di ragione, accolto anche per le imposte indirette statali e inteso a
soddisfare l’interesse pubblico di dare all’Amministrazione la
possibilità di rivedere il suo operato attraverso i propri organi,
prima di esser chiamata in giudizio, col vantaggio, inoltre, per il
contribuente, di non dover sostenere alcuna spesa per far valere le sue
ragioni nella sede amministrativa.
In proposito, va osservato, in primo luogo, che la norma denunciata
non s’informa ad un principio vigente anche per i tributi erariali. Per
questi, infatti, le singole leggi (art. 148 del R.D. 30 dicembre 1923,
n. 3269, sull’imposta di registro; art. 96 del R.D. 30 dicembre 1923,
n. 3270, sulle imposte di successione; art. 31 del D.P.R. 25 giugno
1953, n. 492, sull’imposta di bollo) richiedono semplicemente, perché
l’Amministrazione possa esser condannata alle spese, che la domanda
giudiziale sia proposta dopo il decorso del termine di novanta giorni
dalla presentazione del ricorso in via amministrativa. E, anche a tale
riguardo, non è senza significato che al suddetto criterio, molto meno
rigoroso di quello cui s’ispira la norma denunziata, la giurisprudenza
abbia apportato un temperamento, nel senso che neppure l’anticipata
proposizione della domanda giudiziale impedisca la statuizione sulle
spese di lite a carico dell’Amministrazione soccombente, se la causa
sia portata in discussione dopo il suddetto termine, e sia fallito lo
scopo cui la norma è preordinata, per non avere l’Amministrazione
adottato, entro il termine stesso, una determinazione conforme a
giustizia.
Ma ciò che appare decisivo è che nel caso in esame la esenzione
del soggetto impositore della condanna alle spese del giudizio civile,
quando non sia stata percorsa la via dei ricorsi amministrativi, si
risolve in un trattamento di favore sproporzionato e privo di una
ragionevole giustificazione. A consentire all’Amministrazione la
possibilità di correggere nel proprio ambito gli errori verificatisi
nell’imposizione, sarebbero sufficienti, infatti – come la legislazione
testé ricordata, relativa ai tributi statali, conferma – disposizioni
meno rigorose, nei confronti del contribuente, di quella impugnata.
È vero che con la sentenza n. 87 del 1962 questa Corte ha escluso
che contrastino in via di principio con la Costituzione talune
disposizioni che non consentono di adire l’autorità giudiziaria prima
che sia stata percorsa la via dei reclami amministrativi; ma ben altra
cosa è la comminazione, come nella specie, di una conseguenza che, in
ultima analisi, viene ad assumere il carattere di una sanzione
patrimoniale nei confronti di chi, pur avendo ragione, non abbia
percorso la via dei ricorsi amministrativi.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale del secondo comma
dell’art. 48 del testo unico per la finanza locale, approvato con R.D.
14 settembre 1931, n. 1175, secondo il testo risultante dall’art. 1,
lett. b, del D.L. 25 febbraio 1939, n. 338.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1968.
ALDO SANDULLI – BIAGIO PETROCELLI –
ANTONIO MANCA – GIUSEPPE BRANCA –
MICHELE FRAGALI – COSTANTINO MORTATI
– GIUSEPPE CHIARELLI – GIUSEPPE
VERZÌ – GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
– FRANCESCO PAOLO BONIFACIO – LUIGI
OGGIONI – ANGELO DE MARCO – ERCOLE
ROCCHETTI – ENZO CAPALOZZA – VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI.