Sentenza N. 383 del 1997
Corte Costituzionale
Data generale
11/12/1997
Data deposito/pubblicazione
11/12/1997
Data dell'udienza in cui è stato assunto
27/11/1997
Presidente: dott. Renato GRANATA;
Giudici: prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof.
Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI,
dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo
ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA, prof. Carlo MEZZANOTTE, prof. Guido
NEPPI MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
234, terzo comma, del codice penale militare di pace, promosso con
ordinanza emessa il 16 maggio 1996 dal tribunale militare di Padova
nel procedimento penale a carico di Mariani Carletti Giuseppe,
iscritta al n. 1181 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale,
dell’anno 1996;
Udito nella camera di consiglio del 2 luglio 1997 il giudice
relatore Francesco Guizzi.
pluriaggravata e continuata, il tribunale militare di Padova ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt.
29 e 234, terzo comma, del codice penale militare di pace, nonché
degli artt. 30 e 31, in relazione soltanto all’art. 3 della
Costituzione, nella parte in cui prevedono per i sottufficiali e i
graduati di truppa un trattamento diverso da quello assicurato agli
ufficiali, con riguardo alla privazione temporanea del grado.
Secondo il giudice a quo la pena della rimozione – che consegue
automaticamente alla condanna per il reato di truffa militare (artt.
29 e 234, terzo comma, citati) – dovrebbe essere irrogata nei
confronti di qualsiasi militare e invece, con lesione del principio
di eguaglianza, è statuita, ai sensi dell’art. 29, per i militari
che rivestano un grado o appartengano a una classe superiore
all’ultima. Non vale obiettare che la rimozione concerne i militari
graduati, perché solo costoro violano i doveri sanciti
dall’ordinamento: la pena, prosegue il Collegio, si applica infatti
al militare, il quale riveste un grado al momento della condanna, e
non rileva che la qualifica sia presente, o manchi, al momento della
commissione del reato.
Il tribunale invoca anche il principio di “umanità della pena”
(art. 27, terzo comma, della Costituzione) per contestare
l’applicazione automatica di una sanzione, come la rimozione, che
viene in essere anche in seguito a reati non particolarmente gravi,
mentre il grado maturato dovrebbe sempre essere salvaguardato, fatta
eccezione per i casi che danno luogo all’applicazione delle pene
accessorie della degradazione (artt. 28 e 33 del codice penale
militare di pace) o dell’interdizione dai pubblici uffici (artt. 28 e
29 del codice penale). In proposito si richiama la giurisprudenza
costituzionale sull’illegittimità della destituzione di diritto e la
legge 7 febbraio 1990, n. 19, che vi ha dato attuazione, senza
peraltro incidere sul sistema delle pene accessorie, ma determinando
qualche incertezza interpretativa.
1.2. – Il rimettente solleva altresì, in riferimento all’art. 3
della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli
artt. 30 e 31 del codice penale militare di pace, denunciando la
disparità fra sottufficiali e graduati di truppa, privati
temporaneamente del grado durante l’espiazione della pena principale,
e gli ufficiali, che – sebbene sospesi dall’impiego – mantengono
nell’ambiente carcerario le attribuzioni del grado. Il rispetto della
persona umana – conclude l’ordinanza – non consente che il condannato
sia privato del grado, pur in via provvisoria, quando dalla sentenza
di condanna non discenda la perdita definitiva di esso.
costituzionale degli articoli 29 e 234, terzo comma, del codice
penale militare di pace, perché l’applicazione automatica della
rimozione, anche a seguito di reati non particolarmente gravi, si
porrebbe in contrasto con gli articoli 3 e 27, terzo comma, della
Costituzione; secondo il giudice a quo, il grado dovrebbe essere
salvaguardato, fatta eccezione per i casi che impongono la
degradazione (artt. 28 e 33 del codice penale militare di pace) o
l’interdizione dai pubblici uffici.
Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 29,
citato, consisterebbe nel fatto che la rimozione è prevista, in
violazione del principio di eguaglianza, esclusivamente per coloro
che rivestono un grado o appartengono a una classe superiore
all’ultima, e non per qualsiasi militare.
Il tribunale solleva altresì, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt.
30 e 31 di detto codice, denunciando la disparità che sussiste fra
sottufficiali e graduati di truppa, privati temporaneamente del grado
durante l’espiazione della pena principale, e gli ufficiali, che –
sebbene sospesi dall’impiego – mantengono nell’ambiente carcerario le
attribuzioni del grado.
2. – È infondata la questione di legittimità costituzionale che
concerne gli artt. 29 e 234, terzo comma, del codice penale militare
di pace, con riguardo all’automatica applicazione della rimozione.
Non è corretto il richiamo alla giurisprudenza sulla “destituzione
di diritto”, avendo questa Corte già messo in luce la distinzione
fra tale tematica e quella delle pene accessorie (sentenza n. 363 del
1996; ordinanze nn. 201 e 137 del 1994, sentenza n. 197 del 1993, di
cui v. in particolare il n. 4 del Considerato in diritto). Mentre
nella sede disciplinare è possibile commisurare la sanzione
all’entità del fatto, nell’applicazione delle pene accessorie non è
dato analogo apprezzamento; ad esse è estranea, dunque, la
statuizione contenuta nell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19,
senza che da ciò scaturisca alcuna incertezza interpretativa cui
invece accenna l’ordinanza.
Contestando l’automatismo vigente, il Collegio rimettente vorrebbe
ponderare le circostanze del fatto e la personalità dell’agente non
soltanto per determinare la pena principale, ma per decidere
sull’applicazione di quella accessoria; non si interroga, però, sui
rischi di irragionevolezza che la differenziazione comporterebbe, una
volta riconosciuta una discrezionalità giudiziaria sull’an senza
indicazioni di criteri. In altri passaggi, l’ordinanza sollecita una
pronuncia che modifichi il sistema attuale, ma un intervento di tipo
additivo invaderebbe l’ambito riservato alle autonome scelte del
legislatore, al quale spetta riesaminare la disciplina delle pene
accessorie, soprattutto a carattere interdittivo, nell’ambito della
complessiva, e auspicabile, revisione del codice penale militare di
pace (sentenza n. 490 del 1989). In quella sede si potrà valutare se
introdurre pene accessorie temporanee e se rivedere il lamentato
automatismo, senza creare comunque disparità. Già oggi, d’altronde,
la sospensione condizionale della pena si estende alle pene
accessorie (art. 4 della citata legge n. 19 del 1990), il che mitiga
in parte il sistema.
Il giudice a quo sottolinea che la rimozione viene in essere anche
a seguito di reati non particolarmente gravi; ma affronta tale
profilo circa l’applicazione automatica della pena accessoria, e non
in relazione all’asserita sproporzione rispetto al reato per il quale
è inflitta la condanna, con specifico riguardo al reato di truffa
militare (art. 234 del codice penale militare di pace, ov’è
prevista la pena fino a cinque anni).
3. – Il tribunale militare di Padova si duole, poi, del diverso
regime tra ufficiali e sottufficiali, con riguardo all’applicazione
della pena accessoria della rimozione, ai sensi dell’art. 29 del
codice penale militare di pace, e alla sospensione dall’impiego e
dal grado di cui agli artt. 30 e 31. Entrambe le censure sono
manifestamente inammissibili.
3.1. – Il Collegio rimettente ravvisa un distinto motivo di
illegittimità costituzionale dell’art. 29, perché la rimozione è
stabilita esclusivamente per i militari che rivestono un grado, e non
per tutti. Ma in questo modo si contesta la conformazione
dell’istituto, come risulta dalla valutazione discrezionale del
legislatore, che questa Corte non può sindacare nel merito, fatti
salvi eventuali profili di irragionevolezza, peraltro non dedotti.
Onde, la manifesta inammissibilità della questione.
3.2. – Ulteriore doglianza è indirizzata all’art. 31 del codice in
esame, perché soltanto gli ufficiali, quantunque sospesi
dall’impiego, mantengono nell’ambiente carcerario le attribuzioni del
grado (l’ordinanza menziona pure l’art. 30, ma esso concerne la
sospensione dall’impiego, ed è dunque evocato impropriamente).
Anche tale questione è inammissibile, per difetto di rilevanza,
dal momento che la condanna per truffa militare implica, quale pena
militare accessoria, non la mera sospensione dal grado, bensì la
rimozione (art. 234, ultimo comma, del codice citato); e in proposito
mette conto ricordare che, ai sensi dell’art. 4 della legge 10 aprile
1954, n. 113 (Stato degli ufficiali dell’Esercito, della Marina e
dell’Aeronautica), il grado è indipendente dall’impiego: sì che
solo per gli ufficiali è possibile disporre la sospensione
dall’impiego e non dal grado.
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 29 e 234, terzo comma, del codice penale militare di
pace, nella parte in cui prevedono l’automatica applicazione della
pena accessoria della rimozione, sollevata, in riferimento agli artt.
3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal tribunale militare di
Padova con l’ordinanza in epigrafe;
Dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale dei citati artt. 29 e 234, terzo comma, nella parte in
cui prevedono la rimozione soltanto per i militari che rivestono un
grado o appartengono a una classe superiore all’ultima, e degli artt.
30 e 31 del codice penale militare di pace, sollevate, in riferimento
all’art. 3 della Costituzione, dal tribunale militare di Padova con
la stessa ordinanza.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 27 novembre 1997.
Il Presidente: Granata
Il redattore: Guizzi
Il cancelliere: Di Paola
Depositata in cancelleria l’11 dicembre 1997.
Il direttore della cancelleria: Di Paola